UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA - Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
TESI DI LAUREA in storia del diritto
Ricerche storico – giuridiche su Costantino Nigra e la diplomazia nel processo di unificazione italiana
Relatore: Chiar.mo Prof. Enrico Genta Ternavasio
Candidato: Zoltán Giannattasio
ANNO ACCADEMICO 2017/2018
INDICE SOMMARIO
Capitolo Primo
un quadro generale dell’Europa restaurata e delle relazioni diplomatiche fra gli Stati
Capitolo Secondo
Costantino Nigra
- Il personaggio 29
- L’età giovanile e il periodo della formazione 45
- L’inizio della carriera diplomatica: da Massimo d’Azeglio a Camillo Cavour 52
- Il Congresso di Parigi 61
Capitolo Terzo
la missione di Nigra a Parigi e l’alleanza con la Francia
- Gli sviluppi diplomatici successivi al Congresso di Parigi 69
- Gli accordi segreti di Plombières 77
- Le trattative con Napoleone III 85
- Una questione delicata: il matrimonio di Maria Clotilde e Gerolamo Napoleone 96
- La firma del trattato di alleanza e l’inizio della guerra 102
CAPITOLO PRIMO
UN QUADRO GENERALE DELL’EUROPA RESTAURATA E DELLE RELAZIONI DIPLOMATICHE FRA GLI STATI
Sommario: 1.1 Premessa – 1.2 La Restaurazione in Europa – 1.3 La situazione italiana.
Premessa
La diplomazia, secondo una formulazione piuttosto ampia, potrebbe essere definita l’arte che ha come scopo quello di intessere rapporti vicendevoli fra gli individui, al fine di evitare che il necessario contatto fra le parti non scoppi in un aperto conflitto[1].
Le relazioni diplomatiche, oggetto di questo primo capitolo di tesi, sono quelle inter – statuali, che hanno come fine quello di ottenere vantaggi e riconoscimenti reciproci (possibilmente pacifici) sul piano internazionale. Ci focalizzeremo su di un periodo storico preciso, che copre lo spazio temporale compreso tra il Congresso di Vienna (1814 - 1815), in cui si stabilisce un nuovo ordine internazionale (vedremo come e in che termini) e la metà del secolo, spostando così l’attenzione alle dinamiche nazionali. Avendo circoscritto il contesto storico di riferimento, prendendo a prestito le parole di René Albrecht-Carrié, potremmo definire la diplomazia quale «condotta delle relazioni fra entità sovrane attraverso negoziati attuati da rappresentanti qualificati[2]». Peraltro, è questo un periodo in cui, diversamente da quanto accade nei secoli precedenti, i conflitti fra gli Stati sono molto ridotti, sopratutto dal punto di vista quantitativo: un sociologo ungherese, Karl Polanyi, nella sua opera La grande trasformazione, parla di una pace di cento anni, che, per l’appunto, caratterizzerebbe il secolo che va dal 1815 allo scoppio della prima guerra mondiale (1914). In questa parentesi storica, i conflitti tra le “grandi Potenze” europee si limiterebbero ad una durata media di diciotto mesi, a fronte dei 60/70 anni di quelli dei secoli precedenti (sec. XVII – XVIII). Ora, questo dato va contestualizzato, perché non bisogna dimenticare che l’Ottocento è il secolo delle guerre d’indipendenza e delle rivoluzioni nazionali, eventi che hanno sempre richiesto agli Stati delle pronte mobilitazioni militari. Resta comunque il fatto che, durante questi cento anni, la durata e l’intensità delle guerre vengono effettivamente a ridursi notevolmente. Del resto, diversi studiosi e scrittori dell’epoca percepivano che ci si stesse avviando verso un periodo nuovo; uno di questi fu Benjamin Constant. Nel 1818, questi tenne un discorso all’Università di Parigi, intitolato De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, nel quale effettuava un’analisi della società europea del tempo e notava che essa era orientata al perseguimento e al mantenimento della pace. Un altro studioso, Saint-Simon, nel testo De la réorganisation de la socieété européenne, ipotizzava l’Europa quale una confederazione di Stati i quali mantenevano dei rapporti di collaborazione e di pace fra loro. A garanzia di queste relazioni, poi, si prevedeva un Parlamento sovranazionale che avrebbe avuto la funzione di risolvere eventuali liti fra gli Stati federati, così da garantire pace all’Europa[3].
Per completezza e dovizia di informazioni è, però, necessario anche rendere conto di teorie e visioni del mondo di altri autori dell’epoca, quali ad esempio Hegel, o Ranke, che prevedevano sviluppi della società diversi. Costoro «immaginavano che la storia universale fosse, e in un certo senso dovesse anche essere, l’arena al tempo stesso dell’anarchia e provvidenziale di una guerra incessante tra quelle possenti individualità storiche che sono gli Stati e le “grandi potenze”[4]». Inoltre, l’Ottocento è il secolo del nazionalismo, quel principio che è strumento di garanzia, per i popoli, del diritto all’autodeterminazione, ma che nella realtà dei fatti è stato usato come pretesto per la conquista e la sottomissione di alcuni popoli da parte di altri. Scriveva Weishaupt in proposito che «il nazionalismo ha preso il posto dell’amore per l’umanità […]. Fu allora permesso di disprezzare gli stranieri, di ingannarli ed offenderli. E una simile virtù fu chiamata patriottismo[5]». In definitiva, non è facile offrire una chiave di lettura univoca di questi “cento anni di pace”, apparentemente pacifici e orientati alla realizzazione di una nuova società internazionale, periodo che, per di più, rappresenta l’anticamera di quel secolo che sarà teatro delle guerre più feroci e cruente che la storia avesse mai conosciuto, il Novecento.
Nel proseguire l’analisi delle relazioni fra gli Stati nell’Europa del XIX secolo, sono auspicabili delle precisazioni sulla definizione di diplomazia, più su data, dalla quale emerge il concetto di sovranità. Uno Stato si dice sovrano quando non riconosca nessuna autorità al di sopra di sé, sicché può adottare qualunque decisione in una posizione di totale autonomia e indipendenza[6] (questo è un dato pacifico che, peraltro, è tale anche nei tempi attuali). Dunque, l’Europa era una vasta entità che contava un numero di Stati tutti sovrani e che avevano accettato convenzionalmente di avere tutti il medesimo diritto ad esistere e ad esercitare i poteri di governo sul proprio territorio. In questi termini, possiamo affermare che si era sviluppato «un equilibrio delle potenze […] che nessuno poteva impunemente infrangere[7]». È vero che gli Stati tendevano a diventare sempre più solidi ed influenti, anche a scapito l’un dell’altro, ma era emersa, altresì, la consapevolezza che esasperare i conflitti al punto da giungere ad uno scontro diretto e armato dovesse essere l’extrema ratio, in quanto ciò avrebbe modificato irrimediabilmente l’equilibrio delle potenze e, di conseguenza, avrebbe pregiudicato il diritto di esistenza di cui tutti gli Stati godevano senza discriminazioni. Non è casuale che le mire espansionistiche di Napoleone, nel periodo di quella che Bonanate chiama “guerra costituente”, che si svolgerebbe nel periodo 1792 – 1815, vengono contrastate dalle altre Potenze, proprio per garantire la sussistenza del predetto equilibrio che, come vedremo nel prosieguo della trattazione, rappresenterà la condizione necessaria delle statuizioni di Vienna.
Prima di passare all’esame della pace siglata a Vienna nel 1815 dalle Grandi Potenze, vediamo il quadro delle relazioni internazionali nel XIX secolo, così come definito da Luigi Bonanate. Secondo lo studioso, ci sono due dati fondamentali da tenere presenti:
- L’ordine internazionale, costituitosi successivamente al periodo napoleonico, non era diverso, nella sostanza, da quello che caratterizzava l’Europa all’esito della Pace di Westfalia (1648). Più precisamente, le Potenze riunitesi a Vienna (Gran Bretagna, Austria, Prussia e Russia) erano giunte pacificamente alla conclusione che fosse necessario ripristinare la vecchia diplomazia europea, garantendo l’equilibrio e la pace, ma perché ciò fosse realizzabile occorreva prima operare una frammentazione all’interno della dimensione politica tedesca. In questi termini si spiegava la creazione di una Confederazione germanica.
- L’ordine di Vienna non era in realtà in grado di sopportare quelle tensioni interne che col tempo avrebbero colpito tutta la politica internazionale, causandone una graduale dissoluzione; «la storia della “pace dei cento anni” è per l’appunto la storia di questa lenta e drammatica decomposizione che non travolse soltanto il sistema costruito a Vienna ma anche, e più in generale, gli schemi, la logica e gli equilibri di una politica internazionale sperimentata ormai da secoli[8]».
Non è questa la sede in cui analizzare nel dettaglio la ricostruzione che offre Bonanate. Ci basti dire che il tramonto del vecchio ordine internazionale fu dovuto, sostanzialmente, a tre cause: prima di tutto per la crisi del cosiddetto “centro debole” che diede in seguito vita alla Germania imperiale; in secondo luogo perché nasce l’imperialismo moderno e, conseguentemente, iniziano gli scontri imperialistici fra gli Stati europei; infine perché comincia ad eclissarsi la centralità dell’Europa. Non dimentichiamo, ancora, che a queste cause si affiancano, da un lato, un principio di nazionalismo sempre più prepotente e, dall’altro, la rivoluzione industriale che genera un rapido ammodernamento e potenziamento economico deli Stati[9].
1.2 La Restaurazione in Europa
Le grandi Potenze europee – Gran Bretagna, Austria, Prussia, Russia e Francia[10] – nel biennio 1814 – 1815 furono protagoniste della stipulazione di cinque documenti diplomatici mediante i quali volevano dare all’Europa un nuovo assetto territoriale e creare i presupposti per la realizzazione di una pace duratura: a) il trattato di Parigi del maggio 1814; b) l’atto finale del Congresso di Vienna, che iniziò i lavori nel novembre dello stesso anno, ma li terminò soltanto sette mesi più tardi, anticipando di qualche giorno la disfatta di Napoleone a Waterloo; c) il trattato istitutivo della Santa Alleanza del settembre 1815 siglato da Austria, Russia e Prussia; d) il trattato di Parigi del novembre 1815 firmato dalle Potenze all’esito dei “cento giorni”; e) il trattato istitutivo della Quadruplice Alleanza, sempre di novembre, sottoscritto dalle Potenze succitate, cui si unì la Gran Bretagna[11].
Questi cinque documenti fondamentali inaugurarono l’epoca della Restaurazione, termine con cui si intende «il ripristino al trono […] di tutti gli ex sovrani europei dell’ancien Règime, dopo le guerre napoleoniche[12]». In sostanza, le Potenze si ritrovarono d’accordo a restaurare la situazione di fatto europea così com’era prima della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. L’obiettivo era quello di scongiurare qualunque focolaio rivoluzionario che potesse, in qualche modo, far rinascere e proseguire l’era del bonapartismo, ma allo stesso tempo divenne anche il pretesto per sedare qualunque manifestazione di carattere liberale, o nazionale, che si verificasse negli Stati. Inoltre, l’Atto finale del Congresso fu tale da dare vita ad un assetto geopolitico europeo innovativo, con la creazione di una Confederazione germanica che si sostituiva al Sacro romano Impero e che, fino allo scoppiare del primo conflitto mondiale, non avrebbe subìto modifiche, se non si considerano le nascite successive del Regno d’Italia (1861) e dell’Impero germanico (1870)[13]. Ricordiamo che con la creazione di questa Confederazione germanica si intendeva creare un centro politico debole necessario a bilanciare gli equilibri di potere tra i diversi Stati dell’Europa. Evidenziamo, altresì, come fa notare Bonanate, che la realizzazione di questo nuovo ordine territoriale e politico, ebbe anche altre ricadute, in quanto «furono smantellati o rimodellati i regimi politici interni di parecchi Stati, furono definiti nuovi rapporti di potenza e nuovi schieramenti internazionali e furono fissati, ancora, i princìpi e le regole del nuovo ordine internazionale[14]». Ripercorrendo, più avanti, le fasi principali del biennio 1814 – 1815 potremo apprezzare le modifiche sostanziali introdotte dal nuovo ordine internazionale.
La Restaurazione fu informata ai princìpi di legittimità (o legittimismo, come lo definiscono taluni autori) e di equilibrio. In virtù del primo, era necessario restituire ai vecchi sovrani assoluti, usurpati dall’età bonapartista, il governo dei loro territori. Costoro avevano ricevuto il potere direttamente da Dio ed erano, pertanto, gli unici legittimati a occupare il trono. Beninteso, nel piano dell’Europa questo ripristino delle antiche dinastie sovrane, di matrice assolutistica, aveva un ruolo ben preciso: abbattere tutti quei tentativi di realizzazione di governi liberali e costituzionali[15]. Il principale attore del Congresso, il principe di Metternich, Cancelliere austriaco, campione delle frange conservatrici, si impegnerà costantemente affinché le nuove conquiste liberali non prendano piede nel Continente.
Strettamente connessa alle legittimità è l’equilibrio. In linea di principio, si potrebbe dire che il ripristino delle monarchie legittime avvenisse, quindi i sovrani fossero restituiti dei loro possedimenti, laddove possibile (equilibrio): questa restituzione doveva dunque verificarsi nel perseguimento di un generale stato di sicurezza continentale; non poteva corrersi il rischio che si costituisse una potenza egemonica come lo era stata la Francia di Napoleone. Di nuovo, qui, viene spontaneo evidenziare l’espediente della creazione di una Confederazione germanica quale “centro debole”, proprio per consentire il giusto livello di equilibrio fra le Potenze. In complesso, la legittimità non poteva sussistere senza l’equilibrio, dal momento che una qualsiasi attribuzione territoriale che non lo applicasse sarebbe stato avvertita come rivoluzionaria e, in quanto tale, illegittima, quindi da contrastare[16]. Inoltre, con riferimento al principio di equilibrio, Bonanate sottolinea che, oltre alla necessità di compensare i livelli di forza delle Potenze, al fine di evitare la prevalenza di una sulle altre, la distribuzione (legittima) dei territori mirava altresì a creare una rete di controllo dell’Europa intera, così da estendere su questa il loro indiscusso dominio. A tal proposito, egli parla «una pace tra vincitori e, nello stesso tempo, una pace dei vincitori[17]».
Dopo aver offerto uno spaccato generale del periodo, oggetto di studio e dei princìpi che lo regolano, ripercorriamone la fasi salienti, così da esaminare quali furono le modalità concrete con cui gli Stati si relazionarono fra loro, nel perseguimento di quello status quo esistente prima della guerra e nell’ottica di una pace durevole. I confini dell’Europa furono, in sostanza, ridisegnati e ciò avvenne a seguito delle previsioni di tre dei documenti diplomatici sopra citati: i due trattati di Parigi (maggio 1814 e novembre 1815) e l’atto finale del Congresso di Vienna[18]. I primi due ebbero come risultato quello definire la situazione francese. Innanzitutto, fu ripristinata la dinastia legittima, i Borbone, con la salita al trono di parte di Luigi XVIII. Sotto il profilo territoriale, la Francia subì notevoli ridimensionamenti, dal momento che perse il Belgio, la riva sinistra del Reno, parte della Savoia e diverse colonie. In complesso, il Paese ritorno nei confini in cui si trovava nel 1792, all’epoca delle rivoluzioni. Tuttavia, è interessante notare che la Francia non venne divisa, né gli Alleati (le Potenze) misero in discussione la sua esistenza libera ed indipendente, essendo il fine principale la restaurazione dello stato di cose, in applicazione del principio di legittimità[19]. Peraltro, non ci fu la volontà di infierire ulteriormente contro la Francia, da un lato in segno di “rispetto” nei confronti di quella che era stata (e restava) una grande potenza, dall’altro fu una mossa politica mirata: si desiderava primariamente il ritorno al trono della dinastia borbonica, fatto che doveva essere accolto dall’opinione pubblica francese senza eccessivi rimpianti per l’epoca liberale che aveva caratterizzato il periodo precedente. Fu stabilito, poi, che in un successivo Congresso, da indire a Vienna, sempre nel medesimo anno, si sarebbero risolte tutte le ulteriori questioni geo-politiche europee pendenti. Venne deciso, infine, che i rappresentanti di Luigi XVIII «non sarebbero stati accolti come inviati di una potenza sconfitta, bensì come portavoce di un sovrano amico dei monarchi vincitori[20]»; questo a conferma, in qualche modo, della giusta considerazione, sopra ricordata, che le Potenze volevano riconoscere alla Francia.
Finora abbiamo parlato di “grandi Potenze[21]” e di “Alleati”. È bene, pertanto, precisare che, in questi primi anni della Restaurazione, questi attributi si riferivano formalmente soltanto ai quattro Paesi vincitori della guerra, vale a dire l’Inghilterra, l’Austria, la Russia e la Prussia, i quali alleandosi avevano dato vita alla «tetrarchia[22]». Costoro, peraltro, si erano già riuniti a Chaumont, nel marzo del 1814, dichiarando di mantenere viva la loro alleanza al fine di consolidare e difendere l’ordinamento strutturale e politico europeo che sarebbe sorto negli anni a venire[23]. Il primo trattato di Parigi, pertanto, previse esplicitamente che:
un prossimo Congresso di Vienna avrebbe raccolto i plenipotenziari «di tutte le potenze che avevano partecipato alla guerra», poneva la statuizione segreta i soli così detti «Alleati» (Inghilterra, Russia Austria, Prussia) si riservavano di decidere «su le disposizioni relative ai territori abbandonati dalla Francia nella parte degli articoli palesi del trattato e su i rapporti dai quali dovesse sporgere un sistema d’equilibrio durevole[24]».
In sostanza, ciò significava che il Congresso – e quindi la Francia – doveva soltanto sottoscrivere le decisioni già prese dagli Alleati (nel caso specifico la restaurazione dei Borbone e le modificazioni territoriali sopra dette) ed è in questo modo che essi intendevano garantire la pace in Europa. Bisogna, però, dire che la Francia non tardò a ricevere un posto nella tetrarchia, che perciò divenne una “pentarchia”. Nel 1818, ad Aix – la – Chapelle, gli Alleati rinnovarono la loro volontà di essere uniti ed e di coalizzare le loro forze laddove fosse necessario, per evitare un qualunque turbamento dell’ordine che essi avevano prodotto negli ultimi anni. A seguito di questo accordo:
il Re di Francia veniva associato questa specie di Direttorio europeo ed impegnato «ad unire d’ora in avanti i suoi consigli e sforzi» a quelli dei sovrani d’Austria, d’Inghilterra, di Prussia e Russia «pel mantenimento dei trattati esistenti e dei rapporti da essi stabiliti e riconosciuti da tutti gli Stati d’Europa[25]».
Quindi, con un Protocollo di chiusura la Francia entrò, a pieno titolo, nel novero delle grandi Potenze e ciò avvenne perché ormai era evidente che, senza di lei, non si potesse continuare a definire il destino dell’Europa. Tuttavia, siccome il ricordo di Napoleone era ancora vicino, gli Alleati originari sottoscrissero un regolamento segreto, ignorato dalla Francia, che stabiliva le misure da adottare nell’eventualità di un’ulteriore insurrezione rivoluzionaria.
Con il secondo trattato di Parigi (novembre 1815), le condizioni imposte alla Francia mutarono in peggio, quale conseguenze del nuovo tentativo di Napoleone (precedentemente esiliato sull’Isola d’Elba) di riprendere il potere. La sua impresa (i cosiddetti “cento giorni”) fallì, perché gli Alleati si mobilitarono di comune accordo con grande celerità e lo sconfissero definitivamente a Waterloo, a giugno. Così, il Paese subì nuovamente delle modifiche territoriali alle frontiere, le quali tornarono ad essere le medesime del 1790, mentre quelle del 1792 furono occupate da truppe militari delle Potenze alleate; dovette, altresì, scontare una multa, a titolo di indennità di guerra, pari a 700 milioni di franchi da pagare in cinque anni[26]. Sotto certi aspetti, si può considerare l’applicazione di queste misure di carattere sanzionatorio, come mezzo punitivo. Tuttavia, la previsione di un’occupazione militare dei suoli, rispondeva ad una duplice esigenza: garantire il pagamento della multa e (sopratutto) monitorare «il comportamento francese[27]». D’altra parte, non si può dimenticare che la Francia era stata la patria della rivoluzione, i fermenti patriottici e gli spiriti liberali, liberatisi alla fine del Settecento, erano ancora vivi; lo stesso Luigi XVIII, dopo un mese che era stato restaurato, dovette emanare una Costituzione moderata, che risultò essere una Charte octroyée, vale a dire concessa dall’alto, che manteneva grossi poteri in capo al Sovrano, ma che conteneva già tutti i diritti dell’individuo sanciti dalla Dichiarazione dei diritti del 1789[28]. In sostanza, questo fu un segnale piuttosto evidente che una totale restaurazione dell’ancien Régime non fosse più possibile, essendosi ormai radicate, nel sentire comune di tutta Europa, le conquiste liberali della rivoluzione francese. E, in effetti, la Restaurazione si caratterizzò per essere, a detta di Casana e Nada, il «compromesso fra l’ideologia degli ultras e quella dei liberali. I primi sognavano un ritorno alla situazione precedente il 1789 […]; i secondi non si rassegnavano invece alla disfatta della rivoluzione […][29]». Da questi germi, in seguito, avranno origine le sommosse degli anni 20, poi del 30, fino ad arrivare alle guerre d’indipendenza che interesseranno l’Europa a metà del secolo.
