In questo articolo, pubblicato sulla rivista Studi Romanzi, viene analizzata una ballata raccolta dal Nigra ma che non venne pubblicata nei Canti popolari e rimase poco conosciuta, pur essendo molto significativa.

COSTANTINO NIGRA, LA PASTORELLA E LE ‘ORIGINI’ DELLA LIRICA ROMANZA

Il cacciatore nel bosco mentre che a caccia andava incontrò una contadinella graziosa e bella e il cacciatore se ne innamorò.

  1. La ‘pastorella’ di Costantino Nigra

Lo spunto per questo intervento mi è stato offer- to dalla riedizione di un articolo che Costantino Ni- gra aveva pubblicato sulla Rivista Contemporanea nel novembre 1858. Il breve contributo era inteso a di- vulgare il testo di una ballata raccolta vicino al suo paese natale, sulle montagne del Canavese, alla quale volle premettere alcune pagine per rievocare le eve- nienze di quella registrazione. Pagine che, già a una prima lettura, appaiono dense di reminiscenze lette- rarie, così consistenti da influenzarne sensibilmente la partitura immaginifica e narrativa. L’autore medesi- mo, del resto, quando ripubblicò la ballata nei Canti popolari del Piemonte (1888), non le ripropose, sostituen- dole con l’indicazione « Sale – Castelnuovo, Canavese. Cantata da Domenica Bracco ».

Che il testo del ’58 sia qualcosa di diverso di un semplice resoconto lo confermano alcuni dettagli a prima vista marginali, e tuttavia significativi in quanto fra loro concordi. Intanto, in esso si rinvengono al- meno due spie eloquenti che mostrano un recupero memoriale di motivi desunti dalla letteratura: i versi dell’Inno callimacheo a Diana (che Nigra stava tradu- cendo (3)) sono scelti quale termine di paragone per descrivere la muta di cani all’inseguimento delle prede , mentre l’accenno alla ‘Caccia di sant’Uberto’ – un motivo folclorico caro a poeti e scrittori dell’Ottocento  – è chiamato a esemplificare la foga e il frastuono della battuta di caccia, ‘virandone’ la conte- stualizzazione in chiave leggendaria esattamente come la precedente citazione era stata strumento di un ana- logo ‘viraggio’ in chiave mitologica. Ma c’è un modello che impronta in maniera più decisa la scansione diegetica, funzionando a un tem- po da innesco e pattern della narrazione. Tale model- lo è fornito da un ‘genere’ ampiamente attestato nel- la lirica del medioevo romanzo (e non solo): la ‘pastorella’, genere se non ‘minore’ senz’altro collaterale e/o alternativo alla poesia trobadorica e alla concezione dell’amore a cui si ispirava, la fin’amor, fondata su « una sproporzione ineliminabile fra l’amante e l’amata: ostacolo in re alla realizzazione del desiderio (dezirier) ma fonte inesauribile di affinamento indivi- duale e sociale » . Di questa concezione, com’è noto, vengono ribaltati specularmente gli assunti, e laddove il canto cortese prospetta un rapporto amata/amante che li assimila rispettivamente al signore feudale e al suo vassallo – tendendo pertanto a dilazionare indefinitamente un ‘coronamento’ carnale del rapporto in quanto annullerebbe di fatto ogni distanza gerarchica all’interno della coppia – la ‘pastorella’ presenta la situazione opposta: un cavaliere (che racconta in pri- ma persona la propria ‘avventura’) se ne va cavalcan- do per la campagna in una mattina di primavera fin- ché in prossimità di un bosco incontra una pastora, so- vente intenta a cantare. Senza troppi preamboli le chiede di concedersi a lui, in cambio di un dono: una cintura, delle vesti, un monile, dei denari... La fan- ciulla di solito rifiuta e ne consegue un contrasto fra i due che può risolversi:

  1. in un ripensamento della pastorella, finalmen- te convintasi a cedere alle lusinghe del cavaliere;
  2. nella risoluzione del cavaliere a desistere (talo- ra a seguito dell’arrivo del fidanzato della ragazza o di altri pastori);
  3. in un atto di violenza: il cavaliere prende la fanciulla con la forza (benché non di rado, consuma- to l’amplesso, quest’ultima se ne dichiara pienamente soddisfatta, anzi, pentita di non aver subito accondi- sceso alle avances dello sconosciuto).