I due trattati di Parigi definirono la assai delicata situazione francese; l’atto finale di Vienna del 9 giugno 1815, invece, si occupò di stabilire il nuovo assetto territoriale europeo, il «Novus Ordo», come lo chiama Rapisardi. Questo documento chiuse ufficialmente il Congresso, indetto sei mesi prima, e risulta molto interessante esaminarne le statuzione, dal momento che ci consente di capire in che modo la diplomazia, nell’Ottocento, metteva in relazione fra loro gli Stati in occasione di queste conferenze “mondiali” che erano destinate ad apportare rilevanti cambiamenti politici e sociali. Si trattava, ancora, della diplomazia dell’ancien Régime; non a caso la regia del Congresso fu condotta dal principe di Metternich, storico Ministro degli Esteri dell’Impero austriaco (successivamente anche Cancelliere). Costui era un esponente tipico dell’antico regime e, pertanto, non stupisce che si adoperò affinché «i lavori del congresso fossero accompagnati e circondate da forme, pompa e trattenimenti adeguati[30]». Il fine ufficiale di questo incontro europeo era la Restaurazione degli ordini monarchici legittimi, ma al contempo era necessario creare un assetto territoriale che garantisse un equilibrio fra le Potenze, nell’ottica del mantenimento della pace. In aggiunta, si voleva impedire alla Francia di «accarezzare [nuovi] programmi espansionistici[31]». Quest’ultima, in ogni caso, partecipò ai lavori a pieno titolo, rappresentata dal principe di Talleyrand, capo della delegazione francese, sicché non subì alcuna preclusione derivante dalla essere uscita sconfitta della guerra, o per via della minaccia rivoluzionaria che incombeva in quei mesi a causa del ritorno di Napoleone; i lavori del Congresso, infatti, continuarono ininterrottamente e l’atto finale fu sottoscritto ancor prima della disfatta di Waterloo, per cui questo estemporaneo ritorno di Bonaparte non ebbe un effettivo rilievo sulle trattative. Nonostante tutto, bisogna dire che non sarebbe stato pensabile un incontro destinato a ridisegnare la carta dell’Europa senza la presenza della Francia che, data la sua grandezza e la sua posizione, era di fatto una grande Potenza ed era auspicabile, pertanto, riconoscerle un ruolo attivo a fianco degli altri Stati. E così avvenne che il Congresso fu dominato da Inghilterra, Austria, Russia, Prussia e Francia, le quali si videro accomunate da quell’obiettivo generale di addivenire ad un’equilibrata sistemazione dei territori[32].
Il 9 giugno 1815 l’atto finale del Congresso fu firmato dalle cinque grandi Potenze e da altri tre Stati: la Spagna, il Portogallo e la Svezia, i quali, però, ebbero un ruolo limitato al tavolo delle trattative, dal momento che non potevano fregiarsi del titolo di grandi potenze, pur essendolo state. Questi otto furono i Paesi firmatari dell’accordo che diede vita al cosiddetto ordinamento di Vienna il quale «si basa su l’equilibrio europeo fra le cinque grandi potenze (due occidentali: Inghilterra e Francia; e tre orientali: Austria, Prussia e Russia); nessuna tanto forte da dominare l’Europa, né da far guerra malgrado le altre[33]».
In breve, vediamo quali furono le più rilevanti (ai nostri fini) spartizioni territoriali che il Congresso di Vienna determinò. Esso, abbiamo detto, ebbe come obiettivo la Restaurazione degli ordini monarchici legittimi. Occorre, tuttavia, registrare due eccezioni: il Sacro romano Impero e la Polonia. Il primo non fu restaurato, ma al suo posto venne creata una Confederazione germanica, che contava poche decine di Stati (a fronte dei più di trecento del precedente Impero), la cui presidenza, peraltro, fu assegnata a Francesco I. Questa scelta permise, da un lato, una razionalizzazione delle frontiere, dall’altro determinò la nascita, nel cuore dell’Europa, di un centro politico sostanzialmente debole, nella logica dell’equilibrio fra le Potenze[34]. La Polonia, invece, rappresentò la questione più delicata da risolvere. Essa era molto appetita da tutte e tre le Potenze orientali. L’Inghilterra, poi, era preoccupata dall’aumento di forza ed estensione di cui avrebbe beneficiato la Russia, qualora lo Stato polacco fosse stato da questa inglobato. Tuttavia, i quattro seppero risolvere la questione diplomaticamente, con il seguente compromesso: lo Zar Alessandro prese possesso della Finlandia, della Bessarabia e della gran parte dell’ambita Polonia, il cui restante territorio fu spartito tra Austria e Prussia. Quest’ultima, per essere compensata della perdita, ottenne una buona parte della Sassonia, la Pomerania dalla Svezia e la strategica Renania. In questo modo, la Prussia divenne confinante con la Francia e laddove questa avesse concepito dei progetti sul Reno, non avrebbe potuto celarli alla sua nuova vicina, il che piacque molto all’Inghilterra, sua secolare nemica[35]. Questa, poi, rafforzò la sua presenza sul continente europeo, ottenendo la corona degli Hannover, e nel Mediterraneo con le basi insulari Ioniche e di Malta. Si affermò in realtà anche nel mare del Nord, in America Latina, nell’Oceano indiano e in Africa del Sud. In questo rimaneggiamento dei territori, l’Austria perse il Belgio, che fu unito all’Olanda costituendo così il Regno d’Olanda e del Belgio (Regno Unito dei Paesi Bassi), sotto la dinastia d’Orange, ma fu compensata con una già citata parte di Polonia, la Germania meridionale e il Lombardo - Veneto. Non solo, ricevette anche un controllo indiretto su alcuni territori della penisola italiana: per esempio il Granducato di Toscana fu attribuito a Ferdinando III d‘Asburgo Lorena, fratello dell’Imperatore; lo Stato pontificio, il cui possesso fu riconfermato al Papa, fu occupato da milizie austriache; il Regno delle due Sicilie, nel quale furono restaurati i Borbone, dovette anch’esso «legarsi militarmente all’Austria[36]»; infine i diversi ducati dell’Italia centro – settentrionale furono attribuiti a membri della famiglia Asburgo. Il solo Regno di Sardegna riuscì a conservare l’indipendenza dall’Austria ed anzi acquistò Genova e la Liguria[37].
Il nuovo ordine di Vienna, derivante dalle spartizioni fin qui viste, creò un quadro territoriale più semplice rispetto a quello esistente prima della rivoluzione francese; per fare un esempio, il gigantesco Sacro romano Impero, composto da tantissimi Stati, non fu ripristinato. Questo nuovo assetto fu il risultato di una serie di «baratti e compromessi fra le Grandi Potenze[38]». Questo significa che i trasferimenti di regni da una Corona all’altra rappresentò l’applicazione di quello che taluni autori chiamano principio dei compensi che, insieme con quello di Restaurazione e di legittimità, ebbe un ruolo e un peso assai rilevanti durante le trattative del Congresso[39]. L’obiettivo manifesto era quello di restaurare secondo un principio di equilibrio fra le Potenze e ciò richiedeva necessariamente dei rimaneggiamenti territoriali strategici, spesso non graditi agli Stati, i quali pertanto esigevano una compensazione dei territori, a titolo di ristorazione della perdita subìta (ovviamente sempre in termini di possedimenti su cui esercitare la propria autorità sovrana). Certamente, tutti avevano degli scopi politici precisi: l’Austria voleva raggiungere un’estensione territoriale quanto più grande possibile, a scapito delle due Rivali orientali; la Prussia ambiva a ricoprire un ruolo preminente nell’àmbito della Confederazione germanica; la Russia voleva aumentare la sua influenza in Europa; l’Inghilterra, da parte sua, che aveva l’ambizione di potenziare i suoi possedimento oltre Oceano, era più che mai desiderosa che non nessuno Stato continentale acquistasse più potere degli altri; infine, la Francia, il Paese che era uscito materialmente sconfitto dalla guerra, si adoperò in modo da subire meno ridimensionamenti territoriali possibili[40]. A prescindere da tutte queste considerazioni, l’ordine di Vienna apparve come «il risultato di pace di equilibrio e di compromesso tra i vincitori[41]». Vediamo di contestualizzare questa affermazione. La Francia, nonostante tutto, non subì eccessive perdite territoriali, sia perché la stessa dinastia borbonica ne sarebbe rimasta pregiudicata, sia perché uno Stato esteso e potente come lei sarebbe sempre risultata un valido deterrente contro la Prussia, che aveva mire sulla Alsazia e sulla Lorena. Tuttavia, proprio perché la Francia stessa poteva rivelarsi nuovamente minacciosa, essa fu circondata da alcuni Stati “cuscinetto”, che avrebbero dovuto, se del caso, bloccare sue eventuali ambizioni espansionistiche: stiamo parlando del Regno dei Paesi Bassi, della Confederazione germanica e del Regno di Sardegna. Non è tutto, perché anche l’Austria avrebbe potuto costituire un pericolo per la pace europea. Pertanto, non le fu consentito di assumere il governo del Piemonte, sicuramente piccolo e incapace di competere militarmente con le grandi Potenze, però tanto bastava dal momento che la Confederazione germanica (di cui Austria e Prussia facevano parte) fungeva anche da strumento di monitoraggio reciproco proprio dei due poderosi Stati che la costituivano[42].
All’esito del nuovo ordinamento di Vienna, taluni autori sostengono che alcuni Stati trassero maggiori vantaggi degli altri: l’Inghilterra da un lato, l’Austria e la Russia dall’altro. La prima poté dedicarsi al potenziamento delle sue conquiste oltre Oceano, essendosi realizzata una configurazione di equilibrio fra le Potenze del continente, cosicché ciascuna poteva bloccare le iniziative delle altre[43]; la seconda, da un punto di vista squisitamente territoriale, aveva ottenuto delle conquiste notevoli[44]; le terza, infine, trovandosi geograficamente ad un estremo dell’Europa, poteva agire senza grosse resistenze nel suo piano di espansione sia verso Oriente, sia verso l’Europa centrale e i Balcani[45]. Questi sarebbero i vincitori del nuovo ordine internazionale, istituito a Vienna. Chi sarebbero i vinti? Bonanate offre una possibile risposta. Egli sostiene che non può essere considerata tale - paradossalmente - la Francia, perché essa era una «pedina fondamentale dell’equilibrio della pace tra i vincitori[46] ». Si trattava pur sempre di un grande Stato e del più il popoloso, esclusa la Russia, sicché era pressoché impossibile definire la carta dell’Europa senza di lei. A riprova di tutto questo, come già ricordato più sopra, nel 1818, la Francia sarà inclusa formalmente nel «concerto» delle altre quattro grandi Potenze. Pertanto, Bonanate individua i vinti nei governi liberali e costituzionali , dal momento che furono di fatto «eliminati dal legittimismo dinastico della Restaurazione[47]». Non solo, anche le diverse nazionalità che erano sorte a seguito della Rivoluzione, sopratutto in Italia e nelle realtà tedesca e slava, risultarono sconfitte in nome di un principio di equilibrio, applicato formalmente per la realizzazione di una pace durevole, ma destinato a soddisfare «gli interessi egemonici e politici di poche potenze. È in questo duplice senso che l’ordine di Vienna fu effettivamente un ordine dei vincitori[48]».
Concludiamo il discorso sul Congresso di Vienna e il nuovo ordinamento territoriale che ne scaturì con delle osservazione di carattere generale. Le decisioni che furono prese in questa sede inaugurarono il periodo della Restaurazione, che sarebbe durata fino al 1830. Essa invase tanto la dimensione politica, quanto quella sociale dell’Europa ottocentesca. Tuttavia, non è sbagliato considerarla più una restaurazione dinastica, unita ad una esaltazione della monarchia; come abbiamo visto, i Borbone riottenere il trono in Francia e a Napoli, gli Orange nei Paesi Bassi e così via[49]. C’è, però, da fare una precisazione. Fino alla Rivoluzione francese, non si era mai sentito il bisogno di giustificare il principio della monarchia assoluta, dal 1815 sì. Questo è un altro segnale di quel dato che abbiamo talora registrato in questo lavoro: le conquiste liberali di fine Settecento non erano svanite insieme con la fine della guerra. Infatti, non era possibile cancellare quel pezzo di storia rivoluzionaria svoltasi tra il 1789 e il 1814. La Rivoluzione aveva proclamato princìpi fortissimi, quale ad esempio l’uguaglianza civile di tutti i cittadini davanti alla legge, in materia fiscale, nell’accesso alle pubbliche funzioni. Inoltre, era stata la possibilità alle classi borghesi di acquistare le terre demaniali, nazionalizzate durante la rivoluzione. Il Congresso di Vienna, pur assumendo la logica della Restaurazione, non eliminò tutte queste novità[50]. Per tutti questi motivi alcuni autori, come ad esempio Chateaubriand, De Maistre, fautori di questa forma di Stato elaborarono delle teorie in proposito. Così « venne dichiarato legittimo il regime che rappresentava una tradizione, che aveva alle spalle una lunga storia, considerando la durata e la longevità di un’istituzione come prova della sua validità[51]».
A prescindere da tutte queste osservazioni, nell’Ottocento l’ordine territoriale europeo fu quello che abbiamo descritto finora (con le eccezioni del Regno d’Italia e dell’Impero tedesco, che nasceranno rispettivamente nel 1861 e nel 1870) e fu dominato dalle cinque grandi Potenze, le quali mantennero i loro rapporti diplomatici secondo le modalità viste, basate come in passato sui rapporti di forza tra gli Stati[52]. I cento anni che seguirono alle statuizioni di Vienna si rivelarono tendenzialmente pacifici e, comunque, i conflitti aperti non durarono mai a lungo. Si trattò di un secolo in cui le relazioni diplomatiche ebbero un peso molto importante: l’obiettivo era il mantenimento della pace ed evitare scontri armati, laddove possibile. Non a caso, dopo Vienna fu inaugurato il cosiddetto “sistema dei Congressi”, che «si accompagnò alla notevole diffusione nel XIX secolo della “diplomazia multilaterale”, ossia alla diplomazia svolta in occasione di conferenze tenute da numerosi stati[53]». Erano questi degli incontri periodici decisi dagli Stati per rinnovare i loro intenti comuni e sopratutto per decidere in merito ad eventuali interventi militari, per sedare rivolte di carattere nazionale. Per esempio, in occasione dei Congressi di Troppeau e Laybach le Potenze si riunirono per stabilire di comune accordo come comportarsi nei confronti delle sommosse scoppiate a Torino e a Napoli nel 1821. A questi Congressi, peraltro, gli Stati minori non partecipavano, a dimostrazione di quanto detto più sopra, ovvero che il destino dell’Europa era stabilito dai cinque Alleati che mantenevano costanti relazioni fra loro.
Fin qui abbiamo analizzato i trattati mediante i quali il Congresso di Vienna diede vita al nuovo ordine internazionale. Resta da trattare la già citata Santa Alleanza, che vide unire tre grandi Potenze: l’Austria, la Russia e la Prussia. Venne firmata nel settembre del 1815 e, inizialmente, mirava alla realizzazione di scopi di carattere religioso e umanitario, piuttosto che politico:
i firmatari dichiaravano di «considerarsi tutti membri di una sola e comune nazione cristiana», nella quale «i tre principi sono soltanto delegati dalla Provvidenza a governare i tre rami di una stessa famiglia» e proclamavano che «il mondo cristiano, di cui essi e il loro popolo fanno parte, non ha in realtà altro sovrano che colui al quale soltanto appartiene il potere[54]».
Le Potenze sancirono così un’Alleanza che le impegnava all’osservanza e alla salvaguardia dei precetti del Cristianesimo, nonché le vincolava ad una promessa di aiuto da prestarsi reciprocamente, qualora le circostanze lo richiedessero, a difesa di quel nuovo ordine politico internazionale cui il Congresso aveva dato vita[55].
L’Inghilterra non aderì a questa Alleanza, in quanto la considerava una «labile dichiarazione di intenti […], aveva scarso significato reale […]; e la Gran Bretagna di tale vaga indeterminatezza non volle saperne[56]». Lord Castelreagh, il rappresentante inglese al Congresso, la definì «un documento di sublime misticismo e assurdità[57]». E, per la verità, lo stesso Metternich la considerava un «pomposo nulla[58]», sebbene fu in grado di piegarla alle sue esigenze, così da indurre tutte le Potenze alla realizzazione di una diffusa politica conservatrice. Egli percepiva, ancora più degli inglesi, il bisogno di garantire, nei vari Stati d’Europa, dei governi appropriati, vale a dire conservatori, nella sua logica. Inoltre, al pari dell’Inghilterra, voleva impedire che la Russia aumentasse eccessivamente il suo potere, così da diventare un pericolo per le altre Potenze. La Santa Alleanza era nata su proposta dello Zar Alessandro il quale l’aveva voluta sia perché mosso dal suo sentimento religioso, sia perché non era rimasto del tutto insensibile alle istanze liberali liberatesi nel secolo precedente, tendenza che preoccupava molto Metternich[59]. Tuttavia, come già accennato, siccome l’Alleanza dimostrò di avere un alto valore ideologico piuttosto che effettivo, le Potenze decisero di assumersi degli impegni più concreti, sottoscrivendo un successivo trattato a Parigi, nel novembre del 1815. Con questo diedero vita alla cosiddetta Quadruplice Alleanza, di cui entrò a far parte anche l’Inghilterra, dal momento che il trattato prevedeva delle clausole che obbligavano gli Stati firmatari a mettere a disposizione dei contingenti militari per bloccare qualunque velleità espansionistica francese[60], qualora ce ne fosse stato bisogno. Si trattava di una previsione molto gradita all’Inghilterra e di cui questa non poteva non fare parte, perché isolava la Francia (sua secolare nemica), nel caso in cui questa avesse minacciato qualunque impresa.
La Quadruplice Alleanza era finalizzata a monitorare costantemente la situazione europea. Gli Stati si impegnavano a incontrarsi periodicamente per consolidare i loro legami, nell’ottica del mantenimento della pace in Europa. Queste riunioni periodiche diedero vita al cosiddetto «sistema dei Congressi»: le grandi Potenze organizzavano ciclicamente dei convegni diplomatici durante i quali venivano affrontati i principali problemi europei, con l’ obiettivo di mantenere la pace in Europa. Ricordiamo, per citare solo qualche esempio, i Congressi di Troppau e Laybach che autorizzarono gli interventi militari a Torino e a Napoli per sedare le sommosse e il Congresso di Verona che decise l’intervento in Spagna[61].
In questo paragrafo abbiamo esaminato, per sommi capi, l’ordinamento geopolitico dell’Europa formatosi a Vienna e il relativo sistema di Alleanze delle grandi Potenze che, in realtà, non ebbe una vita lunga. Gli anni del 1820 e 1821, infatti, segnarono l’inizio di una serie di moti insurrezionali che si sarebbero riproposti periodicamente nei decenni successivi e che furono la causa, dapprima, della dissoluzione della Santa Alleanza nel 1830, e poi della nascita di «diversi sistemi gravitazionali» che videro gli Stati minori cadere sotto la sfera d’influenza delle grandi Potenze: la Spagna fu irretita dalla Francia, il Portogallo dall’Inghilterra, i Paesi Bassi e gli Stati del Mar Baltico dalla Prussia, gli Stati italiani dall’Austria e gli stati dell’Europa orientale dalla Russia[62].
1.3 La situazione italiana
Per completare questo sintetico quadro dei rapporti fra gli Stati nell’epoca della Restaurazione, è necessario esaminare quali furono, in Italia (come la intendiamo oggi), le ricadute concrete del nuovo ordine internazionale. Certamente, i princìpi e i criteri che furono affermati al Congresso investirono anche la nostra penisola: pure in Italia, la Restaurazione doveva realizzarsi nell’ottica dell’equilibrio tra gli Stati e mediante il ripristino al trono delle dinastie legittime[63]. Prima di diffonderci sugli effetti prodotti dall’ordine di Vienna, offriamo uno scorcio della situazione geopolitica dell’Italia a cavallo fra Settecento e Ottocento, così da comprendere gli sviluppi successivi.
Alla fine del XVIII secolo, la penisola italiana contava 16 Stati con una posizione di egemonia ricoperta dagli Asburgo d’Austria al Centro – Nord e dai Borbone al Sud. Completavano il quadro nazionale il Regno di Sardegna sotto i Savoia[64]; le Repubbliche di Genova, Venezia (comprese Istria e Dalmazia), Lucca e San Marino; il Ducato di Modena e Reggio sotto la casa d’Este, lo Stato Pontificio[65], il Ducato di Massa e Carrara (casato Cybo – d’Este) e il piccolo Principato di Piombino. Dopo la discesa di Napoleone Bonaparte in Italia, nel 1796, i confini mutarono; ai nostri fini esaminiamo la composizione finale, quella su cui, cioè, venne ad operare il Congresso di Vienna. Il Nord – Ovest italiano (Piemonte, Liguria, Parma, Piacenza, Toscana, Umbria, Lazio [compresa Roma] e le Province Illiriche[66]) fu integrato direttamente dell’Impero francese. Il Nord – Est venne a creare il Regno d’Italia, di cui Napoleone era Re e il figliastro Eugenio viceré; i territori interessati erano quelli di Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino, Emilia, Romagna e Marche. Infine, il Sud costituito dal Regno di Napoli continentale, fu affidato da Napoleone a suo fratello, prima, e al cognato, dopo. In questa disposizione territoriale, mantennero l’indipendenza solo pochissime zone: la Repubblica di San Marino, la Sardegna (dove si ritirarono in esilio i Savoia) e la Sicilia, governata da Ferdinando III che godeva della protezione dell’Inghilterra[67]. Questa, dunque, la situazione della penisola nel 1815.
Quale fu l’atteggiamento delle Potenze di fronte alla questione italiana? Per i nostri fini, ci soffermeremo sulla politica dell’Austria e quindi del principe di Metternich il quale, come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, fu il principale attore del Congresso, che egli seppe sfruttare per realizzare una politica conservatrice e per indirizzare gli altri Stati a fare lo stesso. Non è un caso che Franco Valsecchi parli di un «sistema di Metternich», definendolo un «complesso gioco di interessi politici, economici e sociali[68]». Per il cancelliere austriaco l’elemento principale e imprescindibile era l’equilibrio. Esso si configurava come una legge fondamentale la cui osservanza era indispensabile per la civile e pacifica convivenza tanto degli Stati, quanto degli individui. Parlare di equilibrio significava sviluppare, nella coscienza collettiva, l’idea di una società di cui tutti facevano parte e nei confronti della quale non si dovevano opporre interessi particolari, a scapito di quelli generali. Pertanto, bisognava realizzare o, per dirlo meglio, ripristinare quell’equilibrio che era stato turbato dai violenti movimenti rivoluzionari precedenti il Congresso di Vienna. Metternich era un esponente dell’ancien Régime, di quell’aristocrazia conservatrice che fino ad allora aveva governato la politica, sicché, per lui, l’equilibrio non poteva che essere ristabilito in un unico modo:
restaurando il principio di autorità, e un ordine gerarchico politico e sociale capace di porre un freno all’individualismo liberale e all’egualitarismo democratico. Ristabilire l’equilibrio fra gli Stati, l’equilibrio internazionale, con un assetto europeo che impedisca ogni tentativo di sopraffazione e di supremazia nel quadro della società europea[69].
Secondo Metternich l’equilibrio non si basava soltanto sui meccanismi di forza, in quanto doveva essere percepito legittimo dalla collettività e, perché ciò accadesse, era necessario che fosse universalmente riconosciuto e accettato. Molti autori sostengono che il concetto, così declinato, divenne una norma di politica internazionale valida per tutti, sicché possiamo dire che il «sistema», per funzionare adeguatamente, doveva preservare questo equilibrio[70].