Se, ebbe modo di osservare d’Ovidio, « per fare un civet di lepre serve una lepre; per fare una pasto- rella servono un cavaliere e una pastora » (11), non solo nel resoconto del Nigra ci sono entrambi gli ‘ingre- dienti’, ma è anche possibile appurare come esso ri- produca lo schema contenutistico peculiare a questo tipo di componimenti, ricalcandone le fasi e gli aspet- ti principali. Per cominciare, il protagonista (Costantino Nigra), voce narrante, è di una levatura sociale medio-alta , poeta e cacciatore; l’episodio avviene alla mattina, su un poggio boscoso , nei pressi di una fontana dove erba verde e fiori paiono evocare la primavera lontana . Destatosi da un breve sonno, egli sente una voce femminile che canta un canto popolare . La fanciulla,  rivelatasi una pastora , non mostra alcun timore reverenziale nei confronti del suo interlocutore – né del suo status – tanto che l’apostrofa scherzosamente:

« Cacciatore che dorme non piglia lepri » , controbattendo sempre con arguzia alle sue domande. Ini- zialmente si schermisce e rifiuta di accordare quanto le si chiede: in questo caso un canto, non certo la sua verginità , nonostante qualche reminiscenza della natura ‘erotica’ della richiesta sia sublimata nell’offerta di un bacio (declinata con energia dalla pastora) e nel ricordo di una « vecchia storia » che novellava di come la voce divina di un’ignota cantatrice avesse sti- molato la « lasciva fantasia » di un castellano facendo nascere in lui la smania irrefrenabile « di possederla a ogni costo » .

Alla fine, la giovane è persuasa dalla promessa di un dono: « “vi prometto, se cantate la canzone, di dar- vi una delle belle cose che ho nel mio carniere, a scelta vostra, con un bacio per sopramercato”. “Del bacio non so che fare. Ma vediamo il carniere?” ». Fra una pernice, un fiaschetto e una coppa, un porta- sigari ricamato, una mela, un corno da caccia, un fru- stino, un « astuccio di zolfini », un portafoglio, un col- tello, un’edizione tascabile delle Notti Attiche, un’am- polla d’ammoniaca, una borsa piena di pallini, un paio di speroni  e un collare di cordovano sulla cui laminetta era inciso il nome del proprietario ella opta per quest’ultimo, destinato a diventare « il colla- re per la capra bianca » . Allacciandolo al collo del- l’animale la fanciulla concede ciò che voleva il caccia- tore, e dà principio alla canzone.

  1. Ricerca delle ‘origini’ e ‘pastorelle’ piemontesi

Non si può fare a meno di notare come le corri- spondenze strutturali e contenutistiche con il ‘genere’ della ‘pastorella’ siano numerose, evidenti e caratte- rizzate da un’apprezzabile coerenza. Al punto da in- durre a interrogarci sul perché di simili – e così sco- perte – analogie. Per trovare una risposta dobbiamo rivolgerci al clima culturale di quegli anni: clima ro- mantico, o tardo-romantico, che coniugava gli interes- si per il medioevo, per la filologia, per linguistica e dialettologia, per le tradizioni popolari, in un sincre- tismo che trova riscontro nel programma ampio e ar- ticolato di una nuova disciplina, la filologia romanza. Un profilo di intellettuale che ben si attaglia alla figura di Costantino Nigra: nipote di un glottolo- go, genero di un filologo, egli seppe conciliare una brillante carriera diplomatica con una disciplina rigo- rosa che lo condusse alla stesura di opere linguisti- che, filologiche e di taglio etnografico, unendo la cu- riosità per il folclore con una viva attenzione per la cultura e la letteratura medievali .

In piena sintonia con una visione del medioevo quale momento storico in cui emersero le identità nazionali, nell’ambito della letteratura le ricerche del tempo vertevano principalmente sulle ‘origini’ dei ‘ge- neri’, presumendone perlopiù la matrice ‘popolare’: ferveva (e appassionava) la discussione sulle origini dell’epica – investigate, fra gli altri, da Gaston Paris, Pio Rajna, Paul Meyer, Léon Gautier – e della lirica oggetto delle indagini di Friedrich Diez, Jakob Wac- kernagel, Gaston Paris e di Alfred Jeanroy, a cui si deve lo studio forse più sistematico in merito.