Il grande pericolo per l’equilibrio europeo era rappresentato, a Occidente, dalla Francia (la minaccia di Napoleone era stata dominata, però l’epoca della Rivoluzione era ancora troppo vicina, sicché era auspicabile tenere una condotta di prevenzione verso il Paese) e, a Oriente, dalla Russia. Come ovviare a questi inconvenienti? Nella trattazione precedente abbiamo fatto riferimento alla previsione di una Confederazione germanica, quale centro politico che si collocava a metà fra quelle due Potenze che più di tutte potevano nutrire mire espansionistiche pericolose. In questo modo, tutti gli Stati tedeschi venivano riuniti in un unico organismo, strutturato secondo un ordinamento federale, che doveva esso stesso rispettare l’equilibrio internamente, ma doveva, allo stesso tempo, garantirlo a livello generale, evitando prese di forza da parte delle Potenze. L’Austria faceva pure parte di questo grande progetto, il che era coerente col disegno di Metternich di ricostruire un’Europa ispirata al principio dell’equilibrio. Da questa posizione, la monarchia d’Asburgo alla quale, peraltro, sarebbe stata (e sarà) attribuita la presidenza della Confederazione, avrebbe vigilato e sarebbe stata parte attiva nel mantenimento dell’equilibrio europeo[71].
A completamento di quest’opera, Metternich aveva ipotizzato la creazione, in Italia, di una struttura simile a quella tedesca, una sorta di Lega italiana, la quale, però, non riuscì a prendere corpo. Per questa ragione, il Cancelliere decise di orientare la sua politica d’azione sui domini austriaci del Lombardo – Veneto, dal momento che era di primaria importanza rendere la penisola italiana uno strategico spartiacque tra gli Asburgo e i restaurati Borbone di Francia. Infatti, «il saldo controllo, diretto o indiretto, dell’Italia da parte di Vienna costituiva un irrinunciabile baluardo territoriale per l’Occidente asburgico[72]», il che avrebbe, altresì, garantito all’Austria un controllo più saldo sull’Adriatico. Essendo questo l’ordine dei fatti, molti autori sono concordi nel dire che, in Italia, il principio che venne più applicato fu quello dell’equilibrio e quindi l’Italia faceva parte del «sistema» che Metternich intendeva realizzare.
Prima di soffermarci sulla disposizioni dei territori italiani, che seguì alle statuizioni di Vienna, proponiamo un approfondimento sulla politica italiana adottata dell’Austria, la Potenza egemone della penisola durante la Restaurazione. L’obiettivo era quello di rinforzare questa posizione di preminenza, così da renderla stabile e duratura, ed evitare di essere scalzati dai Borbone. La politica italiana dell’Austria, che si muoveva in questa direzione, affonda le sue radici nelle tradizioni settecentesche. A quell’epoca, l’egemonia fu raggiunta mediante un’azione moderata, facendo un uso ricorrente del matrimonio fra dinastie. Così ad esempio Giuseppe II, futuro Imperatore d’Austria, sposò Maria Isabella di Parma (1760); il fratello Pietro Leopoldo, che si sarebbe insediato in futuro alla Corte di Firenze, si unì con Maria Ludovica di Spagna. Grazie a questa politica moderata, l’Austria riuscì ad esercitare sui domini italoglotti un’influenza notevole (ovviamente non mancavano i dissensi e i contrasti) al punto da essere tollerata. Tuttavia, col tempo l’Imperatore Giuseppe II adottò una linea più severa, in quanto voleva introdurre un dominio di stampo più assolutistico e centralistico. Il obiettivo principale era unire i troni di Austria e Toscana[73]. Giuseppe morì senza eredi, sicché gli successe il fratello Leopoldo, il quale preferì ritornare ad una politica moderata e alla soluzione dei matrimoni tra dinastie. Lasciò quindi il Granducato al figlio Ferdinando, mentre il primogenito Francesco lo avrebbe succeduto al trono di Vienna, alla sua morte. Entrambi, poi, unirono la loro stirpe con quella dei Borbone di Napoli. In seguito, il nuovo Imperatore Francesco, che durante l’infanzia era stato molto a contatto con l’autoritario zio Giuseppe, ereditò entrambe le tradizioni: quella del padre e quella dello zio, per l’appunto. Pertanto, adottò una via di mezzo delle due tradizioni trasmessegli, sebbene seppe anche sfruttare gli eventi contingenti che si erano verificati. Durante la rivoluzione bonapartista, la Repubblica di Venezia era stata sbaragliata definitivamente da Napoleone, perciò Francesco decise di realizzare il programma che già aveva escogitato lo zio Giuseppe: annettere ai domini austriaci i territori della Serenessima e ottenere così un importante ampliamento dei territori. Contestualmente, mantenne la secondogenitura, lasciando così al fratello Ferdinando il trono di Firenze. Furono queste le modalità concrete mediante cui l’Austria, durante la Restaurazione italiana, esercitò l’egemonia di cui prima: un controllo diretto del nord Italia, unitamente alla soluzione della «secondogenitura» in Toscana e, in realtà, anche della «terzogenitura», Asburgo – Lorenza – Este, a Modena.
Nei confronti delle zone su cui esercitava un controllo diretto, Francesco adottò una linea di governo centralistica e assolutistica, precludendo alla province del Lombardo – Veneto qualsiasi forma di autonomia, benché i suoi consiglieri lo avessero indirizzato verso una politica più moderata, dal momento che conoscevano le popolazioni di quei territori, le quali, da parte loro, iniziarono a nutrire un’antipatia e un desiderio di indipendenza dall’Austria sempre crescente. Proprio la negazione di autonomia di quelle zone rappresenta, per molti autori, il fallimento politico dell’Austria che la porterà a perdere, a metà secolo avanzato, la Lombardia prima e il Veneto poi[74].
A questo punto, analizziamo come avvenne in Italia la restaurazione dei territori. L’assetto geopolitico stabilito a Vienna nel 1815 comportò che l’Austria (Potenza egemone sul territorio), inglobasse nell’Impero la Lombardia (grosso modo nella sua configurazione attuale) e il Veneto. La Repubblica di Venezia non fu restaurata. Questo è esempio di un dato che taluni storiografi fanno rilevare con riferimento alla Restaurazione in Italia: nello sforzo di ripristinare il regime precedente l’epoca delle rivoluzioni, alla penisola fu applicato maggiormente il principio dell’equilibrio, anche sacrificando, talora, quello di legittimità[75]. Oltre al Lombardo – Veneto, vennero a far parte dell’Impero (e quindi della grande Confederazione germanica) il Trentino, la Corniola, Istria e Trieste, che erano divenuti domini francesi, dopo l’invasione d’Italia da parte di Napoleone. Queste zone erano formalmente presiedute dall’Imperatore austriaco, il quale però non le governava direttamente. Infine, anche la Dalmazia e le ex Province Illiriche furono acquisite dall’Austria. In complesso questa si ritrovò ad esercitare un’influenza diretta su tutto il Nord italiano (escluso il Regno di Sardegna). Inoltre, ottenne un saldo controllo anche su una gran parte dell’Italia centro – settentrionale. Molti territori, infatti, furono assegnati a membri della famiglia Asburgo: il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla fu attribuito a Maria Luigia d’Asburgo, laddove in passato era appartenuto ai Borbone; a Francesco IV d’Austria – d’Este fu affidato il Ducato di Modena e Reggio che, nel 1827, si arricchì di Massa – Carrara; infine l’esteso Granducato di Toscana che, nel 1847 avrebbe inglobato anche Lucca, venne assegnato a Ferdinando III d’Asburgo – Lorena, anch’esso membro della famiglia imperiale[76].
Diversa fu la situazione nel resto della Penisola. Al centro, fu restaurato lo Stato Pontificio che riacquistò i territori del Lazio e dell’Umbria, prima, delle Marche, dell’Emilia e della Romagna, dopo. Ciò non significa che l’Austria non ebbe modo di far percepire la sua presenza anche in queste zone; infatti disponeva di truppe militari a Ferrara e Comacchio con lo scopo di «controllare e difendere il restaurato Stato Pontificio (o Stato della Chiesa)[77]». Al Sud, invece, dopo la breve parentesi del napoleonico Murat, fu ripristinata la dinastia borbonica e successivamente, nel 1816, i territori continentali e della Sicilia furono riuniti nel Regno delle Due Sicilie, il cui trono fu attribuito a Ferdinando I. Costui, tuttavia, non era slegato dal governo di Vienna in quanto, tra la primavera e l’estate del 1815, le due Corti siglarono un trattato che prevedeva protezione militare austriaca a tutela delle decisioni di politica interna adottate dal Regno, qualora le popolazioni si sollevassero. In tali occasioni, l’accordo attribuiva ai generali austriaci il comando in capo dell’esercito meridionale. In definitiva, anche laddove non poté ottenere un controllo diretto dei territori, l’Austria seppe comunque esercitare la sua influenza, così da «preservare l’ordine territoriale nell’Italia della Restaurazione[78]».
La sistemazione dei territori sin qui vista, ci permette di dire che l’Austria esercitava un controllo (diretto o indiretto) molto forte su tutta la penisola. Come accennato più sopra, soltanto il Regno di Sardegna conservava la sua indipendenza. A ben vedere, legami di vario genere (militari, dinastici) c’erano pure fra i Savoia e gli Asburgo: la moglie di Vittorio Emanuele I, Maria Teresa, era un’Asburgo e una loro figlia sarebbe divenuta imperatrice d’Austria, sposando Ferdinando I d’Asburgo – Lorena. Tuttavia, con riferimento al Regno di Sardegna c’è da fare la seguente considerazione: si configurava come uno Stato «cuscinetto». La sua autonomia e la sua indipendenza fu voluta dall’intero Congresso viennese, perché si trovava in una posizione strategica: teneva separate Francia e Austria, condizione di notevole importanza a salvaguardia dell’equilibrio europeo. Dunque, potremmo dire che il Regno di Sardegna fu fortunato da questo punto di vista, poiché difficilmente si sarebbe potuto opporre con successo alle decisioni del Congresso diretto dalle Potenze, non potendo competere con loro in quanto a risorse. Tuttavia, la monarchia sabauda, ben consapevole della sua posizione e del suo ruolo, seppe sfruttarli molto bene per ottenere dei vantaggi: facendo leva su questi presupposti, Vittorio Emanuele impedì la creazione di quell’organismo che Metternich proponeva, la Lega italica che, analogamente alla Confederazione germanica, sarebbe stata presieduta dall’Imperatore d’Austria, determinando necessariamente dei condizionamenti al Regno di Sardegna, in termini di autonomia. Tuttavia, la Corte di Torino fu in grado di assicurarsi un’esistenza libera ed indipendente, senza, peraltro, determinare alcun pregiudizio alla stabilità dei territori che le grandi Potenze volevano garantire all’Europa[79]. In questo modo, il Regno di Sardegna dimostrò di possedere ottime qualità diplomatiche e di negoziazione, che le varranno, quarant’anni più tardi, in occasione di un nuovo Congresso delle Potenze (pur non essendo tale), un posto al tavolo delle trattative e che le permetteranno di ricoprire con successo il ruolo di Stato – guida nel piano di liberazione del Paese dal «giogo» austriaco.
CAPITOLO SECONDO
COSTANTINO NIGRA
Sommario: 2.1 Il personaggio – 2.2 L’età giovanile e il periodo della formazione – 2.3 L’inizio della carriera diplomatica: da Massimo d’Azeglio a Camillo Cavour – 2.4 Il Congresso di Parigi.
2.1 Il personaggio
Iniziamo lo studio di una figura che, nella storia risorgimentale del nostro Paese, svolse un ruolo da protagonista: Costantino Nigra. Egli viene ricordato per essere stato segretario particolare di Cavour nonché per gli incarichi ufficiali che ricoprì quale rappresentante italiano nelle maggiori capitali europee: da Parigi a Pietroburgo, passando per Londra e Vienna. Fu inoltre segretario generale delle province meridionali, dopo l’unità d’Italia, e da un ultimo, nel 1890, venne nominato Senatore del Regno[80].
Nei prossimi due capitoli ci focalizzeremo sulla primissima parte della carriera di Costantino Nigra, quel giovane segretario che il Conte di Cavour assunse alle sue dipendenze (su suggerimento di Massimo d’Azeglio) per il disbrigo della corrispondenza, ma che, negli anni, divenne un suo stretto collaboratore nelle più alte questioni di Stato, avendo sempre dimostrato, nelle mansioni che gli erano affidate, ottime «doti di intuito e di praticità[81]». Ci concentreremo su quella che Walter Maturi definisce «la miglior parte dell’opera storica di Costantino Nigra[82]». Essa viene fedelmente documentata nel Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, che riporta la fitta corrispondenza i due ebbero durante questi tre anni. È da quest’opera che si è potuto ricostruire l’importante attività diplomatica di Nigra, fondamentale per concludere l’alleanza con la Francia.
Tracciamo, ora, un profilo generale del personaggio la cui attività, in realtà, passò inosservata agli occhi degli storici per molto tempo, nonostante Costantino Nigra va, potremmo dire, di diritto annoverato fra gli uomini che fecero il Risorgimento. Gli studi analitici su Costantino Nigra, infatti, iniziarono tardi, addirittura sul finire degli anni Venti del Novecento, stimolati sopratutto dalla pubblicazione, integrale e corretta, dei carteggi Cavour – Nigra tra il 1858 e il 1861. Tuttavia, ancora oggi la storiografia italiana non ha effettuato una ricostruzione integrale del personaggio, e secondo gli odierni approcci metodologici, tanto del periodo formativo, quanto degli anni di attività[83]. Ripercorrendo i momenti salienti della sua vita, cercheremo di analizzare questo fenomeno, cioè di capire quali siano le ragioni per cui Costantino Nigra fu pressoché assente nei testi della storiografia a lui contemporanea.
Cominciamo lo studio da una definizione di Federico Chabod, il quale nel 1951 definiva Nigra come «circondato da un alone in cui leggenda e storia si frammischiavano, e oggetto, come nessun altro fra i diplomatici, di simpatie e antipatie, di alti riconoscimenti e di critiche aspre[84]». Contestualizziamo questa definizione con riferimento agli anni in cui Costantino Nigra fu attivo nel mondo della diplomazia.
Gli anni fondamentali della carriera del diplomatico furono sicuramente quelli del periodo 1855 – 1861, perché corrispondono al periodo in cui si lavorò per il grandioso progetto indipendentista dell’Italia. Nigra era parte, inizialmente secondaria, di questo disegno, ma col tempo Cavour gli affidò compiti sempre più delicati, dal momento che lo considerava capace e determinato. Da ultimo, sul finire dell’estate del 1858, lo inviò alla corte imperiale di Francia con l’obiettivo di tradurre, in un trattato di alleanza franco – piemontese, gli accordi che erano stati raggiunti preliminarmente da Napoleone III e Cavour stesso. Si trattò di una missione molto delicata e complicata che Nigra, ci limitiamo a dire per ora, seppe terminare brillantemente: «l’anno 1858 si era chiuso con la formidabile attività diplomatica dispiegata da Nigra tra Parigi e Torino[85]». Di tutto ciò, l’opinione pubblica era totalmente ignara. Al di fuori di Cavour, del Re e di alcuni (pochi) altri, nessuno sapeva del ruolo ricoperto da Nigra in queste fasi. Il suo nome compariva soltanto in relazioni e lettere che costituivano informazioni riservate. In effetti, quelle compiute da Nigra erano per lo più missioni segrete di una diplomazia ufficiosa, parallela rispetto a quella ufficiale, di cui neanche il capo della legazione sarda a Parigi, Salvatore Pes di Villamarina, sapeva. Stando così le cose, era normale che, per ai più, il giovane diplomatico fosse, di fatto, sconosciuto[86].
Si cominciò a sapere pubblicamente di Nigra quando fu nominato segretario generale delle seconda luogotenenza napoletana, con lo scopo di velocizzare l’unificazione amministrativa delle province meridionali; era l’anno 1861. In realtà, questo episodio viene ricordato come il fallimento (forse l’unico) del giovane diplomatico. Maturi offre uno spunto di riflessione molto interessante in proposito: «altra è la diplomazia, altra l’amministrazione. Per l’amministrazione si richiedono capacità e cognizione tecniche che non si possono improvvisare e che il Nigra non aveva[87]». Del resto, lo stesso Nigra scrisse a Cavour, con riferimento alla sua amministrazione del Meridione: «io ho fatto quel che ho potuto; ho dato quello che avevo. Non posso dare quello che non ho[88]». Si trattava, dunque, di un compito che richiedeva delle doti e delle competenze di cui non aveva dimestichezza, avendo un’inclinazione naturale per le arti diplomatiche. In ogni caso questa fu una breve parentesi della sua carriera e probabilmente egli stesso la intese in questi termini, essendo il suo destino legato alla capitale francese: il 1° gennaio di quell’anno, infatti, ottenne una promozione e fu nominato Ministro plenipotenziario a Parigi[89].
Sempre nel 1861 si verificò un fatto che toccò profondamente Nigra: la morte improvvisa e prematura del suo grande maestro, il Conte di Cavour. Tutti si accorsero che il giovane diplomatico ne era rimasto sconvolto al punto che molti sostenevano che «Nigra dopo la morte di Cavour non è più il Nigra di prima[90]». Questo non significa che egli non fosse più in grado di svolgere con successo la sua nuova missione: i successivi quaranta anni di attività dimostreranno il contrario. Del resto, diversamente da quanto dicevano i suoi detrattori, i quali sostenevano che «Nigra non dicesse verbo o non facesse atto che non gli fosse suggerito dal maestro[91]», dacché aveva iniziato le missioni autonome all’estero, aveva sempre dimostrato una grande capacità d’azione e anche d’iniziativa. Godeva della massima fiducia di Cavour il quale spesso gli riconosceva un’ampia discrezionalità di scelta sulla conduzione delle negoziazioni diplomatiche. È emblematica la lettera che Cavour invia a Nigra il 9 ottobre 1858, in risposta ad suo telegramma: «non le do ulteriori perché a quest’ora ella sa condurre la barca al pari, per non dir meglio, di me[92]». Infine, riportiamo il celeberrimo giudizio di Cavour su Nigra, sempre testimoniato dal Carteggio: «Egli ha più talento di me, conosce perfettamente le mie intenzioni, e le sa eseguire come niun altro[93]». Pertanto, sulle qualità e sulle capacità di Nigra, benché non potesse più contare sull’appoggio di chi aveva contribuito alla sua formazione, nulla quaestio. Piuttosto, ciò che gli vennero a mancare, a seguito della prematura scomparsa del suo mentore, furono l’affetto, la stima, la confidenza che questi gli accordava sempre. Cavour stesso diceva di «amarlo e stimarlo come un figlio[94]». Erano questi sentimenti che Nigra ricambiò con una devozione così grande da fare di tutto pur di evitare che la memoria del suo maestro potesse essere in qualche modo disonorata. È possibile riportare un aneddoto al riguardo. Quando si trovava a Vienna in qualità di ambasciatore, si imbatté in alcune lettere autografe di Cavour, indirizzate a Bianca Ronzani «inspirate da una violenta passione, scritte con imprevidente abbandono, piene di particolari del carattere più intimo [che] farebbero torto alla memoria di Cavour, se conosciute e pubblicate[95]». Per scongiurare queste pericolo, le comperò e le bruciò in presenza di un testimone, redigendone il relativo verbale.
Abbiamo fin qui rappresentato la rapida e fortunata carriera diplomatica di Nigra, da semplice applicato di quarta classe, e segretario del Presidente del Consiglio Cavour, a Ministro residente a Parigi del neonato Regno d’Italia. Ovviamente, in questi anni non mancarono le critiche nei suoi confronti, forse anche ispirate da gelosia, perché aveva compiuto un’ascesa diplomatica e politica assai rapida, nonostante la giovane età. De Sanctis, sul finire dell’estate del 59, avendolo incontrato a Zurigo in occasione dei negoziati di pace con l’Austria, ne dava una descrizione pungente da cui trapelava un certo sarcasmo:
ho conosciuto qui il cavalier Nigra, l’amico di Cavour. L’avevo già veduto a Torino, giovinetto, timido, riserbato come una donnina. La diplomazia lo ha cambiato. È divenuto un bel giovane […]. Ha un’aria risoluta e un po’ da protettore ed era bello a sentirlo […]. Danza con grazia, schermisce con destrezza, cavalca egregiamente, sa il latino, il sanscrito, un po’ il francese, non so se anche il tedesco, ha molto teatro, pensa a questo che l’uditore acquisti una buona opinione della sua intelligenza […] e i buoni zurighesi sono rimasti con tanto di naso ad ammirarlo; del resto intelligenza chiara ma volgare, molta finezza negli affari, gran tatto nel conversare, adulatore sopraffino […]. Questa è la mia impressione […][96].
Nel 1861, poi, non appena venne data la notizia della sua elezione a Gran Maestro del Grande Oriente Italiano, le critiche divennero decisamente più aspre. Così scriveva la destra clericale di lui:
Costantino Nigra è un giovinotto di primo pelo, che entrò nelle grazie del conte di Cavour, che portavagli una speciale affezione, e l’incamminò per la carriera diplomatica, e lo volle depositario de’ suoi segreti. Era ben naturale che gli dovesse succedere nella Gran Maestranza della Framassoneria.
Il Nigra non ha niente di straordinario, e ci sono migliaia di giovani che valgono in Piemonte quanto egli può valere […].
Pochi anni fa, Costantino Nigra passava il tempo […] commentando le canzoni popolari del Piemonte […]. All’improvviso eccolo diventare un gran diplomatico e poi Ministro del Regno d’Italia a Parigi […] un mistero che egli progredisse così rapidamente; un mistero che trovasse così buona accoglienza presso il Bonaparte […]. Ma tutti questi misteri si rivelano colla nomina del sig. Nigra a Gran Maestro della Framassoneria Italiana. Da questo punto molte cose passate s’intendono facilmente, e molte altre a venire saranno di facilissima spiegazione[97].
Nel 1861, per Nigra iniziò anche una nuova stagione della sua vita diplomatica che durò finché si ritirò a vita privata. Affrontò questo nuovo periodo con una disposizione d’animo molto diversa da quella che lo aveva caratterizzato fino a quel momento. Percepiva nettamente il cambiamento e comprendeva che «una stagione della vita si era conclusa, quella della giovinezza “romantica” per fare l’Italia, così come si era chiusa una stagione politica della “poesia” e un’altra, della “prosa” e dei problemi del dopo unificazione, si era aperta[98]». Sicuramente, in queste frangenti Nigra sentì molto la mancanza dell’affetto e del sostegno morale del maestro Cavour ma, nonostante tutto, non venne meno ai suoi doveri professionali e per tutti gli anni Sessanta dell’Ottocento svolse un’intensissima attività diplomatica che risultò molto complicata, sia nelle questioni ordinarie, sia in quelle più delicate[99].