Ai fini della nostra analisi, acquisisce una rilevanza precipua il fatto che tanto Diez (28) quanto Wackernagel, in saggi datati entrambi 1846 (dunque a ri- dosso dello scritto preso in esame), avanzarono l’ipo- tesi della sopravvivenza di una lirica popolare arcaica nei ‘generi’ più specifici della poesia oitanica: ‘canzo- ni a ballo’, ‘contrasti’, ‘canzoni di tela’, ‘albe’ e, appunto, ‘pastorelle’, accomunabili per il loro proporre circostanze e personaggi estranei alla canso. In particolare, sarebbero i ritornelli, specie se attribuiti a una donna, a recare le tracce più cospicue di arcaici- tà, offrendosi quali frammenti superstiti di una pro- duzione (e di una esecuzione) poetica irrimediabil- mente perduta. Jeanroy, nella sostanza, accoglie que- sta tesi, rimarcando però come tali generi (e gli stessi refrains, ricorrenti nelle ‘pastorelle’) fossero solo apparentemente antichi, essendo in realtà frutto di una rie- laborazione cortese risalente, al massimo, agli inizi del XIII secolo.

Mentre, da un lato, la ‘pastorella’ – e i suoi re- frains – erano al centro del dibattito letterario che coinvolgeva i più importanti studiosi dell’epoca, per altro verso essa sopravviveva in alcune delle ballate raccolte dallo stesso Nigra. Ballate che riproducono le tre tipologie in cui si articola il genere modifican- done però le percentuali di frequenza: se la lirica an- tico-francese concedeva al cavaliere alte possibilità di successo (immediato o raggiunto con la forza) la for- ma più frequente nei Canti popolari del Piemonte è quella in cui le brame del protagonista (cavaliere, cac- ciatore, figlio di re, principe o, semplicemente, gentil galant) non trovano soddisfazione alcuna e questi è costretto a recedere.

E se la ‘variante’ che maggiormente si approssima allo schema sopra delineato (2 - con l’importuno pre- tendente che abbandona il campo) è rappresentata da La figliola prudente (Nigra 101) in cui la pastora ri- fiuta profferta e doni perché, in caso contrario, i genitori la bastonerebbero (a), tale variante è minorita- ria rispetto alle versioni di Tentazione (Nigra 78), Il finto fratello (Ferraro, Canti popolari monferrini 67), La bella pastora (Ferraro, Canti popolari di Ferrara 3), La pastorella (Ferraro, Canti popolari del Basso Monferrato 38), La tentazione (Ferraro, Canti monferrini 8), La tentazione (Ferraro, Canti popolari della provincia di Reggio Emilia 18), La pastorella (Ferraro, Canti popolari di Cento 22). Testi, cui la lirica romanza medievale derivasse integralmente dalle can- zoni di danza eseguite dalle donne in occasione delle feste prima- verili. A Gaston Paris Nigra dedicherà una ‘romanza’ intitolata Tri- stano e Isotta (Roma 1897) questi, che fanno registrare una differenza fondamen- tale a fronte del ‘modello’ sinteticamente tracciato: in essi il corteggiatore altri non è che il fratello stesso della pastora, intenzionato a saggiarne la virtù (b). Prova peraltro egregiamente superata dalla fanciulla che si nega, con la sola eccezione di una versione genovese in cui la giovane accetta a patto di tenere nascosta la cosa al padre e alla madre (34).

Vi è poi la variante del ‘seduttore beffato’ dalla pastora furba (così in Domanda indiscreta, Nigra 70, e Il galante burlato, Nigra 75), la quale gli dà un ap- puntamento sotto un albero, o lo conduce in una ca- panna, per poi farvelo restare tre giorni, o tutta la notte, nella vana attesa di un incontro amoroso (c). E, ancora, quella facente capo a ballate quali La pa- stora e il lupo , La pastorella (Ferraro, Canti popolari di Cento), La pastora e il lupo (Ferraro, Canti monferrini 9) dove si canta di un cacciatore che salva un agnellino dalle fauci del lupo: la pastora, ricono- scente, gli promette in cambio la lana della bestiola ma egli rifiuta, chiedendo in sua vece un bacio che non otterrà, volendo la donna restare fedele al mari- to (d) . Infine, esiste un’ulteriore variante (e) che fa riscontrare qualche punto di contatto con la cosiddet- ta pastorella ‘oggettiva’ (La pastora fedele, Nigra, - La pastorella, Ferraro, Canti popolari monferrini: il seduttore offre alla pastora il mantello, offerta che ella respinge in quanto fidanzata; in quel mentre soprag- giunge il fidanzato al suono del clarino e su quella melodia la fanciulla si mette a danzare suscitando nel- l’ ‘ammiratore’ un’ancor più viva – per quanto frustrata – infatuazione.

Meno attestata è invece la forma in cui la pastora cede volontariamente al suo seduttore (1): a parte la succitata versione genovese di Tentazione e le sue omo- loghe francesi e provenzali (a) (dove, come si ricorde- rà, non si tratta di un seduttore vero e proprio ma del fratello della fanciulla ansioso di metterla alla pro- va), rientra in tale tipologia La fuga , in cui il figlio di un re incontra una pastora e le confida che se solo lei fosse un poco più grande d’età le chie- derebbe di seguirlo nella sua terra; la giovane insiste perché egli la porti con sé comunque ma, una volta giunti a destinazione, finisce col pentirsi e togliersi la vita (b) . E forse vi si può inserire anche (c) Il pelle- grino di s. Iacopo di Galizia (Ferraro, Nuova raccolta di canti popolari monferrini 6, Canti popolari del Basso Monferrato), visto che ad accluderla nel novero delle ‘pastorelle’ è lo stesso Ferraro che in nota cita Raimon Vidal (« la parladura francesca val mais et es plus avines per far romans e pastorellas ») e conclude:  « ecco una pastorella. Forse quando Guido Cavalcanti incontrò la sua Mandetta intavolò con lei un dialogo simile a questo nel suo ritorno da S. Iacopo di Galli- zia » (38). Il protagonista è un pellegrino di ritorno da Compostela che, vedendo una bella ragazza con due grassi capponi, le chiede prima di venderglieli, poi di mangiarli insieme, e di fare l’amore: alle ritrosie di lei egli ribatte che « san Iaco l’è ïn gran sant / e ista grazia u m’ha fa / fè l’amur cur done bele / u m’ha dicc ch’u n’è nent pcà » .

Soltanto in un caso, invece, troviamo attualizzata la tipologia in cui  il seduttore prende la fanciulla con la forza: Il cacciatore (Ferraro, Canti popolari del basso Monferrato). La ballata canta di una ‘signori- na’ che, perdutasi nel bosco, chiede la strada a un cacciatore: questi dice di essere disposto a indicarglie- la in cambio di un bacio non esitando, vista la rilut- tanza della giovane, a usare modi più bruschi: « l’ha ciapala pr’al so man bianchi, / l’ha butala sovra al terren, / – Oh che gust, oh che piaser / la mia bellina s’addormentò ». Il lieto fine però, almeno in questa versione, è assicurato: al risveglio, la mattina successiva, come già notai altrove, questa è una di quelle poesie provenzali dette pastorellas che per la loro gajezza fecero il giro dell’Europa. Dicesi di Guido Cavalcanti che nel tornare da San Giacomo di Gallizia incontrò una donzella chiamata Mandetta, colla quale in- tavolò un dialogo in una poesia amorosa o pastorella. Infatti in generale tutte le poesie popolari che trattano di pastorelle sono amorose. La presente finiva con una quartina oscena affatto, che io ometto, ma che si può bene immaginare » (ibid., p. 388). Non si può però escludere che Ferraro sia stato indotto a definire ‘pasto- rella’ questa ballata principalmente (anche se non esclusivamente) dal recupero memoriale della ‘pastorella’ di Cavalcanti, sollecitato dalla comune ambientazione del ritorno da Santiago. Ricordiamo che il riferimento al santuario iacobeo compare anche in D’Astarac venia di Guiraut Riquier, nonché in una delle poche pastorelle galego-portoghesi pervenuteci, Quand’eu hun dia fuy en Compostela di Pedr’Amigo de Sevilha . il cacciatore propone alla fanciulla – disperata per quanto è accaduto – un matrimonio ‘riparatore’:

Ala matin-na la si disvija, si disvija tutta an dulur,

– O povra mi ca sun tradija sun tradija nell’amur! –

– No, no non t’è tradija,

al cassadur a sa ben tratà, benchè ch’a sii na povra fija al cassadur vi spuserà (40)