Due sono le questioni fondamentali che interessarono il Regno d’Italia nel primo decennio di vita e di cui bisogna dare conto: la questione romana e quella veneta. In entrambe Nigra svolse un’azione diplomatica importantissima: nella prima si occupò delle negoziazioni della Convenzione del settembre 1864, che prevedeva un ritiro graduale delle milizie francesi dallo Stato della Chiesa, a condizione che l’Italia non lo invadesse e che si spostasse la capitale del Regno da Torino a un’altra città, che fu individuata in Firenze; nella seconda, invece, rappresentò il governo italiano nelle trattative di pace con l’Austria, successivamente alla guerra del 1866[100].
Anche in questo decennio di intensa attività diplomatica, quale rappresentante italiano, Nigra non fu esente da critiche che giungevano da più fronti: dal Re e dal nuovo primo Ministro Ricasoli, i quali disapprovavano la politica estera condotta dal rappresentante italiano. La stampa e molti politici facevano, poi, da cassa di risonanza di questa disapprovazione generale e non mancarono scrittori improvvisati che non persero l’occasione per lanciare invettive gratuite. Citiamo un passo di Ferdinando Petruccelli Della Gattina, il quale scriveva:
Il Conte di Cavour, è noto, si serviva del Nigra per trasmettere e rimettere i dispacci, quando, facendo una politica cospiratrice, aveva bisogno di una mano sicura e non di un cervello acuto […]. Laonde, se finora si poté servirsi di un semplice portavoce e portalettere, in questo momento vi è mestieri avere un’intelligenza che sappia osservare, ponderare, giudicare e decidere […]. Nigra è incompatibile nel modo più assoluto a Parigi, perché borghese, avaro, niente serio, compromesso in amorazzi con donne di mal nome, non stimato dalla gente di nascita […] trattato con leggerezza dal mondo uffiziale francese[101].
Questo era il clima in cui, l’ancora giovane, ma più esperto diplomatico, doveva agire nella conduzione delle sue attività diplomatiche. Il fatto era che da parte sia della politica, sia dell’opinione pubblica, stava cambiando l’atteggiamento verso la Francia bonapartista. Certamente, negli anni Sessanta Parigi rappresentava ancora, in Europa, uno dei centri di riferimento in tutti gli ambiti: politico, culturale, sociale. Col tempo, Nigra aveva fatto di questo ambiente parigino il suo habitat naturale, intessendo continuamente nuove relazioni personali sia nel campo della diplomazia, sia in quello culturale, latamente inteso[102]. D’altra parte, fin dagli esordi della sua carriera, non aveva faticato ad integrarsi nella società parigina, essendo sempre stato incline alla “vita mondana”; già durante il periodo degli studi universitari, infatti, essendo dotato di bell’aspetto, gusto, eleganza, aveva avuto modo di frequentare i salotti torinesi e così di abituarsi ad un mondo che gli appariva familiare. In questo modo, univa alle sue doti d’ingegno, che furono parte indispensabile della sua fortuna in diplomazia, tutte quelle qualità esteriori che gli consentirono di avere grande successo nella società mondana[103].
Infine, bisogna tenere presente che Nigra era filofrancese. Questo è un aspetto che merita un approfondimento. Walter Maturi offre degli spunti interessanti al riguardo. Egli sostiene che Nigra, al pari di tutti i diplomatici delle piccole Potenze (com’era il Regno di Sardegna), non fu esente da una legge che lo studioso esprime in questi termini: «la forza suggestiva dell’ambiente della grande Potenza, presso cui sono accreditati[104]». Così come Nigra era filofrancese, Emanuele d’Azeglio era filoinglese[105]. Secondo Maturi, tre sono le ragioni per cui i diplomatici sviluppano questa filìa, nei confronti della sede di accreditamento: innanzitutto, per l’influenza generale che essi subiscono durante la loro permanenza nel Paese; in secondo luogo perché le grandi Potenze richiedono degli inviati che siano loro graditi; infine molto dipende dall’ambizione personale del soggetto accreditato perché, in base alla sede diplomatica presso cui è inviato, egli sa se quell’incarico sarà determinante per la realizzazione o meno di una carriera di successo.
Nigra fu sempre un autentico sostenitore dell’alleanza franco – piemontese, fin da quando era entrato in diplomazia al seguito di Cavour. In effetti, ebbe ragione di crederci ai fini della liberazione dall’Austria, ma finì con il cristallizzare questa situazione storica, dando quasi ad intendere che l’Italia, senza il supporto della Francia, non avesse un futuro. Questa fu la ragione per cui, già a partire dal 1867, si adoperò (ma invano) per evitare il conflitto tra Francia e Prussia che avrebbe determinato la fine del secondo Impero di Napoleone[106].
Aver trascorso molto tempo con Napoleone III, ed in generale con tutta la corte imperiale, comportò due conseguenze. La prima fu che Nigra fece suo quel concetto che l’Imperatore esprimeva nella formula «la forza delle cose». Secondo la visione di Napoleone, il processo di unificazione italiana era un fenomeno che era destinato a verificarsi, ma occorreva lasciare che ciò accadesse spontaneamente, senza prese di posizioni, o iniziative. Cavour non condivideva questa concetto, cosicché questa fu una delle poche occasioni in cui dovette richiamare il suo allievo, ricordandogli quanto fosse stata importante, nella storia, l’iniziativa individuale, e quanto fosse necessaria in quel periodo in cui si stava costruendo il futuro dell’Italia[107].
La ricorrente frequentazione della corte di Napoleone comportò, poi, che Nigra sviluppasse una simpatia ed un affetto sinceri per di lui e, in realtà, per tutta la dinastia napoleonica, basti pensare che, quando Nicomede Bianchi evidenziò l’importante ruolo svolto dall’Imperatore nella guerra d’indipendenza italiana, il giovane diplomatico gli scrisse «le sarà lode d’aver parlato, come conveniva e com’era debito il farlo ad uno storico italiano, dell’Imperatore Napoleone III, e della grande e principal parte ch’egli ebbe nel riscatto d’Italia nostra[108]».
Nigra conservò sempre questi sentimenti, anche dopo la caduta dell’Impero. Già sul finire degli anni Sessanta, quando ormai la Potenza prussiana era cresciuta enormemente, egli aveva previsto la fine di Napoleone e, proprio per questo, avrebbe preferito essere inviato in un’altra sede diplomatica. In alcune sue carte di quel periodo, confidava che «le cose in Francia peggiorano, e m’è doloroso l’assistere alla rovina di questo grande edifizio dell’Impero francese, col quale si collega tutta la politica da noi fatta sin qui[109]». Fu proprio dopo la caduta di Napoleone, sconfitto dai Prussiani, che Nigra avrebbe voluto, più che mai, allontanarsi da Parigi. Tuttavia non lo fece, sia perché l’allora Ministro degli Esteri, Visconti Venosta, aveva fiducia in lui ed era fermamente convinto che nessun’altro avrebbe rappresentato meglio l’Italia in Francia, sia per una ragione di opportunità politica: se avesse lasciato improvvisamente la sede francese, avrebbe dato l’impressione di essere stato l’agente di Napoleone anziché di sua Maestà, il Re Vittorio Emanuele, e invece – sono parole di Nigra – «io fui e sono il rappresentante dell’Italia e non quello di una dinastia estera[110]». A conferma di questo, possiamo aggiungere che, nonostante gli poté costare caro emotivamente, fu proprio lui a sconsigliare un’azione delle truppe italiane a fianco della Francia che l’aveva chiesta, azione che persino molti esponenti del governo peroravano, ma che fortunatamente non fu intrapresa, perché probabilmente non ci sarebbe stata, in seguito, l’occasione di occupare Roma[111].
Questi riportati sono dati molto interessanti, perché dimostrano che, i sentimenti che Nigra provava per Napoleone e per la Francia non gli fecero mai venire meno il senso della dignità nazionale, e che non avrebbe mai accettato di essere uno strumento nelle mani di una nazione straniera. Quando cedeva, lo faceva perché autentico esecutore del principio cavouriano di acconsentire alle piccole cose, con lo scopo di acquistarne di più grandi; aveva la sensibilità di trascurare i piccoli incidenti, per evitare che diventassero troppo rilevanti, mentre sapeva imporsi e non ammetteva compromessi nelle questioni di maggiore importanza: «non bisogna che appaia che noi siamo in tutto e per tutto pedissequi della Francia[112]», scriveva decisamente nel marzo del 1859. Piuttosto, tentò sempre di far sì che gli interessi dell’Italia e della Francia corrispondessero, nell’ottica di un reciproco sentimento di lealtà e rispetto: ciò cui Nigra puntò sempre fu una politica corretta e trasparente[113]. Si badi bene che egli mirava ad una politica integra, non solo verso la Francia, ma verso qualunque Stato: non si lasciava influenzare da simpatie o legami di vario genere. Così, anche durante il periodo di attività a Vienna, in qualità di ambasciatore, pose alla base della sua azione diplomatica lealtà e chiarezza. In politica e in diplomazia egli adottava una linea di azione che sicuramente i legami con la Corte imperiale e con Parigi rafforzava, ma che applicava con coerenza in tutte le situazioni.
Questa era un’altra caratteristica che distingueva Costantino Nigra: la coerenza del pensiero e dell’azione. Non era un uomo che cambiava opinioni e sentimenti a seconda del clima politico e sociale. Quando non si trovava d’accordo con i Ministri sulle questioni di maggior rilievo non esitava ad esprimere il suo dissenso: ad esempio negli ultimi anni della sua carriera, il Giornale d’Italia riportò un diverbio che ebbe con l’allora Ministro degli Esteri, Giulio Prinetti. Del pari, anche dopo la fine dell’Impero francese, non smise di esprimere il suo affetto e la sua gratitudine nei confronti di Napoleone. Scriveva così al Visconti Venosta, il 26 marzo del 1871: «Io serbo per l’Imperatore Napoleone e per la famiglia imperiale ora in esiglio la più sincera riconoscenza per la benevolenza speciale che l’una e l’altra mi mostrarono costantemente. Questo sentimento io lo serberò fedelmente, e lo confesso altamente[114]». Questo senso di fedeltà e di affetto non venne mai meno, neanche quando, in occasione del conflitto franco – prussiano (come del resto abbiamo già ricordato più sopra) si adoperò affinché l’Italia non prendesse parte alla guerra e promosse l’andata a Roma. Questa fu una decisione sicuramente non facile per Nigra, dati i legami affettivi che aveva creato in Francia, né fu semplice ottenere il consesso da parte della politica italiana che era divisa: il Re e i vertici militari avrebbero voluto schierarsi con Napoleone, sopratutto per ricambiare l’aiuto che egli aveva prestato nella guerra contro l’Austria; il gruppo moderato (di cui peraltro faceva parte anche Nigra) era tendenzialmente a favore della Francia, ma al momento si attestava su una posizione di neutralità; la sinistra, invece, era neutralista, antibonapartista e antiaustriaca, quindi filoprussiana, dal momento che vedeva nella Prussia una speranza per liberare Roma. In effetti, la presa della città avvenne il 20 settembre del 1870 con la famosa breccia di porta Pia, venti giorni dopo la caduta di Napoleone a Sedan. Con il plebiscito del 2 ottobre, il territorio fu annesso al Regno d’Italia e al 30 giugno dell’anno successivo fu fissato il trasferimento della capitale a Roma[115].
I cinque anni successivi alla proclamazione della Repubblica in Francia, furono per Nigra molto travagliati, non soltanto per le motivazioni personali di cui abbiamo ampiamente detto (la fine di una realtà che gli era molto cara e che gli apparteneva, essendone stato un importante protagonista), ma anche per una serie di altre ragioni che adesso spieghiamo. Innanzitutto, quale portavoce del Re, ebbe il compito di comunicare al governo francese il riconoscimento della Terza Repubblica da parte del Regno d’Italia. Conseguentemente, la sua posizione divenne alquanto delicata dal momento che attirava le ire di tutti i francesi, delusi dal mancato intervento dell’Italia a fianco della Francia. In generale, l’opinione pubblica vedeva Nigra quale il rappresentate di una Nazione irriconoscente che aveva dimenticato l’aiuto ricevuto nel 59 nel conflitto contro l’Austria. Inoltre, da una parte i bonapartisti gli rimproveravano di essersi arreso e di aver accettato la Repubblica con troppa leggerezza; dall’altra il nuovo regime repubblicano lo criticava per la fedeltà che aveva dimostrato a Napoleone; infine il governo italiano manifestava una sempre più crescente diffidenza sulla posizione che ricopriva a Parigi[116].
Pur tuttavia, rimase in questa sede per altri cinque, difficili, anni. Fu proprio in questo periodo che Costantino Nigra incominciò a soffrire quello che Chabod definisce «disincantamento[117]», una sorta di sfiducia in sé stesso e nelle sue capacità, una specie di pessimismo che quasi lo spinse a rifiutare l’incarico e a ritornare in patria[118]. D’altra parte, tanto suoi amici, quanto quelli che gli erano ostili, erano convinti che non era auspicabile che restasse a Parigi. Tuttavia, il Visconti Venosta, Ministro degli Esteri e amico dello stesso Nigra, gli chiese di rimanere perché credeva fermamente che nessuno potesse sostituirlo in quel ruolo. Inoltre, una partenza improvvisa, come abbiamo già accennato, lo avrebbe fatto passare per «l’uomo del bonapartismo, incapace di rappresentare l’Italia sotto un altro governo[119]». Di questo Nigra era pienamente consapevole e per evitare che gli venisse mossa anche questa critica, restò a Parigi fino al 1876 quando, salendo al potere al Sinistra storica, intervenne il suo trasferimento a Pietroburgo.
Soffermiamoci su questo «disincantamento», che caratterizzò la persona di Nigra a partire dagli ultimi anni trascorsi a Parigi. Scrivendo al Visconti Venosta, ammetteva una «mancanza di confidenza nel far bene che per me è un ritegno grandissimo[120]». Poteva apparire molto strano che, soltanto quarantaduenne, e dopo tutta l’esperienza accumulata in quegli anni di servizio, dimostrasse questa sfiducia in sé stesso e mancanza di decisione quando si trattava di agire. Sono sempre parole sue : «io son diventato da qualche tempo pieno di scrupoli […]. Non ho più la felice confidenza della gioventù […]. Mi sento inoltre molto affaticato. La sfiducia, il pensiero oramai di essere impari al mio compito s’impadroniscono spesso del mio animo e mi lasciano turbato[121]». Da questo momento in avanti, Nigra fu sempre di più portato a non agire, a non essere protagonista, dimostrando altresì una sfiducia nella stessa politica e, nel medesimo tempo, cercò di rivolgere un’attenzione vieppiù crescente nei confronti della poesia e dello studio[122]. Tutto ciò non significa che non seppe continuare a svolgere le sua attività d’ufficio, ad assumere una posizione e ad imporla laddove necessario. Quello che interessa rilevare è che non si trattava più del giovane diplomatico del 58 – 59 che giungeva a Parigi, per conto del Cavour, con grande fiducia di sé e pronto all’azione; era diventato un Nigra più meditativo e più intento alla letteratura che non alla politica. A conferma del suo disinnamoramento e di questa crisi di fiducia politica possiamo ricordare la rinuncia alla carica di Ministro degli Esteri del 85, reiterata nel 87. Inoltre, nel 94 e nel 95, fu convocato rispettivamente a Parigi e a Pietroburgo, per risolvere questioni delicate, ma anche in queste occasioni oppose il suo rifiuto, non avendo più quella forza di spirito che in passato lo spingeva ad affrontare negoziazioni complicate[123].
In sostanza, questo fu l’atteggiamento di Nigra, a partire dal 1870: una progressiva perdita di entusiasmo e di fiducia nelle proprie capacità, alla cui base c’erano sicuramente delusioni e amarezze derivanti dalla politica di quegli anni.
Per concludere questo profilo generale del personaggio, c’è ancora una caratteristica, che lo distinse nella sua attività di diplomatico, e che merita di essere approfondita: la misura. Essa risultava sopratutto dalla corrispondenza ufficiale che Nigra teneva con il governo, quando redigeva le relazioni per ragguagliarlo sulle sue attività. Il suo stile era efficace, ma allo stesso tempo sintetico e sobrio; evitava lungaggini, pur non peccando mai di chiarezza espositiva e di precisione. Era molto concreto nell’esposizione di fatti e di giudizi ed evitava sempre di fare previsioni che non avessero un fondamento logico[124]. Nel ruolo di diplomatico, uno stile così misurato e attento poteva risultare adatto e forse anche vincente, ma era privo di personalità, con la conseguenza che «per trovare il vero Nigra, vale a dire un acuto giudice di uomini e cose, un’intelligenza scaltrita e finissima, una conoscenza profonda non solo della Francia, sì della politica europea in genere, per trovare tutto questo bisogna ricorrere alle lettere private[125]». Soltanto nella corrispondenza con gli amici e confidenti, Nigra non aveva timore di fare giudizi, commenti e osservazioni liberi, mentre nei doveri d’ufficio si limitava ad un adempimento formale e preciso, che col tempo divenne sempre più rigido. In questo modo, però, quel concetto di misura venne esasperato al punto che, se poteva risultare un prezioso complemento di un atteggiamento prudente, riservato e paziente, assai utile nei rapporti diplomatici, finì con lo sconfinare in quella mancanza di entusiasmo di cui abbiamo trattato precedentemente e che, mutuando le parole di Chabod, abbiamo definito «disincantamento».
All’esito di questa analisi generale del personaggio, proviamo a fornire una risposta ragionata al quesito con cui questo paragrafo si è aperto, ovverosia al perché Costantino Nigra sia stato pressoché assente nella storiografia a lui coeva. È interessante cercare di capire le ragioni che lo hanno portato a restare nell’ombra, sopratutto nei primi decenni successivi all’unificazione italiana, lui che aveva avuto un ruolo fondamentale in questo processo ed era venuto a conoscenza di molti segreti di Stato, potendo così essere visto come uno dei protagonisti del Risorgimento. Levra offre degli spunti di riflessione in proposito. Innanzitutto, Nigra era un diplomatico e, perciò, era vincolato, più di qualunque uomo politico, alla riservatezza e alla segretezza. A queste si aggiungevano le doti di prudenza e misura succitate che egli possedeva naturalmente e che la sua posizione richiedeva, del resto. Possiamo, infine, anche ammettere che «la storia vera non si poteva ancora scrivere[126]». Tuttavia, tutte queste motivazioni non sono di per sé sufficienti a spiegare il suo atteggiamento di distacco dalla storiografia recente, nella cui redazione si erano pure occupati personaggi illustri e mossi dalla convinzione che, tramandando la storia, si faceva la politica e, nel medesimo tempo, si contribuiva all’educazione delle future generazioni di italiani[127]. Tra questi, ricordiamo il cavouriano Nicomede Bianchi[128] che scrisse la storia della diplomazia nella quale Nigra è citato solo due volte, il che non deve stupire dal momento che fu proprio lui a rifiutarsi di fornire allo storico delle notizie sulle sue attività passate che – assicurò il Bianchi – sarebbero state trattate con la massima riservatezza possibile[129]. Anche il Chiala[130] ricevette un rifiuto netto, quando propose la pubblicazione di alcune lettere di Cavour e Nigra sulle trattative inerenti Nizza e la Savoia, pervenutegli da terzi. Sicuramente, questo diniego venne opposto pure ad altri soggetti, volenterosi di arricchire le pagine del Risorgimento italiano, cosicché Nigra fu semplicemente ricordato in quegli anni come il segretario di Cavour ed esecutore affidabile delle mansioni che questi gli affidava[131].
Entriamo più nel dettaglio per trovare delle motivazioni che giustifichino la volontà di Nigra di non essere menzionato (ancora) in quella storia di cui egli era stato un protagonista. Certamente, in questo discorso hanno un peso importante la riservatezza e la prudenza che lo distinguevano e ai quali la sua professione lo avevano abituato. Oltre a ciò, dei dettagli importanti sono contenuti in due sue dichiarazioni. La prima fu rivolta al succitato Chiala, in proposito alle trattative di cessione della Savoia e di Nizza. Agli occhi di uno storico risulta molto interessante perché – come dice Levra – costituisce un’alta lezione di metodo storico, da parte di un soggetto che non si era mai occupato di questa materia, nella quale viene espresso un concetto moderno per quel tempo, quello di storiografia quale prosecuzione della politica[132]. Riportiamone alcuni passi:
Ad un distinto scrittore, com’Ella è, non ho bisogno di ricordare come la critica moderna non si contenti più di documenti spajati o monchi a fondamento de’ suoi giudizi. Il metodo di costrurre la Storia su queste basi incomplete, e perciò inesatte, è un errore grave […]. Ma questo metodo, che ha per effetto falsare la Storia, è e deve essere condannato […]. I documenti sui quali la Storia deve fondare le sue sentenze inappellabili vogliono essere assolutamente sinceri, e non possono esser tali che a patto d’essere interi e completi. Conseguentemente il mio avviso è contrario a questa pubblicazione[133].
Una seconda dichiarazione fu fatta da Nigra al giornalista, e amico, Delfino Orsini sul finire del secolo. In questa, l’ambasciatore rivelava una grande indecisione circa la pubblicazione di carteggi che riguardavano fatti che aveva vissuto in prima persona:
Confesso che sono molto dubbioso se io debba pubblicarle sì o no. Più avanzo in età e più i miei dubbi si accrescono. E non sarà impossibile che un bel giorno getti tutto al fuoco […]. Ogni volta che rileggo, trovo cose che è impossibile il dire […]. È troppo presto […]. Credo che io non pubblicherò queste memorie; saranno conosciute dopo la mia morte; molti odi e molti amori saranno allora nella tomba, e la verità […] non farà più paura[134].