  1. ‘Pastorelle’ e livelli di cultura

I dati in nostro possesso ci consentono di fare al- cune considerazioni conclusive. Se è ormai assodato che la ‘pastorella’ medievale è un genere ‘alto’ e solo convenzionalmente popolareggiante (41), è interessante constatare come essa, trasformata in ballata, perfetta- mente si adegui ai canoni della canzone popolare, basata – è lo stesso Jeanroy a sottolinearlo (42) – su « sentimenti d’onestà » e rispettosa dell’istituzione del matrimonio, ma soprattutto assueta, « in quanto irrea- le », a mettere in scena « un’umanità omogenea » (43). Ce ne offrono indirettamente la riprova sia il netto prevalere delle versioni in cui un’‘onesta’ pastora sa tener fermamente testa al suo interlocutore (come av- viene nella prima ‘pastorella’ di cui ci è conservato il testo, L’autrier jost’una sebissa di Marcabru), sia il finale tragico de La fuga che trova un parallelo rove- sciato ma di ugual segno nel lieto fine de Il cacciatore: l’uno e l’altro testimoni di un’ormai compiuta e per- fezionata moralizzazione del motivo, per cui la perdi- ta dell’onore può essere riscattata unicamente dalla morte o da giuste nozze.

Vi è tuttavia un altro aspetto, a mio giudizio, de- gno di essere approfondito: il breve articolo di Nigra si presta infatti benissimo a diventare un ottimo ‘la- boratorio’ di analisi delle dinamiche che regolano i rapporti fra cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’. Innanzitut- to va rilevato come l’autore si sia confrontato con un genere letterario – quello della ‘pastorella’ – con cui poté essere entrato in contatto (e che poté aver frui- to) per il tramite di due ‘canali’: quello ‘culto’ della storia della letteratura e quello ‘popolare’ delle balla- te, connesso alla raccolta di ‘materiale’ ancora vivo e vitale mediante le metodologie proprie della ricerca sul campo. Evenienza, questa, che sicuramente contribuì a ingenerare interferenze semantiche e interpretative filtrate nella pratica della scrittura.

Il racconto stesso, poi, più che una ‘pastorella’ ri- sulta un autentico patchwork di ‘pastorelle’ che si ri- flettono reciprocamente in una sorta di gioco di spec- chi. Si è visto come la narrazione, in una prosa forbita ed elegante, si sviluppi assecondando e ricalcando il modello letterario della ‘pastorella’: in questa che po- tremmo definire ‘macropastorella’ troviamo incastonati altri frammenti di ‘pastorelle’ quasi a voler amplifica- re, o replicare, tale modello riassumendone tutte le potenziali varianti. Come nelle ‘pastorelle’ medievali vi è riportato un brano della canzone cantata dalla pastora (« l’è cuand ben che sia giovnota / tan l’amor la saj servir ») (45), brano che in questo caso – in una ingegnosa quanto criptata mise-en-abyme – appartiene a propria volta a una ‘pastorella’, per la precisione a La fuga (Nigra 15), riconducibile alla tipologia 1 (la pastora cede volontariamente al suo seduttore) ma reinterpretata in senso ‘tragico’. Inoltre, la richiesta avanzata da Nigra alla pastora affinché questa gli intonasse la canzone che cantava al suo arrivo (« “Zitta là! Non è questa la canzone che voglio io. Dite l’altra”. “Quale?” “Quella che cantavate venendo qui” ») riecheggia i versi iniziali di un’al- tra ballata, La fidanzata infedele (Nigra: « cantè, bargera, cantè d’üna cansun, / cula che vui cantave guardant i vost mutun », che esordisce come una ‘pastorella’ (un principe o un conte si rivolge a una pastora che canta) ma prosegue su un altro registro (la canzone palesa al protagonista il tradimento da parte della fidanzata ) dando prova di come i singoli ‘moduli’ che compongono le ‘pastorelle’ possano essere estrapolati dal plot originario e utilizzati quali elementi autonomi, dimostrando una considerevole duttilità espressiva. In ultimo, vi è l’inserimento di quella che Nigra chiama « una vecchia storia che a me fanciullo narra- vano le donne di casa » (49). Il pretesto è fornito dalla soavità della voce udita dall’autore appena destatosi dal sonno senza vedere chi la modulasse, e dal so- spetto che essa potesse uscire da una « bocca deforme e schifosa »: come in quella « vecchia storia » in cui si parlava di un « truce conte » che, sentito un canto lontano di donna, immaginandola bellissima, subito vol- le possederla ma, giunto alla capanna dalla quale pro- veniva la melodia, scoprì con raccapriccio che era invece una vecchia « curva dagli anni, cenciosa e sfor- mata (...) losca e sorda » sicché, sopraffatto dalla rab- bia, la uccise con la spada (50). Abbiamo dunque di nuovo a che fare con un nobile sedotto da un canto di fanciulla, ma la cantrice delude le sue aspettative, essendo brutta e repellente. Un dettaglio, questo, che rivela parziali omologie con un tipo di ‘pastorella’, la ‘serrana’, che la bruttezza e, insieme, gli smodati ap- petiti sessuali apparentano in maniera perspicua alla ‘donna selvatica’ . Il che, tangenzialmente, ci conduce a quella che Michel Zink indica come l’essenza stessa della ‘pastorella’, l’effettivo nucleo generativo del genere (52), rappresentando l’essere pastora, o villa- na, per i poeti medievali null’altro che la condizione più prossima alla terra e alla natura, un succedaneo dello stato selvaggio in cui può trovar luogo d’espres- sione un erotismo altrettanto ‘selvaggio’, alieno alla società civilizzata o cortese.