Ora, questi rifiuti e tentennamenti non avevano come obiettivo quello di cancellare definitivamente la memoria storica degli anni in cui si era costruito il destino dell’Italia e dei quali Nigra era stato un attore principale. Piuttosto, è più plausibile ritenere che volesse essere lui stesso a raccontarli pubblicamente, quando i tempi fossero divenuti maturi e con le modalità che egli riteneva più adatte allo scopo. Così, negli ultimi anni della sua vita, iniziò a scrivere e a tramandare alcuni episodi di storia che aveva vissuto in prima persona: pubblicò il carteggio tra Cavour e la contessa di Circourt, anche e sopratutto come tributo al suo maestro e amico; agli inizi del Novecento comparirono dei brevi rapporti sulla luogotenenza napoletana e un racconto dei viaggi fatti da Vittorio Emanuele in Francia e Inghilterra nel 1855[135]. Inoltre, iniziò a raccontare agli amici più vicini e fidati episodi della sua vita passata, ma sempre con cautela e misura, tacendo evidentemente i particolari che potevano risultare compromettenti. E, forse, fu proprio per questo che, poco tempo prima della sua morte, diede fuoco a una quantità notevole di memorie da lui scritte, mentre altre furono rinvenute ma recanti l’ordine perentorio «da ardersi in caso di morte[136]».
Nigra morì non molto dopo e con lui una gran parte della sua attività politica e diplomatica, non avendo avuto la possibilità di pubblicare alcunché di inedito, né di incaricare qualcuno che lo facesse al posto suo, come fece a suo tempo con lui il Conte di Cavour. Questi, infatti, aveva ordinato al giovane diplomatico di riordinare tutta la corrispondenza tra loro intercorsa negli anni dal 1858 al 1861 e gli aveva fornito tutte le carte confidenziali che possedeva e che servivano allo scopo. Era volontà di Cavour che Nigra scrivesse la «storia dei nostri tempi[137]». In realtà, questo obiettivo non fu realizzato, ma tutto il Carteggio Cavour – Nigra di quel triennio ci è pervenuto grazie alla pubblicazione dell’opera da parte della Commissione Regia alla fine degli anni Venti del Novecento.
Come abbiamo detto nelle prime pagine del paragrafo, fu proprio questa pubblicazione a stimolare i primi studi analitici su Costantino Nigra, una figura chiave del Risorgimento italiano che rimase sconosciuta ai più per parecchio tempo a seguito di tutte quelle considerazioni soggettive e oggettive che abbiamo avuto modo di proporre fino a questo punto della trattazione.
2.2 L’età giovanile e il periodo della formazione
La letteratura storiografica più recente conta ancora pochi studi approfonditi e metodologicamente aggiornati sulla figura di Costantino Nigra, sia con riferimento agli anni della sua formazione diplomatica e politica, sia per quanto riguarda specificamente la sua attività di rappresentante italiano all’estero[138]. Michelangelo Giorda così lo descrive nella primissime righe della sua biografia «Poeta e politico, storico e filologo, spirito geniale e metodico, natura volta a volta, fredda ed ardente, cosmopolita nostalgico della terra natale tale fu Costantino Nigra[139]». Egli nacque l’11 giugno 1828 a Villa Castelnuovo, un piccolo paese del Canavese, che oggi porta il nome di Castelnuovo Nigra in suo onore. Si trattava di una località che conduceva un’economia di sussistenza basata sui prodotti che si ottenevano dalla coltivazione di campi e piante di vario genere, nonché dall’allevamento del bestiame; una comunità contadina, in sostanza[140].
Pur vivendo in un contesto economicamente limitato, Costantino e i suoi fratelli minori (Michelangelo e Virginia) ebbero un’infanzia piuttosto agiata, dal momento che i genitori appartenevano alla borghesia provinciale, il che li collocava tra i maggiorenti del paese. Il padre Ludovico, di spirito liberale, era il medico condotto della valle e godeva di una buona reputazione essendosi sempre dimostrato disponibile sia in ambito professionale, sia come uomo. Fu processato per aver preso parte ai moti del 21, dovette scontare una misura di sorveglianza da parte della polizia, ma gli fu permesso di continuare ad esercitare la sua professione. La madre Anna Caterina, invece, proveniva da una famiglia di notai ed era nipote di Gian Bernardo Rossi, un grande studioso e professore di lingue orientali all’Università di Parma. Fu probabilmente da questo prozio che Nigra ereditò l’amore per le lettere, i classici e le lingue, una passione che coltivò sempre e cui si dedicò per tutta la vita, sebbene il suo destino era legato, per volontà paterna, agli studi giuridici[141].
Nonostante alcuni sacrifici economici, Ludovico poté offrire a tutte e i tre i suoi figli un’adeguata istruzione. Virginia, in seguito, fu data in sposa ad un notaio, per perpetuare la tradizione di famiglia, mentre i due maschi intrapresero gli studi universitari: Costantino alla facoltà di Legge, Michelangelo a quella di Medicina. I due fratelli, peraltro, rimasero molto legati affettivamente per tutta la vita, nonostante i loro destini presero due strade completamente diverse. A consolidare questo legame contribuì un fatto di cui Costantino fu responsabile: durante una partita al gioco del “cirlo[142]” (o “cerimella”) accecò, accidentalmente, da un occhio Michelangelo con un pezzo di legno[143]. Il senso di colpa accompagnò Nigra per tutta la vita ed è per questo motivo che si legò fortemente al fratello minore, con il quale sentiva di doversi sdebitare. Fu per questa ragione che, non appena la sua situazione economica glielo permise, decise di finanziare a Michelangelo gli studi in medicina presso l’Università di Parigi. Peraltro, in questo contesto poté anche avvalersi del fratello quale intermediario di fiducia fra lui, Cavour e l’Imperatore per la consegna della corrispondenza dal contenuto più delicato[144].
Il riferimento al legame affettivo tra Nigra e il fratello ha una sua importanza, se inserito nel contesto di un’analisi più generale del personaggio, di cui abbiamo, in effetti, già dato conto nel precedente paragrafo, ma che è possibile arricchire con l’approfondimento che segue. Secondo Chabod, Nigra «che era potuto sembrare se non proprio un cinico alla Talleyrand, almeno uomo dalla fredda volontà tesa verso il successo, fosse politico fosse amoroso, con indifferenza de’ mezzi[145]» fu, in realtà, sempre fedele e leale non soltanto nella sua vita pubblica, ma anche in quella privata e sopratutto nei confronti di quei non molti che gli furono sinceramente amici e intimi. Tra questi, il principale e il più amato, in particolare dopo la morte dei genitori, fu certamente il fratello Michelangelo, il quale morì prematuramente nel 1893 essendosi ammalato di cancro. Il fatto causò a Costantino un dolore grandissimo, quasi da non riuscire ad accettarlo. A pochi giorni di distanza dalla morte del fratello, così scriveva alla sorella Virginia: «io non posso ancora prendere con rassegnazione questa amara, dolorosissima perdita e ne sono oltremodo sconsolato[146]». E similmente al cognato: «io non posso ancora darmi pace della disparizione del mio amato Michelangelo […]. Io veramente non avrei mai creduto possibile che io gli sopravvivessi. Non posso pensare che non lo vedrò mai più senza che io sento uno schianto nell’animo mio[147]».
Nigra amava la famiglia per natura, ma non riuscì a costruirne una sua su cui potesse creare un reale affidamento, di cui avrebbe avuto assai bisogno sopratutto dopo il 1861, periodo ricco di preoccupazioni e amarezze professionali. In realtà, sposò la figlia del politico e studioso Vegezzi Ruscalla, Emerenziana, ed ebbe da lei anche un figlio, Lionello. Tuttavia, fin da subito apparve un’unione fallita dal momento che i caratteri e aspettative dei coniugi erano di fatto incompatibili: lui energico, brillante, occupato da impegni mondani che, spesso e volentieri, rispondevano ad esigenze della sua stessa carriera; lei riservata, chiusa e dall’aria infelice che, probabilmente, ambiva ad una vita matrimoniale per così dire tradizionale e meno movimentata ma che, evidentemente, il marito non poteva garantirle. Di fatto, la coppia si separò molto presto, pur lasciando legalmente in vita il matrimonio[148].
Di questo passo, quando Nigra giunse agli ultimi dieci anni della sua carriera, gli unici parenti rimastigli erano il figlio, sul quale per la verità non poté mai fare affidamento essendo, anzi, una fonte di preoccupazioni e amarezze, la sorella e la di lei famiglia, con la quale mantenne vivi i contatti, tramite una regolare corrispondenza, e che andava a visitare quando gli erano accordati i consueti congedi annuali. In tali occasioni dimostrava sempre la sua gentilezza e la sua cortesia, ma si avvertiva che il suo stato d’animo non aveva più la vitalità di un tempo, complice anche un senso di nostalgia verso la famiglia che, da un lato, era venuta a mancare per la perdita degli affetti più cari, e che, dall’altro, non era riuscito a costruire forse anche per aver sempre anteposto davanti a tutto la sua carriera[149].
Stando così le cose, non è azzardato dire che quel senso di “disincanto”, di mancanza di entusiasmo, che caratterizzò la sua attività politico – diplomatica già a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento[150], ebbe in seguito dei risvolti anche nella sua vita privata: un vuoto interiore che tentò di annullare dedicando tutte sé stesso al lavoro, allo studio, alla vita mondana. Per chiudere con le parole di Giorda «Nigra era un vittorioso agli occhi del mondo, non del suo intimo: all’orlo della vecchiaia egli si sentiva solo, sconsolato ed avvilito[151]».
Terminato questo excursus sul ruolo che, nella vita di Nigra, giocarono la famiglia e gli affetti, riprendiamo il discorso della sua formazione.
Effettuò gli studi primari tra Castellamonte e Cuorgnè, poi quelli secondari a Ivrea, frequentando il ginnasio e il liceo. Terminando le scuole con ottime votazioni, riuscì ad ottenere una borsa di studio del Collegio delle Province. Si trattava di un istituto creato, circa un secolo prima, per volontà di Vittorio Amedeo II, con lo scopo di finanziare e quindi consentire a cento studenti del Regno, tra i più meritevoli, ma dalle ridotte capacità economiche, di accedere ai percorsi universitari. In questo modo, si voleva permettere anche a coloro che non possedevano un censo e una posizione sociale elevati, ma che dimostravano ottime qualità e impegno, di contribuire alla formazione delle future classi dirigenti del Paese[152]. Fino a quel periodo, e in realtà fino a metà del XIX secolo, il ceto dirigente era perlopiù costituito da nobili vicino alla Corte, il che offriva al sovrano il vantaggio di poter contare su Ministri di fiducia. Con successive riforme, con la previsioni borse di studio per i più volenterosi e, infine, con l’instaurazione di una Monarchia costituzionale nel 1848, si diede la possibilità di accesso alle cariche pubbliche a personaggi nuovi nel panorama statale. Tra questi figurava anche Costantino Nigra[153].
Nell’autunno del 1845, il giovane canavesano giunse a Torino, capitale del Regno sabaudo, per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza. Umberto Levra offre una bella e significativa descrizione del Nigra diciasettenne. La riportiamo testualmente in quanto elenca e definisce tutte quelle qualità che egli possedeva e che costituirono un fondamentale punto di partenza per il successo che la sorte gli riservò in diplomazia e nella società bene dell’epoca:
Intelligente, sensibile, colto, molto percettivo, duttile, accattivante nel tratto, signorile nei modi, abilissimo nel cogliere con spregiudicatezza le occasioni, Nigra aveva ricevuto dalla natura anche una prestanza e una bellezza fisica non comuni: alto, robusto ma snello, i lineamenti fini e virili, il portamento distinto, i capelli castani fluenti fin sul bavero del soprabito i baffi biondissimi, gli occhi grigio – azzurri, grandi, scintillanti[154].
Il trasferimento a Torino rappresentò, per Nigra, una grande svolta, perché ebbe modo di accostarsi al mondo della politica in un periodo, quello del 1846 – 1848, ricco di aspettative, di cambiamenti e di speranze d’indipendenza dal giogo austriaco, vieppiù vive. Fin dal 46, infatti, il Regno sabaudo aveva intrapreso una serie di riforme che miravano a realizzare un effettivo ammodernamento di uno Stato in cui il processo di industrializzazione procedeva sempre più veloce. Per questo furono creati istituti quali, ad esempio, la scuola di meccanica e di chimica applicata alle arti, che aveva come obiettivo la formazione di tecnici in materia; fu fondata l’associazione agraria che ricoprì un ruolo importante nell’economia del Regno[155] e via discorrendo.
Fu l’inizio della vita mondana, che rappresentava un momento fondamentale, per gli uomini e le donne di cultura, per discutere e confrontarsi su tematiche di attualità. Venivano molto frequentati circoli letterari, caffè, accademie private, salotti, in cui si discuteva di cultura in senso lato: politica, economia, arte, letteratura. Famosi erano i salotti della marchesa Doria di Cirié e della baronessa Olimpia Savio. Nigra fu un assiduo frequentatore, insieme con tanti suoi coetanei, di questi luoghi, anche perché l’Università, a quel tempo, non forniva grandi stimoli intellettuali: docenti affermati per dottrina come Mancini, Ferrara, Mamiani, furono arruolati nell’ateneo torinese solo dopo il 48. Questo era, in complesso, il tessuto sociale torinese che era in continua evoluzione e nel quale l’élite quarantottesca, che fu in seguito una protagonista del Risorgimento italiano, venne a formarsi. In un contesto socioculturale siffatto si trovava anche il giovane studente in Legge, il quale compì, proprio in questi anni, quello che potremmo definire il suo «apprendistato politico» che culminò, nel marzo 1848, con l’arruolamento nel corpo dei bersaglieri volontari: cominciava la prima guerra d’indipendenza contro l’Austria[156].
Carlo Alberto diede inizio alle ostilità, consapevole dell’inferiorità delle milizie piemontesi, in confronto a quelle austriache, nonché dell’isolamento diplomatico. In realtà, nel mese di maggio il Piemonte conseguì un serie di vittorie che facevano ben sperare, ma purtroppo nel mese successivo, il cosiddetto “giugno nero”, ci fu una rapida e inaspettata controffensiva dell’esercito austriaco, guidato dal generale Radetzky, che pose termine al conflitto con l’armistizio Salasco. L’anno dopo, a marzo, su incitamento di una buona parte della popolazione, Carlo Alberto riprese le ostilità, pur sapendo che andava incontro ad una sconfitta certa, che intervenne in soli quattro giorni. Il re abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II e si diresse in esilio a Oporto, in Portogallo. Finiva così, e con un fallimento totale, la guerra per l’indipendenza della penisola, della quale si era fatto promotore e guida lo Stato sabaudo[157].
Nigra fu attore, anche lui, di questo ambizioso progetto, ma soltanto della prima parte di esso. Dopo un rapido addestramento impartito dall’ufficiale Francesco Cassinis, combatté sotto il suo comando, insieme con i commilitoni volontari (tutti studenti), nelle battaglie di Peschiera, Santa Lucia, Calmasino e Goito. Tutti quanti diedero prova di buona volontà e dedizione che mettevano alla causa nazionalista, al punto che lo stesso Cassinis riconobbe il loro grande valore. Scriveva, infatti, al fratello: «la mia compagnia mostrò un coraggio ed una fermezza degna di vecchi soldati […] con un sangue freddo che molto onorò fin da principio i miei nuovi eroi[158]».
L’esperienza di Nigra nell’esercito fu breve ma intensa. L’ultima battaglia cui prese parte si combatté a Rivoli Veronese, dove si procurò una seria ferita all’avambraccio destro, trapassato da una pallottola austriaca. Gli furono prestate tempestivamente le cure necessarie, ma fu altresì costretto ad un rientro anticipato a Torino, per intraprendere un periodo piuttosto lungo di convalescenza e riabilitazione. Tuttavia, l’infermità non gli impedì di coltivare interessi culturali, che amava tanto, frequentando i salotti e i circoli culturali (come faceva prima della guerra). Peraltro, non potendo inizialmente scrivere con la mano destra, imparò ad usare la sinistra al punto da poter usare indifferentemente l’una e l’altra. Questa acquisita capacità gli fu molto utile per mantenere l’anonimato nella corrispondenza riservata durante l’attività diplomatica: se qualche individuo indesiderato avesse mai letto il contenuto della lettera, difficilmente ne avrebbe intuito l’autore[159].
Nel luglio dell’anno successivo, Nigra conseguì la laurea in diritto civile ed ecclesiastico, come prevedeva la normativa vigente a quel tempo. L’obiettivo era stato raggiunto, ma il giovane non sembrava propenso a scegliere uno degli sbocchi naturali che il percorso di studi appena terminato offriva. Ciò non stupisce; basti pensare che parallelamente agli studi giuridici, si dedicò a quelli che più gli erano congeniali e realmente lo appassionavano: le lettere e le lingue[160]. Non a caso, uscito dall’Università, i professori vedevano in lui un futuro e promettente poeta[161].
In effetti, nei primi due anni successivi alla laurea, Nigra si dedicò alla scrittura di poesie, alle traduzioni dal latino e dal greco e agli studi filologici. Conobbe, inoltre, personalità importanti del settore che lo spronavano a proseguire per quella via. Tuttavia, i lavori che produsse in questo periodo non gli consentivano di autosostentarsi dignitosamente sicché, vuoi per le limitate risorse economiche, vuoi per l’insistenza del padre, non volendo intraprendere la carriera forense, si orientò ad un’occupazione nell’amministrazione statale, per la quale il suo titolo di studio, in effetti, lo predisponeva[162].
2.3 L’inizio della carriera diplomatica: da Massimo d’Azeglio a Camillo Cavour
Costantino Nigra fece il suo ingresso in diplomazia vincendo un regolare concorso indetto dal Ministero degli Esteri, acquisendo così la qualifica di applicato volontario di prima classe. Fino ad allora, la carriera diplomatica era appannaggio dell’aristocrazia, ma sotto la presidenza di Massimo d’Azeglio era stato abolito questo privilegio mediante l’introduzione di un concorso pubblico, così da permettere anche a chi non si potesse fregiare di un titolo nobiliare, ma si dimostrasse capace e volenteroso, di accedere agli impieghi statali di più alto livello. Nigra, dunque, all’esito dell’esame risultò idoneo all’attività, cosicché poté iniziare quello che era sostanzialmente un periodo di apprendistato (non retribuito) della durata di due anni. Terminato positivamente il tirocinio avrebbe avuto accesso ai ranghi ufficiali della diplomazia, ai livelli inferiori[163].
A questo punto, si palesò al giovane volontario un’opportunità che fu molto pronto a cogliere: l’incontro con Massimo d’Azeglio, capo del Governo e Ministro degli Esteri dal 1849 al 1852. Costui, infatti, necessitava della figura di un segretario che si occupasse di tenere la corrispondenza, mentre soggiornavano nella località di Cornigliano, a Genova, dove il presidente si recava tutti gli anni per sottoporsi a delle cure termali. Gli fu proposto l’applicato volontario Costantino Nigra. La scelta, secondo quanto ci riportano Campanella e Giorda, cadde su di lui sopratutto per una ragione: possedeva, rispetto a tutti gli altri suoi colleghi, una grafia bella ed intelligibile ed era chiaro e ordinato nella stesura dei testi[164]. Poteva sembra, questa, una qualità trascurabile, di non grande valore, ma che gli valse molta fortuna per il futuro, perché è probabile che, senza l’esperienza al fianco di d’Azeglio, non avrebbe avuto in seguito l’opportunità di conoscere il Conte di Cavour, come a breve vedremo. In ogni caso, sempre con riferimento alla scelta di Nigra come segretario, è verosimile ritenere che:
Probabilmente giocarono a favore anche informazioni positive raccolte con discrezione sul candidato, in una città in cui le élites erano ancora ristrette e tutte in relazione tra loro; e in cui l’abile sforzo di inserimento del giovane provinciale cominciava a dare i suoi frutti, se Olimpia Savio ne annotava i modi inappuntabili, il riserbo, la poca espansività, l’ingegno poetico, la bella ed elegante persona[165].
Rientrati dal soggiorno ligure, Nigra fu assunto alle dipendenze dirette del presidente, complice anche il fatto che i due risultavano affini sotto diversi punti di vista: avevano combattuto entrambi durante la guerra d’indipendenza, erano uomini di cultura e amavano lettere. Tutte queste comunanze fecero sì, inoltre, che tra loro nascesse un’ottima intesa anche sotto il profilo umano che nel tempo si sarebbe rivelata un’autentica amicizia[166].
Dobbiamo rilevare che, in questo frangente, Nigra si dimostrò attento a sfruttare l’opportunità che gli era stata concessa, spendendo abilmente tutte le qualità, intellettuali e non, che possedeva. Rivelò di sapersi guadagnare la simpatia e la stima dei suoi interlocutori, mediante un non comune intuito psicologico e grazie alla capacità di entrare in sintonia con l’animo delle persone. Si trattava di doti che, indubbiamente, potevano risultare vincenti nell’ambito di tutte quelle pratiche e attività tipiche del mondo diplomatico e cui Nigra ricorse spesso nel corso della sua carriera, sopratutto quando doveva rapportarsi con personalità di spicco nella società, il cui aiuto era indispensabile per perseguire i suoi scopi e le sue ambizioni[167]. Questo fu l’atteggiamento che gli valse l’illimitata fiducia di Cavour, che gli consentì di avere successo nelle trattative di alleanza con Napoleone III e che, più in generale, lo caratterizzò in tutti i suoi incarichi.
Alle dipendenze di d’Azeglio Nigra ebbe modo di acquisire dimestichezza del nuovo ambito di lavoro e, poiché dimostrava una capacità di apprendimento rapida, gli venivano affidati incarichi ogni volta più delicati. Fu a questo punto che ebbe i primi contatti con Cavour. Questi era Ministro dell’Agricoltura e del Commercio dal 1850 e, siccome aveva introdotto delle nuove politiche liberali, nell’ottica dell’ammodernamento dello Stato, si rendeva necessaria una costante dialettica fra questo dicastero e il Governo che doveva, evidentemente, appoggiarlo. D’Azeglio incaricò di fungere da intermediario fra il Ministero suo e quello di Cavour, di «fare la spola[168]», per servirci delle parole di Giorda[169].
Il 4 novembre 1852, Massimo d’Azeglio lasciò il Ministero degli Esteri e la presidenza del Consiglio, che passarono a Camillo Benso, Conte di Cavour. Fu questa l’occasione che aprì la fortunata strada di Nigra nel mondo della politica e della diplomazia. Infatti, nel passaggio di consegne, d’Azeglio segnalò a Cavour il volenteroso e capace applicato volontario, «quel giovanotto dall’intelligenza aperta e che sapeva destreggiarsi con sorprendente abilità anche in situazioni per lui nuove o insolite[170]». Questa data, dunque, segnò l’inizio dei rapporti di collaborazione fra i due che, col tempo, si intensificarono. Ritenuto da Cavour un impiegato competente fin dall’inizio, Nigra iniziò a guadagnarsi fiducia e apprezzamento per le sue qualità personali e lavorative, venendo frequentemente incaricato nuove di mansioni, ogni volta più delicate. Uno di questi fu il rinnovo del trattato di commercio con l’impero ottomano che gli valse, nel 1855, la sua prima decorazione[171].
Finalmente, nell’agosto del 1853 il periodo di apprendistato terminò. Nigra ottenne un posto fisso da applicato al Ministero e il suo primo stipendio che, a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo sarebbe aumentato, in conseguenza della promozione ad applicato di quarta classe[172].
In questi e negli anni venire, Nigra stette al fianco di Cavour, che fu per lui un maestro nelle arti politiche e diplomatiche. Si trattò di un periodo formativo molto importante per il giovane applicato perché poté apprezzare da vicino il metodo di lavoro dello statista e perciò apprendere da lui come impostare e affrontare gli affari, tanto quelli interni, quanto quelli di carattere internazionale. Grazie alle sue doti di intuito e alla capacità entrare in empatia con i suoi interlocutori, Nigra col tempo imparò a conoscere la psicologia di Cavour e a capirne i pensieri e le azioni, divenendo infine depositario delle sue confidenze. In sostanza, il giovane diplomatico, pur inconsapevole, stava preparandosi per quel ruolo di «alter ego[173]» del maestro che, qualche anno più tardi, seppe ricoprire molto efficacemente durante le trattative di alleanza con Napoleone III. Proprio durante quella missione, rimasto molto soddisfatto dell’attività di Nigra, Cavour gli scrisse: «Non le do ulteriori istruzioni giacché a quest’ora Ella sa condurre la barca al pari, per non dir meglio di me[174]».
Per tutti gli anni Cinquanta, il Regno di Sardegna fu proiettato verso la modernizzazione dello Stato, che la politica di Cavour orientò lungo tre direttrici principali. La prima riguardava il settore dell’economia e delle finanze e aveva una serie di obiettivi precisi: puntava ad una riduzione del protezionismo tutto a vantaggio di una situazione di libero mercato che aveva, come scopo, quello di promuovere scambi e trattati commerciali con i principali Stati europei, facendo così uscire il Piemonte dall’isolamento; mirava ad un aumento dei lavori pubblici, mediante la realizzazione di strade e infrastrutture nuove, ad un continuo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria siderurgica, meccanica e cantieristica (la cui sede era Genova); il tutto veniva sorretto da un incremento della spesa pubblico che comportò, di conseguenza, un aumento dell’imposizione. La seconda direttrice puntava a dare vita ad una nuova classe politica dirigente piemontese e, lato senso, italiana, il che poté realizzarsi per due ragioni: da un lato si lavorò per creare uno schieramento politico forte, in cui confluissero le ali moderate della destra e della sinistra, per consentire le riforme, isolando le due estremi; dall’altro si caldeggiò un fenomeno di inclusione nella vita politica, amministrativa e culturale del Regno di tutti quegli esuli di spirito liberale che provenivano da altri Stati della penisola e che desideravano condurre la loro vita nell’unico Regno che era dotato effettivamente (per la mentalità dell’epoca) di una Costituzione. Infine, l’ultima direttrice riguardava la politica estera piemontese che, nei piani di Cavour, doveva assumere delle connotazioni di carattere nazionale[175]. Per la realizzazione di quel grande progetto indipendentista che, nel 1861 avrebbe iniziato il processo di unificazione di tutta la penisola sotto un’unica Corona, il Piemonte doveva assumere in Italia, e in nome suo, un ruolo di guida che doveva essere riconosciuto non soltanto a livello interno, ma anche europeo[176]. Con riferimento a questo terzo grande tema delle politiche cavouriane diede il suo contributo anche Costantino Nigra che, nel frattempo, stava accumulando esperienza sul campo, stilando bozze di note e dispacci di servizio e occupandosi di tutti gli incarichi che Cavour riteneva di affidargli, acquisendo così dimestichezza nell’ambito degli affari di Stato.
Coerentemente con quanto detto finora, la politica estera di Cavour era protesa ad impegnare il Regno di Sardegna nella guerra di Crimea, che vedeva contrapposte la Turchia, sostenuta dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e la Russia, la quale dimostrava mire espansionistiche sui Balcani. Fu Cavour a sostenere la necessità, da parte del Piemonte, di offrire il suo contributo al conflitto, scendendo in campo affianco alle due Potenze occidentali. Il Re Vittorio Emanuele lo assecondò, sebbene il suo stesso governo e tutta l’opinione pubblica fossero contrari. Qual era l’obiettivo di questa politica di intervento? Innanzitutto, Cavour voleva evitare che il piccolo Regno di Sardegna rischiasse di trovarsi in una posizione di isolamento diplomatico, dopo una guerra da cui l’Europa del Congresso di Vienna sarebbe uscita in qualche modo modificata; in secondo luogo (e probabilmente questa era la preoccupazione principale) voleva dimostrare alle grandi Potenze europee che il Piemonte, considerato eccessivamente liberale, non era un focolaio di rivoluzionari e che, anzi, era l’unico in grado di tenere sotto controllo le ostilità verso l’Austria, ispirate da istanze indipendentiste sempre più vive. In sostanza, l’obiettivo che Cavour si aspettava di realizzare era quello di far ammettere il Regno di Sardegna al Concerto delle Potenze, cosa che effettivamente avvenne, due anni più tardi, in occasione del Congresso di Parigi, di cui parleremo più avanti nella trattazione[177].
Posti i risultati che Cavour sperava di conseguire partecipando attivamente al conflitto, bisogna aggiungere che l’intervento in Crimea rappresentò una mossa azzardata perché, inizialmente, Francia e Gran Bretagna non erano favorevoli ad ammettere il Regno di Sardegna alle future trattative di pace, in quanto temevano di urtare l’Austria, accettandolo, né gli interessi di quel piccolo Stato rientravano in alcun modo nei loro. Tuttavia, ottenevano dei vantaggio nel vederlo schierato dalla loro parte: la prima voleva rassicurare l’Austria contro i pericoli di aggressione, che essa paventava, e spingerla ad unirsi a loro contro la Russia; l’Inghilterra, da parte sua, non disdegnava un aiuto militare da parte del Piemonte. Quest’ultimo diede un prezioso contributo durante il conflitto, dimostrando di essere uno alleato affidabile, condizione che gli valse l’opportunità di sedere al tavolo delle trattative, nel successivo Congresso del 1856[178].
Cavour, dunque, attuando una politica vincente, seppur rischiosa, riuscì a conferire credibilità al Piemonte, di fronte alle cancellerie europee; fu in grado di «accreditare agli occhi delle maggiori potenze europee il governo di Torino come il solo portavoce della questione italiana, sottraendo contemporaneamente […] l’iniziativa all’ala democratica e mazziniana […] che spaventava i governi europei[179]». L’obiettivo raggiunto era quella che Levra definisce internazionalizzazione della questione italiana. Quest’ultima, si tenga presente, in quegli anni si esprimeva ancora in termini di indipendenza dell’Italia centro – settentrionale dall’Austria e non di unificazione nazionale; a questo si arriverà più tardi. Aver reso quella che viene anche detta “causa italiana” un problema europeo si configurò come un sottile filo rosso che teneva unite una serie di eventi che si verificarono negli anni successivi: il viaggio di visita agli alleati della guerra di Crimea alla fine del 1855, il Congresso di Parigi, l’incontro di Plombiéres, l’unione dinastica tra i Savoia e i Bonaparte ed infine l’alleanza tra Francia e Regno di Sardegna e la guerra. Di tutte queste vicende, Nigra fu partecipe, con un ruolo marginale e secondario nelle prime, ma che divenne primario allorché fu inviato, da solo, a Parigi per concludere un’alleanza tra Francia e Regno di durante il loro incontro segreto a Plombiéres.
La prima missione diplomatica, che si inserisce nel contesto d’internazionalizzazione di cui sopra, fu la visita da parte di Vittorio Emanuele agli alleati della guerra di Crimea, Francia e Inghilterra. Prima che si riunisse il Congresso di pace, previsto nella primavera del 1856, era infatti auspicabile che il Piemonte compiesse questo viaggio di cortesia autopromozionale con il fine di riscuotere un qualche appoggio da parte di quelle Potenze, di suscitare simpatia per il Piemonte e la sua politica, così da sperare di ottenere dei vantaggi concreti nelle future trattative. Cavour, pertanto, perorò questo viaggio; del resto voleva assicurarsi che, secondo quanto gli riferiva d’Azeglio, Napoleone III nutrisse effettivamente un interesse nei confronti della causa italiana e, di conseguenza, si potesse trovare in lui quell’alleato potente di cui il Regno di Sardegna necessitava per liberare la penisola dall’occupazione austriaca[180].
Il 20 novembre del 1855 il Re partì alla volta di Parigi con tutto il suo seguito, di cui faceva parte Cavour, Massimo d’Azeglio, funzionari regi, ufficiali di ordinanza. Nella compagnia era presente anche Nigra, il quale fu chiamato da Cavour in qualità di suo segretario, per la tenuta della corrispondenza e per il compimento di tutti gli affari generali di cui Cavour lo avrebbe incaricato. Certamente, in quest’occasione egli ebbe un ruolo e una posizione modesti, limitati ai suoi compiti: sebbene Cavour lo avesse voluto al sua fianco, perché lo riteneva un giovane capace e brillante, era ancora un semplice impiegato del Ministero. All’interno della missione piemontese ricopriva uno spazio ristretto, circoscritto ai momenti in cui erano richieste le sue funzioni di segretario, laddove soltanto qualche mese più tardi, alla conferenza di pace di Parigi, avrebbe partecipato più attivamente ai lavori. In questi termini si spiega il perché Nigra fece una parte del viaggio, fino a Lione, in carrozza, mentre il Re e la sua compagnia raggiunsero quella meta città passando per Genova e Marsiglia, percorrendo un tragitto più lungo ma più confortevole, in treno prima e in nave dopo. Da Lione proseguirono tutti insieme alla volta di Parigi in treno. Similmente, il giovane segretario non soggiorno, come i vertici della missione piemontese, alla Corte delle Tuileries, ma gli fu prenotata una camera d’albergo. Fu lo stesso Cavour ad incaricare il capo della Legazione sarda[181] a Parigi, Salvatore Pes di Villamarina, di trovare una sistemazione per il suo segretario personale[182]. Si trattò, dall’altra parte, della sua prima missione all’estero, molto importante e istruttiva in quanto ebbe occasione di maturare esperienza e di acquisire conoscenze e informazioni che avrebbero costituito un bagaglio culturale indispensabile per la sua carriera di agente diplomatico.
Il soggiorno parigino rappresentò l’inizio di un rapporto, quello tra Francia e Piemonte, che si sarebbe concluso con l’alleanza militare dei due qualche anno più tardi. Durante una riunione, l’Imperatore rivolse a Cavour la celebre domanda: «Cosa possiamo fare per l’Italia?[183]». La risposta del Ministro fu pronta e discreta: «la domanda è troppo seria e arriva da troppo in alto perché si possa dare una risposta immediata. Tale risposta mi farò premura di sottoporre a Vostra Maestà non appena sarò di ritorno a Torino[184]». Finalmente, la coraggiosa ed intraprendente politica cavouriana, che aveva richiesto un conflitto armato e tutta l’impopolarità del suo promotore, iniziava a dare i suoi frutti. Per Cavour questa era un’occasione che non andava sprecata e che, rispetto al passato, rappresentava un principio di impegno ben più sostanzioso dei generici interessamenti verso la causa italiana.
Il Re si trattenne a Parigi per quattro giorni, dopodiché si diresse a Londra, il cui soggiorno fu molto positivo. Vittorio Emanuele, infatti, riscosse la una simpatia e un’approvazione generali presso le istituzioni inglesi. La corte reale trascorse quattro giorni in Inghilterra, tra ricevimenti e banchetti, poi iniziò il viaggio di ritorno a Torino. Con Cavour rientrava anche Costantino Nigra, che aveva svolto efficacemente la sua funzione di addetto alla corrispondenza e al disbrigo degli affari generali. Con questa missione, possiamo dire che il giovane segretario iniziava effettivamente l’attività diplomatica; qui ebbe, nuovamente, l’opportunità di dimostrare di possedere tutte le qualità e attitudini per quel tipo di carriera e la seppe cogliere. Al rientro, anche lui, come tutta la delegazione piemontese, ottenne una decorazione: la croce di cavaliere della Legion d’onore[185].
La prima preoccupazione di Cavour, una volta rientrato nella capitale sabauda, fu quello di predisporre una risposta efficace da inviare a Napoleone III, così da indurlo a confermare la sua disponibilità alla causa italiana. A tal fine affidò a Massimo d’Azeglio l’incarico di redigere una memoria, mettendogli a disposizione Nigra, affinché questi ricopiasse il documento in bella copia nel più breve tempo possibile e la consegnasse a Cavour, il quale l’avrebbe sottoscritta e inviata al Marchese Villamarina a Parigi. Tuttavia, il testo elaborato da d’Azeglio risultò, agli occhi dello statista, inadatto per due motivi: innanzitutto, era troppo lungo e c’era un alto rischio che l’Imperatore non si curasse di leggerlo integralmente; in secondo luogo, non piaceva il taglio dato alla memoria, in quanto non teneva conto della personalità di Napoleone, sicché difficilmente avrebbe suscitato nell’animo di questo una più o meno ferma volontà di contribuire a risolvere la questione italiana. Si badi bene che ciò non significa che l’Imperatore volle aiutare l’Italia soltanto per il suo buon cuore; come vedremo, l’alleanza in favore del Piemonte richiese delle contropartite. Pur tuttavia, resta il fatto che l’impegno di offrire un aiuto militare al Regno di Sardegna derivò anche da fattori non prettamente politici che sostanzialmente possiamo riassumere nella capacità rivelata da Cavour di sapersi accattivare la simpatia e la stima di Napoleone, per averlo amico e alleato. Lo statista aveva penetrato l’animo dell’Imperatore ed era riuscito a conoscerne pensieri e modi di agire, sicché decise di scrivere egli stesso un’altra memoria. Di nuovo Nigra ebbe il compito di ricopiarla per inviarla a Parigi. È significativo quello che lui dirà, tempo dopo, con riguardo a quella lettera: «Nel copiarla io vedevo disegnarsi fra le righe la grande figura dell’Unita d’Italia e mi sentivo partecipe anch’io di quella grande missione[186]». In questa memoria, Cavour fece esplicita richiesta a Napoleone III, affinché inducesse il governo austriaco ad abolire il regime militare, che da otto anni vigeva nel Lombardo – Veneto, e a ritirare le milizie dalle Romagne. Veniva, altresì, chiesto che agisse presso la Corte borbonica a Napoli, perché fossero mitigate le severe misure poliziesche che erano cause di migrazioni di massa verso Stati più liberali, primo fra tutto proprio il Regno di Sardegna.
2.4 Il Congresso di Parigi
Le trattative di pace successive alla guerra di Crimea si svolsero a Parigi da febbraio ad aprile 1856. Il Piemonte era rappresentato da Cavour, Presidente del Consiglio e, per l’occasione, primo plenipotenziario; il Marchese di Villamarina (secondo plenipotenziario) ricoprì un ruolo di secondo piano. Al Congresso partecipò anche Nigra (sempre applicato di quarta classe) nuovamente investito della funzione di segretario del Conte, il quale era ancora l’unico protagonista delle vicende politiche e diplomatiche di quegli anni. Il giovane impiegato, però, veniva sempre di più coinvolto in tali questioni da Cavour, il quale aveva già più volte saggiato le sue potenzialità e intendeva metterle alla prova al fine trovare in lui quel valido e capace collaboratore di cui aveva bisogno per “fare” l’Italia.
Questa nuova (e più prolungata) permanenza a Parigi permise a Nigra di crescere in esperienza e competenze. I suoi incarichi principali furono quelli di tenere la corrispondenza del Presidente e di predisporre le note di preparazione al Congresso, ma non mancarono le occasioni per frequentare i salotti mondani e per partecipare alle manifestazioni che intervallavano i lavori del Congresso. Conobbe, inoltre, numerosi nuovi personaggi che, nel corso della sua attività diplomatica successiva, sarebbero stati suoi frequenti interlocutori e validissimi collaboratori: tra questi, bisogna ricordare il banchiere Alessandro Bixio, che avrebbe ricoperto un ruolo importante nelle trattative finanziarie tra Francia e Regno di Sardegna, e il dottor Conneau. Quest’ultimo era il medico personale dell’Imperatore e suo uomo di fiducia, un prezioso collaboratore nelle questioni di Stato e diplomatiche. Conneau sarebbe stato un tramite fondamentale tra Cavour, Napoleone e Nigra, in quanto la sua professione gli permetteva di agire con discrezione e senza destare sospetti. In definitiva, quei mesi costituirono un’ importante esperienza per il giovane diplomatico che arricchì il suo bagaglio di informazioni e conoscenze e, contestualmente, iniziò ad acquisire dimestichezza e familiarità con gli ambienti politici e aristocratici di Parigi[187].
Questa missione fu per Nigra un’opportunità per approfondire le sue conoscenze sulla persona di Napoleone e sulla sua corte, in quanto Cavour gli aveva ventilato un possibile incarico diplomatico, segreto, presso quella sede. Cavour stava infatti rendendosi conto che l’unica Potenza da cui poteva sperare di ottenere un aiuto militare per cacciare l’Austria dall’Italia, e conquistare così l’indipendenza, era la Francia, la quale, da parte sua, dimostrava ancora tentennamenti circa il proposito di offrire un sostegno materiale al Piemonte, sicché, per convincerla a prestare il suo aiuto, era fondamentale instaurare con lei una relazione sempre più solida che li portasse alla stipulazione di un trattato di alleanza.
Il Congresso di Parigi un il punto di partenza importante. Cavour vi giunse piuttosto preoccupato, in quanto tre erano le problematiche cui doveva far fronte, una di carattere procedurale e due sostanziali riguardanti proprio i negoziati. La prima consisteva nel tentativo di ottenere una modifica della condizione di ammissione al Congresso del Regno di Sardegna: era stato previsto che questo godesse del diritto di intervento solo quando si trattassero questioni che lo riguardavano direttamente, mentre non poteva pronunciarsi nel momento in cui venivano discussi gli interessi delle grandi Potenze. Con riferimento alle problematiche di carattere sostanziali vi erano due obiettivi: da un lato era necessario sfruttare la partecipazione al Congresso per portare all’attenzione di tutta l’Europa la questione italiana che, di fatto, stava assumendo delle connotazioni transfrontaliere, sicché Cavour voleva indurre le Potenze a prendere posizione al riguardo; dall’altro, ambiva ad ottenere, dai negoziati, delle estensioni territoriali per il Piemonte. In questo modo riteneva, infatti, di offrire un valido giustificativo per la scelta di essere entrato in guerra l’anno prima, decisione che era costata numerose risorse materiali e finanziarie. Peraltro, l’annessione di nuovi Stati avrebbe comportato un mutamento dell’opinione pubblica (piemontese e italiana) ancora contraria alla politica estera promossa dal Conte[188].
I lavori del Congresso si rivelarono molto complicati per il primo Ministro piemontese. È vero che il Regno di Sardegna era stato ammesso a pieno titolo al consesso delle grandi Potenze, ma queste guardavano al piccolo Stato con preoccupazione, dal momento che dietro di lui si nascondeva il pericolo dei focolai rivoluzionari che minacciavano quell’equilibrio e quell’ordine che l’Europa era riuscita a stabilire quarant’anni prima e che, a fatica, cercava di salvaguardare. Inoltre, come sostiene una buona parte della storiografia, erano indispettite dal doversi porre sul medesimo piano del Piemonte e scendere a patti con questo. Di conseguenza, gli atteggiamenti che i rappresentanti delle altre Nazioni riservarono a Cavour tradivano diffidenza e scarsa cordialità. Il conte Buol, Ministro degli Esteri austriaco, lo definì in questi termini: «il piccolo cane astioso che guaisce tra la gambe[189]». Erano proprio i delegati austriaci, Buol e Hübner (il secondo plenipotenziario), che dimostravano maggiore insofferenza per la sua presenza, cosa che faticavano a dissimulare. Cavour era consapevole della delicatezza della sua posizione, ma seppe ugualmente gestire la situazione grazie all’intuito, alla versatilità e alle capacità relazionali che caratterizzavano il suo genio politico. Vediamo, a questo punto, quali furono i risultati delle sedute, in particolare con riferimento alle problematiche succitate.
Riguardo alla cosiddetta questione procedurale, la delegazione piemontese era stata ammessa alla conferenza senza importanti restrizioni; Cavour era libero di scegliere, piuttosto discrezionalmente, se intervenire anche quando venivano trattate tematiche di carattere più generale. L’Austria tentò, in qualche modo, di impedire al Piemonte di pronunciarsi nei dibattiti che non lo interessavano direttamente. In questo contesto, il Ministro degli Esteri inglese, Lord Clarendon, prese le difese dello Stato sabaudo ricordando: «spetta al Conte di Cavour giudicare, se una questione riguarda o no gli interessi del Piemonte[190]». Il rappresentante sardo apprezzò questo riconoscimento e lo sfruttò, pur senza abusarne; voleva infatti dimostrare moderazione agli occhi degli altri Stati, ma allo stesso tempo desiderava che la sua presenza non fosse trascurata: l’obiettivo era quello di ottenere quanti più vantaggi possibili per l’Italia[191].
Purtroppo, nessuna estensione territoriale fu concessa al Regno di Sardegna; l’Austria si oppose fermamente, dal momento che anche la più piccola annessione avrebbe influito positivamente sull’opinione pubblica italiana a favore del Piemonte, oltre al fatto che questo avrebbe accresciuto la sua potenza militare, rendendolo più minaccioso. Posta in questi termini la questione, nessuna Potenza volle insistere sull’argomento, temendo che potesse rivelarsi pericoloso per la pace europea. Dunque, era sempre più chiaro non c’erano possibilità di cambiamento senza entrare apertamente in conflitto con l’Austria. Anche Napoleone III si era arreso a questa evidenza, ma non ritenne ancora maturi i tempo per optare per quella soluzione: voleva dare un aiuto all’Italia, ma spesso il suo atteggiamento tradiva dubbio ed indecisione. Fu così che Cavour intuì la necessità di instaurare con l’Imperatore un rapporto più personale, al di fuori del tradizionale contesto diplomatico. Per questa ragione, durante la permanenza parigina, non trascurò di frequentare i salotti delle Tuileries[192], con l’intento di intessere quei legami che avrebbero costituito un presupposto fondamentale nella ricerca di quell’alleanza che serviva al Regno di Sardegna per liberare la penisola dall’occupazione austriaca[193].