  1. Epilogo

Assunta questa prospettiva, lo scritto di Costanti- no Nigra lascia intravedere in filigrana – forse in ragione dei due ‘canali’ attraverso cui plausibilmente prese dimestichezza con questo ‘genere’ – la compre- senza dei due registri: alto/basso, colto/popolare. Come la ‘pastorella’ medievale, anche la sua ‘pasto- rella’ (vale a dire la narrazione introduttiva) è solo convenzionalmente popolareggiante, svelando di essere il prodotto dell’elaborazione letteraria di un autore colto e raffinato. Per contro, la ballata (vale a dire La guerriera, oggetto della registrazione) costituisce l’esempio di un genere genuinamente popolare, dove è presentata una umanità omogenea e irreale , tanto che una pastora può sposare il figlio del re o, come ne La guerriera, una fanciulla può militare sette anni nell’esercito travestita da soldato senza essere scoperta. E, in quanto genere genuinamente popolare, le ballate dall’Ottocento in poi sono antologizzate, naturalmente dopo essere state trascritte con scrupolosa esattezza nella variante linguistica in cui sono cantate da ‘popolane’ vere, non fittizie, con tanto di nome e co- gnome: in questo caso Domenica Bracco. Ben si comprende, allora, come Nigra – da buon filologo e da buon folclorista – dovendo inserire la ballata nella raccolta che andava allestendo (come variante B del canto n° 48 non abbia riproposto la propria ‘pastorella’.