Infine, con riferimento all’ultima problematica sostanziale, quella di indurre l’Europa a prendere una posizione sulla questione italiana, Cavour ottenne dei risultati per lui non molto soddisfacenti, minori di quelli che avrebbe voluto conseguire. In questa fase ebbe un peso rilevante Lord Clarendon, il quale propose al rappresentante sardo di denunciare al Congresso il malgoverno che si protraeva da tempo nello Stato della Chiesa e nel Regno delle Due Sicilie. Spettò al conte Walewski, Ministro degli Esteri francese, nonché presidente del Congresso, il compito di presentare pubblicamente il problema, durante la seduta dell’8 aprile. Il trattato di pace era già stato firmato il 30 marzo, ma gli Stati si riunivano ancora, per le ultime volte, al fine di individuare ed eliminare i mali residui che minacciavano l’Europa. Riportiamo una parte del resoconto che offre Valsecchi, relativamente al discorso (poco incisivo) tenuto da Walewski in quell’occasione:
Walewski aprì la seduta con un discorso nel quale, dopo aver detto che le conferenze toccavano al loro termine, proclamò che la pace, l’ulivo, la magnanimità, l’ordine, la demagogia, la giustizia, il progresso, la rivoluzione, la civiltà, e la Frrrrancia – quattro erre nel testo – erano cose sulle quali tutta l’Europa teneva fissi gli sguardi. E, come codicillo, butta avanti, insieme alla Grecia, l’Italia: gli inconvenienti della presenza delle truppe straniere negli Stati pontifici […]. Si spinge, con le sue allusioni, a Napoli; ma vira presto di bordo […].sfiorato, più che esaurito, l’argomento italiano […][194].
Non fu un discorso efficace, principalmente perché, in fondo, non credeva in quello che stava dicendo. Si limitò ad eseguire degli ordini e a ricoprire quel ruolo che gli era stato assegnato, perché questa era la volontà dell’Imperatore, il quale «si era piegato con un sospiro ad obbedire a quello che giudica un capriccio, uno dei tanti enigmatici capricci che vengono dalle Tuileries[195]». Diversamente da Napoleone non nutriva simpatia per il Regno di Sardegna, né pertanto si sarebbe mai prodigato nell’offrire sostegno alla causa italiana.
Toccò a Lord Clarendon prendere la parole in difesa del Regno di Sardegna. Sostenne duramente la necessità di promuovere delle riforme all’interno dello Stato della Chiesa
che tollerava un’occupazione militare incompatibile con l’ordine europeo. Parimenti, fu molto aspro contro il regime di governo del Regno delle Due Sicilie che definì un sistema rivoluzionario, al quale le Potenze dovevano imporre un adeguamento al passo con i tempi. Con la stessa durezza replicò Buol, affermando che, prerogativa del Congresso, era la questione d’Oriente, non l’intervento negli affari interni dello Stato pontificio e del Re di Napoli, i quali peraltro non erano presenti. Per evitare che le tensioni crescessero eccessivamente, Walewski intervenne con tatto diplomatico, sostenendo che il fine di quella discussione non era quella di adottare decisioni definitive, o di ingerirsi in questioni che non le competevano. Piuttosto, si trattava di portare a compimento l’obiettivo di pace, per cui le Potenze si erano riunite, anticipando i tempi rispetto a complicazioni che, da quei regimi di governo, potessero nascere.
A questo punto fu Cavour a pronunciarsi, mantenendo sempre un tono moderato, ma deciso nella sostanza. Denunciò l’occupazione del Lombardo – Veneto da parte dell’Austria, le cui armate si spingevano fino alle Legazioni pontificie; si associò poi a Clarendon con riferimento alle critiche mosse al Re di Napoli. In tutta risposta, la rappresentanza austriaca osservò che, nella penisola, l’Austria non era l’unica ad aver stanziato delle milizie. Anche la Francia aveva delle truppe all’interno dello Stato della Chiesa e lo stesso Regno di Sardegna occupava, da otto anni, i comuni di Mentone e Roccabruna che appartenevano al Principato di Monaco. C’era, però, una differenza: l’occupazione austriaca del Lombardo – Veneto era stata sanzionata da un trattato internazionale e le truppe stanziate nello Stato pontificio erano state richieste dal Papa stesso; il Piemonte, invece, si era insediato nel territorio del Principe di Monaco contro la sua stessa volontà. Di fronte a queste accuse, Cavour non si scompose e seppe formulare una pronta risposta. Disse che il suo desiderio principale era di vedere l’Italia libera da qualsiasi occupazione straniera, tanto quella francese, quanto quella austriaca. Tuttavia, osservò che mentre la prima non poteva essere una fonte di grandi preoccupazioni, trovandosi molto distante dalla Francia, l’altra appariva ben più minacciosa, dal momento che possedeva delle roccaforti a Ferrara e Piacenza e si estendeva lungo una buona parte della costa Adriatica fino ad Ancona. Infine, Cavour ammise che, se il principe fosse stato in grado di rientrare nel Paese senza correre gravi pericoli, il Piemonte sarebbe stato disponibile a ritirare, da Mentone e Roccabruna, i suoi cinquanta uomini. Tutte queste discussioni durarono circa una settimana e il 14 aprile venne approvato il testo definitivo del protocollo all’interno del quale era stato inserito un modesto (ma importante) memorandum che riassumeva le posizioni inglese e francese riguardo ai due Stati italiani di cui si censuravano i governi[196].
Il Congresso terminò il giorno dopo e il 29 di quel mese Cavour rientrò a Torino alquanto deluso, in quanto i risultati ottenuti non soddisfacevano le sue aspettative. In realtà, la sua azione fu considerata un successo da buona parte dell’opinione pubblica e, a ben vedere, il bilancio della partecipazione del Regno di Sardegna non fu così avaro; è vero che nessuna concessione materiale venne fatta, ma due obiettivi erano comunque stati raggiunti: innanzitutto fu riconosciuto che esisteva effettivamente una questione politica italiana, che l’Europa non poteva più trascurare, e che necessitava di essere affrontato con degli interventi concreti, essendo ormai ritenute legittime le continue proteste, il che era un risultato notevole, tenuto conto del fatto che il problema non era stato indicato all’ordine del giorno, nonché dell’opposizione sostenuta da una grande Potenza qual era l’Austria. In secondo luogo, Cavour dimostrò all’Europa che il Piemonte era l’unico in grado di ricostruire il tessuto nazionale e che nessun’altro governo interno avrebbe saputo gestire e dominare le forze rivoluzionarie presenti sulla penisola: «Cavour per un verso diplomatizzava la questione italiana e per un altro verso chiedeva alle grandi Potenze il riconoscimento del Regno di Sardegna come il portatore delle aspettative di libertà e indipendenza dell’intera penisola[197]».
Questi, dunque, furono i reali risultati del Congresso di Parigi, tutt’altro che insignificanti e che ebbero un impatto notevole sull’opinione pubblica e sulla stampa dell’epoca. Il “Times”, ad esempio, scrisse a proposito di questi fatti, evidenziando tre punti fondamentali: che per la prima volta uno Stato italiano parlava a nome dell’Italia; che non fosse possibile modificare la condizione generale della penisola, senza intervenire direttamente sull’ordine costituito a Vienna quarant’anni prima; che, infine, le uniche due potenze in Italia erano il Regno di Sardegna e l’Austria: il primo piccolo ma aveva saputo, negli ultimi anni, conquistare buona fama e amicizia in Europa; la seconda forte ma sempre più isolata sul versante diplomatico. In questo contesto, significativo fu il discorso che il primo Ministro Cavour tenne alle camere nella seduta del 6 maggio. In questa sede volle ribadire quanto aveva sostenuto, in favore dell’Italia, in occasione del Congresso: «celebrò il valore piemontese nella guerra, insistette sulla denuncia dei mali dell’Italia per la prima volta in un consesso internazionale, sottolineò l’ulteriore peggioramento delle relazioni con l’Austria[198]». Sotto l’aspetto dei contenuti, il discorso era veritiero, ma il taglio che vi diede era stato pensato per provocare nell’uditorio un’opinione che non si avvicinava alla realtà, cioè l’idea che il Regno di Sardegna avesse già segretamente stipulato degli accordi in ottica antiaustriaca e che, a livello europeo, era già riconosciuto come la guida del movimento italiano.
Insieme con la guerra di Crimea, questo fu l’altro grande azzardo politico di Cavour, quello di presentarsi «alla diplomazia europea come rappresentante della volontà d’indipendenza degli italiani» e «ai moderati ed ex mazziniani della penisola come l’unico interlocutore riconosciuto nel mondo internazionale[199]». Fu certamente un rischio perché nessun appoggio effettivo era stato ancora ottenuto ed era dunque tempo di adoperarsi in questa direzione: individuare un alleato potente che aiutasse il piccolo Piemonte a liberarsi del giogo austriaco. Esclusa l’Inghilterra, che non voleva entrare in guerra, restava la Francia che, nella persona di Napoleone, aveva più volte manifestata la volontà di contribuire alla causa italiana. Si trattava, pertanto, di creare quello stretto legame che si risolvesse in un’alleanza con questo Paese.
Nel prosieguo della trattazione, esamineremo come Cavour intraprese questo obiettivo e come sarà portato a compimento dal suo allievo, e ormai sempre più fidato collaboratore, Costantino Nigra.
CAPITOLO TERZO
LA MISSIONE DI NIGRA A PARIGI E L’ALLEANZA CON LA FRANCIA
Sommario: 3.1 Gli sviluppi diplomatici successivi al Congresso di Parigi – 3.2 Gli accordi segreti di Plombières – 3.3 Le trattative con Napoleone III – 3.4 Una questione delicata: il matrimonio di Maria Clotilde e Gerolamo Napoleone – 3.5 La firma del trattato di alleanza e l’inizio della guerra.
3.1 Gli sviluppi diplomatici successivi al Congresso di Parigi
Cavour rientrò a Parigi il 29 aprile del 1856 e fu decorato del collare dell’Annunziata per l’opera svolta al Congresso europeo da poco terminato. Anche Nigra ricevette una decorazione, ma sopratutto ebbe un avanzamento di carriera: fu promosso viceconsole di prima classe e venne messo a disposizione del Ministro degli Esteri, in qualità di capo del suo gabinetto particolare. Così, maestro e discepolo istituzionalizzarono un rapporto di collaborazione diretto e costante fondamentale per gli eventi che sarebbero occorsi negli anni successivi. In realtà, Cavour aveva già iniziato ad affidare al suo giovane segretario incarichi delicati e complessi, dal momento che lo riteneva in grado di svolgerli. L’epistolario cavouriano contiene molte lettere, anche di rilievo, che conoscono di ritocchi effettuati da Nigra: alcune le integrava o completava soltanto; di altre ne preparava una bozza da sottoporre successivamente al suo capo; altre ancora, infine, erano redatte esclusivamente da lui. Per citarne una, possiamo ricordare una lettera datata 21 gennaio 1856, a un mese dall’inizio dei lavori del Congresso, indirizzata al Ministro Walewski[200].
A Parigi, Cavour raggiunse l’obiettivo di sensibilizzare l’attenzione delle Potenze riguardo alla questione italiana che veniva, per così dire, internazionalizzata. Fu proprio in questa sede che il primo Ministro sardo iniziò un intenso lavorio diplomatico che aveva come scopo quello di individuare una comunanza di interessi con la Francia, l’unica con cui il Piemonte potesse allearsi, per liberare l’Italia dalla presenza austriaca. Già in seguito alla guerra di Crimea, l’ordine internazionale, stabilito a Vienna quarant’anni prima, era venuto meno determinando un cambiamento del quadro europeo delle alleanze e dell’influenza esercitato dalle Potenze. La sconfitta Russia dovette così abbandonare i suoi progetti espansionistici lungo i Balcani, non potendo contare più sull’appoggio dell’Austria che, anzi, premeva per firmare la pace. Per contro, si rafforzarono le posizioni dell’Inghilterra e della Francia e la figura di Napoleone accrebbe il suo prestigio, il che rappresentava un buon punto di partenza per il fine che egli voleva raggiungere: ripristinare, in Europa, l’egemonia francese che era stata abbattuta dai trattati di Vienna, restituendo all’Impero la gloria e la potenza di cui aveva goduto sotto la guida dello zio[201]. Fu del resto in quest’ottica che accettò di allearsi militarmente con il Regno di Sardegna.
Cavour si accorse del nuovo ordine internazionale che si era generato con il trattato di Parigi del 1856 e si premurò di sfruttarlo per intessere relazioni diplomatiche particolari con Francia e Inghilterra al fine di neutralizzare l’Impero asburgico. Quasi subito, però, si avvide che la sua azione dovesse essere orientato esclusivamente verso Napoleone, dal momento che la Gran Bretagna voleva evitare qualunque scontro aperto per non incrinare ulteriormente i, già precari, equilibri europei. Perciò, la politica estera ideata da Cavour pose alla sua base quattro obiettivi: 1) creare un rapporto di fiducia e amicizia con la vicina Francia, l’unica in grado di garantire un aiuto concreto contro la potente Austria; 2) alimentare il malcontento di tutti gli Stati dell’Italia per l’influenza, più o meno diretta, dell’Impero asburgico sul territorio nazionale; 3) avvicinarsi diplomaticamente alle due Potenze orientali, Russia e Prussia, dal momento che l’Inghilterra stava coltivando buoni rapporti con l’Austria; 4) mantenere distacco e continuare a censurare i due governi più sovversivi della penisola, quello pontificio e quello napoletano, considerando che si trattava di una questione che era stata affrontata anche al Congresso. Tale era il tenore di questa politica, che potrebbe definirsi nazionale, in quanto era chiaro che la causa italiana non avrebbe mai trionfato se non si fossero realizzate due condizioni: innanzitutto, essere pronti ad affrontare una guerra contro l’Austria, il che richiedeva un’alleanza militare con la Francia, visto che la mera azione diplomatica non era dimostrata sufficiente; in secondo luogo bisognava sfruttare a proprio favore i numerosi movimenti nazionali in chiave antiaustriaca, riunendoli sotto il controllo e la guida del Piemonte sabaudo[202].
Napoleone III, da parte sua, nutriva anch’egli un’ambizione: ripristinare quella posizione di egemonia della Francia che i trattati del 1815 avevano aveva cancellato. Appoggiando il progetto indipendentista italiano, ciò diventava possibile, in quanto la cacciata degli austriaci dall’Italia avrebbe comportato una diminuzione della potenza e del prestigio dell’Impero asburgico. Inoltre, favorire l’indipendenza italiana significava rendere la penisola italiana uno Stato satellite della Francia, il che avrebbe accresciuto il potere di questa, tutto a svantaggio dell’Austria. Questa è la ragione per cui nel disegno di Napoleone per l’Italia c’era l’indipendenza, non già l’unificazione; bisognava infatti mantenere intatti i poteri del Papa, che governava gli Stati centrali, per non urtare la sensibilità della gran parte dei conservatori francese. Al Sud, poi, si sarebbe potuto ipotizzare una soluzione che avrebbe nuovamente favorito la Francia: durante l’incontro segreto di Plombières, Napoleone pensò ad un’eventuale restaurazione di Murat[203], appartenente anch’egli alla famiglia dei Bonaparte. Con una configurazione siffatta, il quadro italiana non sarebbe stato, nella sostanza, tanto dissimile da quello dei tempi del primo Impero e l’Austria avrebbe subìto un forte ridimensionamento dei suoi territori e del potere. Com’è noto, l’unità italiana si verificherà, costringendo Napoleone a prenderne atto. Di conseguenza, per non allarmare le cancellerie europee, avrebbe richiesto solo Nizza e la Savoia, quali ingrandimenti territoriali. La Potenza asburgica sarebbe in ogni caso, diminuita e, contando di riuscire a far entrare nell’orbita francese tutti gli Stati che si affacciavano sul Reno, dal Belgio alla Svizzera, avrebbe raggiunto ugualmente l’obiettivo di modificare i trattati del 1815 senza ulteriori guerre[204].
In tutte queste dinamiche politico – diplomatiche, ebbe un ruolo fondamentale Costantino Nigra. Costui, infatti, era diventato il canale privilegiato di Cavour il quale ormai si serviva di lui per incarichi vieppiù delicati: doveva tenere i contatti con la stampa, decodificare i messaggi cifrati fra il Re e il Conte, predisporre relazioni consolari e diplomatiche, ancora sotto forma di bozza da presentare poi al suo capo per un vaglio di conformità sostanziale e formale. La sua attività si esplicava tanto nei rapporti di governo interni, quanto in quelli esterni, sopratutto con la Francia. Del resto, i suoi precedenti soggiorni parigini gli avevano permesso di conoscere bene l’ambiente e di intessere una fitta rete di relazioni, funzionali alle sue missioni future. Tra la fine del 1856 e l’inizio del 1857 fu inviato a Parigi per consegnare alla Legazione sarda le istruzioni relative alla conferenza internazionale indetta per la fissazione dei confini della Bessarabia. Con questa comunicazione, Cavour inviò a Villamarina una lettera con cui lo rassicurava circa il giovane inviato: «Voi potete servirvi di Nigra senza riserve; egli è al corrente di tutto quanto è accaduto e d’altronde voi sapete ch’egli merita tutta la nostra fiducia[205]». In quest’occasione, Nigra poté sviluppare ulteriormente le sue conoscenze della capitale francese e svolgere numerose ed utili attività. Ebbe svariati incontri con la stampa locale ed estera, discusse con uomini politici riguardo ai principali problemi europei, ebbe la possibilità di accedere alla Corte imperiale, al seguito rappresentante sardo in qualità di funzionario semplice di Legazione, per partecipare ai cerimoniali di presentazione dei corpi diplomatici. Infine, ebbe anche un incontro con Daniele Manin[206], secondo il quale la causa italiana era una questione di nazionalità, non di cattiva amministrazione che si era perpetrata nel corso dei precedenti governi, come voleva far credere la diplomazia dell’epoca e gli stessi esuli italiani. Nigra si incontrò con lui in più occasioni per discutere sull’avvio del processo di unificazione e i due strinsero una cordiale amicizia, al punto che, toccò al giovane diplomatico, trasmettere a Cavour il “testamento politico” di Manin[207].
In complesso, si trattò di una missione parzialmente autonoma, in cui Nigra dovette seguire puntualmente le istruzioni di Cavour e fungere da tramite sicuro e discreto con lui, ragguagliandolo costantemente su tutte le novità che si verificavano sul suolo francese. Terminata la sua azione, fece ritorno a Torino, dove continuò a lavorare al fianco di Cavour nel perseguimento del grande obiettivo: l’alleanza con la Francia per un Italia libera e indipendente.
Il 1858 fu decisivo per l’ascesa diplomatica di Nigra, perché fu l’anno in cui si svolse la sua attività presso la Corte imperiale francese, quale “agente segreto” del Re e intermediario di Cavour, con il compito di negoziare termini di alleanza con la Francia. In proposito, riportiamo un passo di Pischedda, dove viene ricordato in questi termini:
Né possiamo dimenticare – egli scriveva – la comparsa di Costantino Nigra, l’agente segreto incaricato di tenere i contatti con Napoleone III; le sue relazioni da Parigi, note da tempo […] danno poi giustificazione della nascita di un rapporto umano con Cavour, di tanta intensità da indurre questi a inattese confidenza intime nel novembre: «quand’ella lontano da me mi sento mancare il più valido del mio appoggio»[208].
I progetti politici per l’Italia rischiarono di naufragare il 14 gennaio 1858, a causa di un attentato ai danni di Napoleone e dell’Imperatrice Eugenia, i quali si stavano recando del teatro Opera. I sovrani rimassero fortunatamente illesi, ma ci furono alcuni morti e molti feriti. L’organizzatore della strage si chiamava Felice Orsini, un ex mazziniano, il quale fu tempestivamente intercettato e incarcerato[209].
Il fatto destò molta preoccupazione in Cavour, perché si rivelava un ottimo pretesto di censura da parte di tutti coloro che si erano sempre dimostrati ostili alla causa italiana: il Ministro degli Esteri Walewski, che inviò molteplici note di ammonimento al Regno di Sardegna, come se questo fosse responsabile dell’accaduto, ma colpevole (secondo l’opinione francese) di avere un atteggiamento troppo liberale nei confronti degli esuli politici; l’Imperatrice; il clero e gli ambienti conservatori della finanza e della diplomazia. Sembrò che i buoni rapporti con la Francia dovessero interrompersi, sopratutto dopo che l’inviato straordinario del Piemonte, il Generale della Rocca, incaricato di felicitarsi con Napoleone per lo scampato pericolo, ricevette la brusca risposta dell’Imperatore di non poter considerare amico un Paese che dà asilo a rivoluzionari e assassini. Questa affermazione, unitamente all’atteggiamento accusatorio della Francia, infastidirono il Re, il quale replicò tempestivamente e con decisione mediante una lettera in risposta al rapporto dell’ufficiale:
Non fate l’imbecille, caro generale. Dite all’Imperatore, da parte mia, che non si tratta così un fedele alleato; che io non ho mai sopportato violenza da nessuno; che seguo la via dell’onore, sempre senza macchia; che di questo onore rispondo solo a Dio e al mio popolo; che da ottocentocinquant’anni noi portiamo la testa alta, e nessuno ce la farà abbassare. E che, con tutto questo, non desidero di meglio che essere suo amico[210]
Fu una mossa intelligente, da parte di Vittorio Emanuele, rispondere con tanta energia e decisione, poiché Napoleone ne rimase positivamente colpito, al punto che le trattative fra i due Stati non tardarono a ripartire. Del resto, lo stesso Cavour, il quale preferiva usare metodi più diplomatici per affrontare le questioni di Stato ed evitare pericolose rotture, lasciò che il Re recitasse questa parte, in quanto ne aveva intuita l’utilità; l’Imperatore, era ormai scontato, necessitava dell’aiuto e dell’appoggio del Regno di Sardegna per la realizzazione del suo progetto espansionistico. Così, l’iniziale fraintendimento fra Torino e Parigi venne dissipato senza grandi difficoltà. Ciò che, peraltro, contribuì ad evitare ulteriori screzi fra le due Corti, fu un evento del tutto inatteso. L’11 febbraio, Orsini indirizzò a Napoleone una lettera, che questi volle altresì fosse letta pubblicamente durante il processo. L’attentatore non invocava la grazia, ma faceva esplicitamente richiesta all’Imperatore di farsi carico della causa italiana e di portarla a compimento:
Dalla vostra volontà dipendono l’infelicità o il benessere della mia patria, e la vita e la morte di una Nazione cui l’Europa va debitrice in gran parte della sua civiltà… Non disprezzi la Maestà Vostra le parole di un patriota che sta sul limitare di un patibolo: renda l’indipendenza alla mia patria, e la benedizione di venticinque milioni di italiani la seguiranno ovunque e per sempre[211].