APPENDICE

La ‘pastorella’ di Costantino Nigra

Per una di quelle splendide aurore di settembre, ch’io mi ricordo d’aver contemplato sì spesso dagli alpestri gio- ghi del Canavese, un’allegra brigata di cacciatori saliva, or son pochi anni, un poggio tutto coperto di folti castagni, posto agli ultimi lembi orientali delle Alpi Graje. Al di là del poggio, giù nella valle, rumoreggiava un torrente cavalcato da un grosso tronco d’albero a guisa di ponte: poi un altro poggio, poi le falde della nuda monta- gna. Questo secondo poggio, popolato di lepri, era destina- to a diventare il campo delle prime ore di caccia. Ucciso il lepre, una seconda caccia dovea tosto cominciarsi ai piedi della montagna, ove una nuova muta sarebbe lanciata con- tro la volpe. Al tocco dopo mezzodì l’intiera brigata di cac- ciatori e di cani doveasi radunare a suon di corno in una di quelle capanne di pastori, abitate nella state, deserte nel ver- no, che si chiamano Alpi; e là era apparecchiato il desinare. Eravamo nove cacciatori, con due mute di quindici cani. Precedevano a guisa di vanguardia onde lanciare, ap- pena giunti al posto, la prima muta sulle orme ancor fre- sche, tre cacciatori, fra cui distinguevasi al chiarore dell’alba l’erculea figura del mio minore fratello (...) Componevasi la seconda squadra, separata dalla prima da forse quattro tiri di archibuso, di sei cacciatori, fra cui era lo scrittore di queste pagine, e d’otto cani (...) Nel contemplar quei nobili ed intelligenti animali, che bramosi della lotta vicina, a gran fatica tolleravano l’aborri- to guinzaglio, venivanmi a mente i versi di Callimaco, ch’io stava in quel tempo traducendo, ove narrasi il dono di Pane a Diana cacciatrice (...)  Cominciò allora una scena veramente degna delle cacce di sant’Uberto. Un formidabile ululato di cani e lo squillo dei corni empirono improvvisamente d’insolito strepito quei monti e quelle valli (...) Cani e cacciatori, trasportati da mi- rabile ardore, corsero sulle sue tracce fuggitive, e bentosto sparvero tutti dietro la costa. Rimasto solo, prevedendo che i compagni non sarebbe- ro di ritorno prima di mezzodì (erano le 9 del mattino) andai in traccia d’una fontana, e trovatala non lungi dalla cima del poggio, m’adagiai sull’erba. Posi il fucile a destra, il corno a sinistra ed il carniere tra le gambe. Stesi a terra, a guisa di tovaglia, un numero della Gazzetta Piemontese, ci posi su un pane, un piccolo cacio rotondo di capra, due pere, un fiaschetto di noce di cocco pieno d’ottima acqua- vite, ed una coppa anch’essa di noce di cocco orlata d’argento; il tutto estratto dalle due saccocce del suddetto car- niere. E mi messi a far colezione con eccellente appetito. Finita la colezione, mi lavai mani e volto nell’acqua chiara, m’adagiai di nuovo sull’erba e m’addormentai profondamente.

Parvemi tra sonno e veglia di sentirmi a risonar nella testa una lunga cantilena, vaga in prima e confusa, poi a mano a mano più chiara e più distinta, che a me così asso- pito empiva i sensi d’insolita dolcezza e l’animo di malinconia, come se avessi subìto l’impressione delle note profonde e commoventi d’un organo lontano. Al lento ma continuo approssimarsi della melodia, il sonno fuggiva leggiero dalle mie palpebre, e quando fui desto del tutto potei distintamente udire il canto modulato da una voce fresca, nitida, pura. Tuttavia « non mossi collo, né piegai mia costa ». Io temea che il menomo movimento annunziatore della mia presenza non facesse tacere il canto; e temeva anche più (debbo dirlo?) che un crudele disinganno non venisse per avventura a fugare tutte le illusioni che a quel suono danza- vano intorno al mio origliere d’erba verde e di fiori.

– « Se questa voce d’angelo uscisse da una bocca defor- me e schifosa? » –

Questo strano pensiero mi teneva inchiodato là, lungo e disteso sulla madre terra. E andava meco medesimo ripensando una vecchia storia, che a me fanciullo narravano le donne di casa, e che io vo’ ripeter qui ai più pazienti. C’era una volta (or sono parecchie centinaia d’anni) nel mio nativo villaggio, e proprio nel vecchio e cadente castello ove nacqui e crebbi, un truce conte, gran rapitore d’armenti e di donne, uomo senza fede né legge, vero flagello della povera vallata, soggetta al suo brutale dominio. Una sera il rubesto signore stava misurando a gran passi, al lume di luna, gli spaldi del suo maniere. Era l’uomo cupo e taciturno come chi ruminasse pel capo sinistri divisamenti. Ad un tratto per l‘aria tranquilla s’ode un canto lontano, canto di donna, e senza fallo sgorgato da angelica bocca, tanto son agili e chiare e divine le note. Ahi forse l’ignota cantatrice stava modulando questa medesima canzone ch’io qui trascrivo! Il castellano s’arresta d’improvviso, colpito dall’arcana melodia; poi, assicurata la spada al fian- co, scende dalla sua rocca solitaria, e s’avvia risolutamente verso il luogo donde il canto si diparte. Ecco giunge ad una povera e soletta capanna. Là si arresta ancora e beve avido ogni nota, ogni suono. Già figurando alla sua lasciva fantasia le forme della cantatrice divina. Già si propone di possederla ad ogni costo. Spalanca l’uscio col piede... Una vecchia, curva dagli anni, cenciosa e sformata, filava e cantava al lume di poca lucerna. E forse era anche losca e sorda, giacché né il romore dell’uscio spalancato, né l’ap- parizione del sinistro ospite interruppero punto la cantilena o il girar del fuso. Il conte trasse lentamente la spada e la cacciò nella gola della vecchia. Così finì il canto, e così finisce la storia.

« Cacciatore che dorme non piglia lepri » – gridò ad un tratto, interrompendo il canto, la mia sirena.

Vedendomi scoperto, m’alzai. Più fortunato del conte dalla triste memoria, mi trovai dinnanzi ad una svelta e graziosa ragazza che stava anch’essa filando e cantando, mentre pascolava una dozzina di agnelle, quattro capre ed una giovenca. Aveva non più di quindici o sedici anni; quindi forme ancor troppo gracili e non abbastanza compite, perché la si potesse chiamare una bella donna. Ma l’aspetto era se- ducente. Il pittoresco costume della sua valle nativa, sem- plice e pulito, le stava a pennello. Alta e snella, anca mo- desta, mano torinese e gamba parigina, benché senza guan- ti e senza scarpe, l’una e l’altra, però, a dire il vero, un po’ abbrunite dalla nebbia e dal sole; occhi d’un azzurro cupo, grandi, umidi; una capigliatura immensa (tesoro non raro in quelle valli) del più bel biondo cinereo che fosse mai, bipartita, secondo la foggia del paese, in due lunghe trecce legate in punta con nastro di velluto nero, e cadenti giù per le spalle; infine, denti di cane e labbra di rosa. Della voce non parlo, argentina davvero, soave e potente, e pre- cisa di giunta.

« E che sapete voi ch’io dormissi, mia bella bambina? » L’appellativo di bambina parvemi non le andasse troppo a sangue. Fece una smorfia deliziosa, e mi disse tutta seria: « Sappiate, o signore, che ho fatto la comunione da tre anni, e che da un anno non seggo più sullo scagno ».

(Devo informar qui tra parentesi i miei lettori, come nell’alto Canavese le ragazze nubili che ottennero dalla madre il permesso di far all’amore, cioè di discorrer la sera coi giovani, seggano sulla panca ove c’è posto pel damo. Gli scagni sono riservati alle donne maritate ed alle impu- beri. Per cosa al mondo un giovane non volgerebbe la pa- rola ad una donna seduta sullo scagno).

Le idee della comunione e dello scagno così strana- mente e innocentemente accoppiate mi fecero sorridere.

« Ah! dunque voi fate già all’amore? »

« E perché no ’l farei? ». E si mise a cantare più alto che poté:

L ’è cuand ben che sia giovnota Tan l’amor la saj servir.

Bench’i’ sia giovinetta Tanto l’amore lo so servire

 « Zitta là! Non è questa la canzone che voglio io. Dite l’altra ».

« Quale? »

« Quella che cantavate venendo qui ».

« Voi volete farvi beffe di me e delle mie canzoni ».

« Vi giuro che no. E per provarvelo vi prometto, se cantate la canzone, di darvi una delle belle cose che ho nel mio carniere, a scelta vostra, con un bacio per sopra- mercato ».

« Del bacio non so che fare. Ma vediamo il carniere? »

E con una curiosità tutta infantile la si mise a frugar nel carniere e ne cavò fuori una pernice, un fiaschetto ed  una coppa, un portasigari ricamato a fiorellini di seta bian- ca e rossa, una mela, un breve corno da caccia, un frusti- no cerchiellato d’argento, un astuccio di zolfini, un porta- foglio con entrovi il permesso di cacciare, un lungo coltel- lo con guaina, un’edizione tascabile delle Notti Attiche, un’ampolla d’ammoniaca, una doppia borsa di pelle piena di pallini, un paio di speroni, ed infine un bel collare di cordovano fulvo, orlato di rosso, con sopravi inciso il mio nome su laminetta di rame, appeso ad una catenella d’ac- ciaio pulito.

« Scelgo il collare per la capra bianca » – diss’ella, e mentre adattavalo al collo della gentile bestiuola, dié principio alla canzone, ch’io fedelmente trascrissi.

Quando finì, il sole cadeva dietro la montagna, ed io udiva il richiamo de’ corni lontani. Risposi dando fiato al- l’olifante, e salutata la pastorella che per altra via s’in- camminò colla sua mandra, mossi giù per la costa all’incontro de’ compagni.