La lettera terminava con un forte ammonimento, che suonava quasi come una minaccia, al Bonaparte: «Rammenti la Maestà Vostra Imperiale che, sino a che l’Italia non sia fatta indipendente, la tranquillità Vostra e dell’Europa è un puro sogno[212].
Napoleone fece pervenire al suo attentatore una lettera di risposta, in cui lo condannava per il suo gesto, rimarcando il fatto che fosse, in Europa, l’unico alleato che l’Italia potesse trovare. A queste parole, Orsini replicò l’11 marzo con quello che viene ricordato come il suo testamento politico, nel quale dimostrava una disposizione d’animo diversa, in quanto ammetteva il suo errore e lo condannava. Contestualmente, faceva un ammonimento, non rivolto all’Imperatore che, anzi, ora esaltava in quanto lo riteneva davvero animato da un autentico spirito italiano, ma all’Italia e ai suoi giovani compatrioti, esortandoli ad abbandonare la via delle rivoluzioni sanguinarie.
Prima di dare l’ultimo respiro vitale, voglio che si sappia, e lo dichiaro con quella franchezza e coraggio che sino ad oggi non ebbi mai smentiti, che l’assassinio sotto qualunque veste ei s’ammanti non entra fra i miei prìncipi, ancorché per un fatale errore mentale io mi sia lasciato condurre ad organizzare l’attentato del 14 gennaio […]. La via da seguire per riacquistare il posto che le è dovuto [all’Italia] fra le nazioni civili non è il sistema dell’assassinio, ma la costante unità di sforzi e di sacrifici, dell’esercizio della virtù verace[213].
Il susseguirsi di tutti questi accadimenti, contrariamente a quanto potesse sembrare, finirono con il rendere più salda l’intesa tra Francia e Regno di Sardegna, i cui interessi, seppur diversi, venivano ad intersecarsi. A questo punto, però, era necessario addivenire a qualcosa di concreto. Fu lo stesso Napoleone, già sul finire di aprile, a far intendere che volesse intraprendere dei contatti segreti con Torino. Temeva infatti che l’ammonimento dell’Orsini[214] potesse divenire realtà e che, quindi, la minaccia rivoluzionaria italiana potesse minare il suo sogno di gloria per la Francia. Era pertanto necessario liberare l’Italia dell’invasione austriaca.
Cavour recepì subito i segnali dell’Imperatore e fu pronto ad inviare il suo fidato collaboratore Nigra a Parigi tra il 6 e il 14 di Maggio, in una missione che aveva come scopo quello di porre le premesse di quanto sarebbe stato pattuito in seguito a Plombières. Così avvenne l’esordio del giovane canavesano quale intermediario segreto tra Cavour, Napoleone e il di lui cugino, il principe Gerolamo Napoleone[215].
Giunto a Parigi, Nigra non fu ricevuto a Corte, ma si abboccò con il dottor Conneau, medico personale di Napoleone che questi spesso incaricava di svolgere compiti che voleva fossero coperti dal massimo segreto, dal momento che gli era congeniale condurre una politica personale, a latere di quella ufficiale e non sempre in accordo con essa. Fu per questo che Cavour, anche su consiglio del banchiere Bixio, scelse di inviare segretamente Nigra Parigi, per trattare, cioè, con Napoleone servendosi del suo stesso sistema[216].
Conneau ricevette una lettera di Cavour, con la quale si faceva pervenire all’Imperatore la richiesta di un incontro, cui questi diede una risposta positiva, enunciando i temi da trattare in quell’occasione. Nigra, a sua volta, ragguagliò celermente Cavour sulle posizioni di Napoleone che si potevano riassumere in tre punti che sarebbero stati discussi successivamente: 1) il matrimonio tra il principe Napoleone e la principessa Clotilde di Savoia; 2) i preparativi della guerra contro l’Austria; 3) la costituzione di un Regno dell’Alta Italia, cui dovevano aggiungersi altri due Stati, quello dell’Italia centrale e il Regno di Napoli che sarebbe dovuto restare inalterato. Inoltre, il requisito essenziale per ottenere l’alleanza della Francia era l’individuazione di un pretesto di guerra che fosse accettato dall’opinione pubblica europea: non era accettabile la questione degli emigrati suggerita da Cavour. Infine, veniva annunciata una visita del dottor Conneau a Torino alla fine di maggio. Tutti questi contatti avvennero al di fuori del contesto tradizionale, tramite dei canali segreti che scavalcavano la diplomazia ufficiale, giungendo direttamente agli attori principali: Cavour via Nigra; Napoleone via Conneau[217].
3.2 Gli accordi segreti di Plombières
Ripercorriamo lo storico incontro che si svolse a Plombières, tra il 20 e il 21 luglio del 1858, fra il Conte di Cavour e Napoleone III, su invito di quest’ultimo, pervenuto a mezzo del dottor Conneau (quindi al di fuori dei canali diplomatici ufficiali). Il colloquio sancì di fatto un’alleanza offensiva e difensiva fra il Regno di Sardegna e l’Impero francese in vista della guerra per l’indipendenza. È importante richiamarlo perché in questa sede vennero presi degli accordi che, successivamente, sarebbe stati tradotti in trattato di alleanza da Costantino Nigra, mediante un’attenta attività di negoziazione con Napoleone III, sotto la guida “epistolare” di Cavour; questi infatti, nei quattro mesi di permanenza di Nigra a Parigi[218], comunicò con lui esclusivamente tramite rapporto cartolare, talora fornendogli istruzioni precise, talaltre lasciandogli una discrezionalità d’azione più ampia. In ogni caso, il patto di Plombières doveva restare segreto, dal momento che si collocava al di fuori del contesto della diplomazia tradizionale; questa è la ragione per cui, oggi, non esiste alcun documento ufficiale che lo menzioni, tant’è che gli storici, per ricostruirlo, hanno dovuto ricorrere perlopiù ai carteggi privati del Conte[219].
Cavour partì l’11 luglio, ufficialmente per fare una breve vacanza e una visita ai parenti in Svizzera. Nessuno, al di fuori del Re, del generale La Marmora e di Nigra, era al corrente del motivo reale del suo viaggio in quanto era necessario mantenere il segreto perché la missione avesse successo; se si fosse venuto a sapere che l’Imperatore dei Francese e il Primo Ministro sardo si incontravano, l’intera Europa si sarebbe allertata.
Dopo alcune tappe in Savoia, Cavour arrivò a Ginevra il 14 luglio, dove trovò ospitalità dal cugino De la Rive. Qui, dopo poco tempo, ricevette la visita dell’aiutante di campo di Napoleone che gli comunicava che l’Imperatore attendeva di accoglierlo nella stazione termale di Plombières[220]. Il disegno di un’Italia libera e indipendente stava diventando sempre più visibile e Cavour era tesissimo, al punto che confidava a La Marmora: «Il dramma s’approssima alla soluzione. Prego il cielo d’ispirarmi onde non faccia minchionerie in questo supremo momento. Ad onta della mia petulanza e dell’ordinaria mia fiducia in me medesimo, non sono senza gravi inquietudini[221]». In effetti, i colloqui doveva essere il completamento di trattative informali, di cui detto più sopra, che, fin dal precedente maggio, si erano tenute fra l’Imperatore e il Conte per i tramiti di Nigra e Conneau.
Cavour giunse a Plombières la sera del 20 luglio e l’indomani venne ricevuto da Napoleone. I due ebbero un colloquio mattutino, dalle 11 alle 15, e uno pomeridiano dalle 16 alle 20. Fu in queste lunghe ore che furono puntualizzate le intese informali, raggiunte “cartolarmente”, e che, sostanzialmente, sarebbero state inserite nel trattato di alleanza.
La prima questione da trattare riguardava il pretesto che avrebbe generato il conflitto. Esso doveva apparire legittimo, per non destare “scandalo” agli occhi dell’Europa e della Francia stessa: «L’Imperatore […] era deciso ad aiutare la Sardegna […], purché la guerra fosse stata intrapresa per una causa non rivoluzionaria, tale da giustificarsi agli occhi della diplomazia, e più ancora dell’opinione pubblica in Francia[222]». Nella ricerca di questa causa di guerra, Cavour e Napoleone III si trovarono d’accordo sulla questione di Massa e Carrara, città represse dal giogo austriaco esercitato dal Ducato di Modena[223]. Essi stabilirono che sarebbe stato conveniente provocare, da parte di quelle popolazioni, un appello di protezione indirizzato al Re Vittorio Emanuele II e, conseguentemente, far chiedere loro l'aiuto del Piemonte. Il Re non avrebbe acconsentito all’annessione, ma avrebbe inviato una nota di monito al duca di Modena il quale avrebbe risposto in modo insolente, sapendo di poter contare sull’appoggio dell’Austria. A questo punto il conflitto si sarebbe scatenato, in quanto il Re avrebbe fatto occupare Massa, a seguito di una risposta impertinente di Modena. A queste condizioni, la Francia poteva intervenire legittimamente a fianco del Piemonte, senza correre il rischio di censure da parte della diplomazia e dell’opinione pubblica europea. Napoleone era convinto che la bontà del pretesto di guerra fosse un requisito fondamentale per la riuscita dell’impresa, perché non avrebbe spaventato le altre Potenze e, sopratutto, avrebbe avuto il pregio di risultare popolare in Inghilterra; riguardo a questo Paese, peraltro, l’Imperatore si raccomandò di esercitare la massima influenza possibile sull’opinione pubblica locale, affinché non intervenisse in favore dell’Austria. Contava, in ogni caso, che l’Inghilterra restasse neutrale, né che ci fosse un intervento da parte della Russia, dalla quale aveva ricevuto una formale rassicurazione che si sarebbe astenuta dal conflitto. Per quel che riguarda la Prussia, date l’ostilità che riservava all’Austria, dubitava fortemente che si sarebbe mai schierata dalla sua parte. In definitiva, Napoleone ritenne che il progetto di Massa e Carrara soddisfacesse le sue aspettative, benché non si dovesse dare nulla per scontato, considerata la portata dell’impresa che volevano realizzare[224].
Il problema del pretesto di guerra fu un assillo per Napoleone III fino alle ultime settimane precedenti il conflitto, tanto che si corse il rischio di rinviare le ostilità fino a data imprecisata. Così scriveva Nigra, informando Cavour dei tentennamenti di Napoleone III:
S.M. cominciò col confessarmi che si trovava nella più difficile e pericolosa posizione che mai fosse; l’opinione pubblica […], spaventata dai disegni ambiziosi della Francia, s’era rivolta con accanimento contro di Lei; il risultato di questo stato di cose doveva necessariamente essere una sospensione temporanea dell’esecuzione dei nostri piani e, per servirmi dell’espressione dell’Imperatore, un momento di tregua per rassettarci in sella[225].
Le altre Potenze, infatti, erano preoccupate dall’eventualità di una guerra fra il Regno di Sardegna e la Francia, da un lato, e l’Austria dall’altro e la osteggiarono in tutti i modi. Pur di mantenere la pace, la Russia propose di indire un Congresso tra le grandi Potenze (al quale il Piemonte non avrebbe potuto teoricamente accedere) che avrebbe avuto come scopo quello di individuare una soluzione diplomatica per risolvere la questione italiana[226]. Lo stesso Ministro degli Esteri francese, il Conte Walewski, grande nemico dell’alleanza, avrebbe preferito questa soluzione, del tutto incompatibile però col progetto dell’indipendenza italiana che aveva in mente Cavour il quale, riguardo al presunto Congresso, scriveva a Nigra: «Opponetevi con tutte le vostre forze all’idea del Congresso. Contrastate arditamente Walewski. L’esclusione della Sardegna comporterà una crisi[227]». In questo frangente molto delicato, Nigra seppe muoversi con disinvoltura e abilità diplomatiche, intercedendo presso l’Imperatore affinché questi, se mai ci fosse stato davvero il Congresso, reclamasse quantomeno la presenza del Piemonte. Inizialmente, l’Imperatore precisò che si stava parlando di grandi Potenze, titolo di cui il Regno di Sardegna non poteva fregiarsi, al che Nigra replicò, osservando: «… quanto fosse assurdo che il Piemonte il quale siede ai Congressi ove si decidono le cose d’Oriente fosse escluso da quelli da quelli ove si discutono […] gli affari d’Italia[228]». Questa citazione è solo un esempio delle capacità argomentative e prontezza di riflessi che Costantino Nigra seppe sfruttare durante i colloqui con Napoleone, ottenendo più volte successo. In effetti, successivamente, veniva comunicato a Cavour che Napoleone avrebbe reclamato l’ammissione del Piemonte, qualora il Congresso si fosse svolto, benché il Conte voleva evitare che avesse luogo, in quanto avrebbe vanificato tutti i suoi sforzi per fare dell’Italia una Nazione unita. Egli era fortemente convinto della necessità di una guerra per ottenere la liberazione del Paese: «per forzare l’Austria a rinunciare all’Italia […] bisognava necessariamente entrare dentro i confini dell’Impero, ficcandole la spada nel cuore, cioè nella stessa Vienna[229]». L’Austria, tuttavia, perseverò nel suo atteggiamento ostile e fece sapere che non avrebbe mai accettato la presenza del Regno di Sardegna al Congresso, se questo non avesse prima sciolto le sue milizie. Successivamente, infatti, invio a scopo intimidatorio un ultimatum al Piemonte affinché questo ordinasse il disarmo dei suoi contingenti[230]. Questa condotta rappresentò una dichiarazione di guerra che, tra l’altro, fece scattare la clausola di intervento della Francia in aiuto del Piemonte e così iniziò la seconda guerra d’indipendenza italiana[231].
Due inconvenienti che Napoleone preferiva evitare erano rappresentati dal Papa e dal Re di Napoli. Con riguardo al primo, egli non voleva urtare i cattolici di Francia; riguardo al secondo voleva evitare di inimicarsi la Russia che si era sempre schierata dalla parte di Ferdinando di Borbone. Cavour trovò rapidamente una soluzione per entrambi: per il Papa si poteva attribuire il possesso di Roma, mediante la protezione di una guarnigione francese, lasciando che le Romagne, che potevano cogliere così una buona occasione per liberarsi dal sistema di governo della corte romana, si sollevassero; il Regno di Napoli, invece, non costituiva un problema, dal momento che non avrebbe subìto alcuna modificazione territoriale, a meno che non si fosse schierato con l’Austria, nel qual caso avrebbero adottato i necessari provvedimenti[232].
Proseguendo, venne definito il nuovo assetto istituzionale dell’Italia. Essa avrebbe costituito una Confederazione di quattro Stati, analoga a quella germanica, comprendente i seguenti territori:
- Il Regno dell’Alta Italia, costituito da Regno di Sardegna, Valle del Po, Romagna e Legazioni, su cui avrebbe regnato Casa Savoia. Di fatto, Vittorio Emanuele sarebbe risultato sovrano dell’intera penisola, avendo il diretto controllo della metà più ricca e florida degli Stati italiani.
- Roma e il Lazio di proprietà del Papa. A questi, poi, sarebbe stata attribuita la Presidenza della Confederazione italica, per ristorarlo della perdita non indifferente di territori.
- Il Regno dell’Italia centrale, comprendente il resto degli Stati pontifici e la Toscana. Si discusse su chi potesse occupare il trono di palazzo Pitti. Cavour suggerì la duchessa di Parma, idea che piacque molto a Napoleone in quanto sarebbe stato un gesto molto apprezzato dai Borbone.
- Il Regno di Napoli che sarebbe rimasto inalterato. L’Imperatore fece intendere che, a guida di questo Stato, avrebbe gradito vedere il Murat, ma si trattava di una questione secondaria che, pertanto, venne lasciata in sospeso[233].
A questo punto, fu affrontato il problema di come il Piemonte avrebbe ricompensato la Francia per l’aiuto da questa prestato. Napoleone avrebbe voluto ottenere la Contea di Nizza e la Savoia. Al riguardo, Cavour riferì che il Re, ispirandosi al principio della nazionalità sapeva che la Savoia, geograficamente, era più francese che piemontese, sicché: «Il Re era pronto a farne il sacrificio, quantunque gli costasse immensamente il rinunziare ad un paese che era stato culla della sua famiglia[234]». La questione di Nizza, invece, era più controversa perché, contrariamente alla Savoia, i suoi abitanti erano (e si sentivano) più italiani che francesi in quanto a lingua, usi, costumi e tradizioni. A seguito di queste considerazioni, l’Imperatore preferì rimandare questo punto per trattarlo successivamente. In realtà, com’è noto, la Francia riuscì ad acquistare anche la Contea di Nizza. Cavour, per ragioni contingenti, fu costretto a rinunciare all’applicazione del principio di nazionalità, elaborato dal napoletano Pasquale Stanislao Mancini, e che fu alla base del fenomeno risorgimentale. Il punto di partenza della teoria stava nella nazionalità, concetto che lo studioso annoverava fra i diritti naturali dell’individuo, fra quelli cioè che esso acquistava nel momento in cui nasce. La nazione metteva insieme soggetti che accomunati da: etnia, religione, lingua, storia, legislazione, consuetudini. L’unione di questi elementi faceva sì che si sviluppasse, negli individui che vivevano in una stessa nazione, la consapevolezza di appartenere ad una medesima aggregazione umana e di condividerne il destino[235]. Cavour spese sicuramente tutte queste argomentazioni, sia per giustificare internamente la cessione della Savoia, sia per conservare (invano) Nizza. Nei fatti, il principio di nazionalità non prevalse, sicché la Francia, con i plebisciti del 1860, acquistò i due territori d’oltralpe[236].
Risolte le questioni preliminari, i due interlocutori si misero a discutere su come agire concretamente perché la guerra avesse esito favorevole. L’Imperatore evidenziò subito la necessità che l’Austria si trovasse a combattere da sola contro la Francia e il Piemonte. Per realizzare questa condizione, occorreva agire sull’opinione pubblica, affinché la guerra fosse, per così dire, popolare anche fra le altre Potenze. Questo spiega perché la ricerca del pretesto di guerra rappresentasse il punto più delicato per le parti in gioco, in quanto da questo dipendeva l’esito del conflitto: l’Austria poteva essere sconfitta, ma doveva essere lasciata da sola in lizza con la Francia ed il Piemonte. L’Imperatore, infatti, notava che: «l’impresa […] era di un’estrema complessità e presentava difficoltà immense; l’Austria, non bisognava nasconderselo, aveva immense risorse militari[237]». Per isolare questa Potenza, per impedire, cioè, che una terza parte si inserisse nel conflitto, in suo soccorso, doveva essere ben congeniata la causa della guerra, che non doveva apparire rivoluzionaria, né far trasparire ambizioni espansionistiche che contrariavano il mondo politico e diplomatico d’Europa. La guerra sarebbe iniziata solo come risposta al clima di tensione e oppressione che l’Impero austriaco aveva creato sul territorio italiano. In questi termini, era legittimo per il Piemonte, aiutato militarmente (e finanziariamente) dalla Francia, fare guerra all’Austria.
Sul finire della prima parte del loro incontro, Cavour e Napoleone affrontarono le questioni militari e finanziarie, sulle quali trovarono un rapido accordo: il piccolo Regno di Sardegna avrebbe beneficiato sia dei contingenti militari francesi, sia del materiale bellico, sia di un prestito, negoziato a Parigi[238].
La seconda parte degli accordi si svolse nel pomeriggio, con un altro colloquio, ed ebbe ad oggetto un tema molto caro all’Imperatore: il matrimonio tra il Principe Gerolamo, suo cugino, e la Principessa Maria Clotilde di Savoia, figlia primogenita di Vittorio Emanuele. Si trattava dell’unione dinastica che Napoleone desiderava più di tutte: «L’imperatore rispose che, fra tutte le alleanza, preferiva quella colla famiglia Savoia[239]». Cavour replicò che il Re, da parte sua, non nutriva dei pregiudizi avverso queste nozze, ma era titubante a causa dalla giovanissima età di Clotilde: aveva soltanto 15 anni. L’Imperatore si dimostrò comprensivo sul punto. Aggiunse, inoltre, che non avrebbe insistito oltre sulla queste, ma che era disposto ad aspettare anche un anno e più se ciò avesse garantito l’unione delle due famiglie. Tutto questo tempo, però, l’Italia non lo aveva: i fermenti patriottici erano al culmine e la popolazione esigeva azione. Il Re ne era consapevole ma, allo stesso tempo, non voleva opporre un veto al matrimonio, sicché decise di lasciare alla figlia totale libertà di scelta: accettare o rifiutare le nozze[240].
Nel prosieguo della trattazione affronteremo approfonditamente l’argomento in questione. Vedremo che Cavour e Nigra seppero esercitare un’influenza persuasiva sulla principessa, spendendo molto abilmente tutte le argomentazioni a favore di queste nozze, evidenziando tutti gli aspetti positivi che ne sarebbero scaturiti, primo fra tutti l’onore di suo padre, il Re, che avrebbe dato all’Italia un futuro da Nazione libera e indipendente.
Riepilogando, i quattro punti fondamentali concertati da Napoleone e Cavour furono: 1) l’intervento della Francia, a fianco del Regno di Sardegna, qualora questo fosse stato attaccato dall’Austria; 2) in caso di vittoria, l’Italia si sarebbe ordinata in una Confederazione di quattro Stati; 3) la Francia sarebbe stata ricompensata con la Savoia (nulla fu definito riguardo a Nizza); 4) l’alleanza sarebbe stata suggellata dal matrimonio tra il principe Gerolamo e la principessa Clotilde[241].
Una volta che furono discussi tutti i punti, l’Imperatore congedò Cavour con una stretta di mano: «Abbiate fiducia in me, come io l’ho in voi[242]». Così terminò lo storico incontro di Plombiéres che pose le basi dell’alleanza fra il Regno di Sardegna e la Francia. Questi accordi, presi verbalmente da Cavour e dall’Imperatore, furono in seguito tradotti in trattato da Nigra il quale venne inviato segretamente a Parigi proprio con questo incarico, di cui il primo Ministro sardo non poteva occuparsi direttamente: la sua presenza alle Tuileries avrebbe allarmato tutte le cancellerie europee. Tuttavia, ciò non fu motivo di preoccupazione per il Conte; aveva già avuto prova delle capacità del Nigra, della sua devozione alla causa italiana e sapeva che avrebbe saputo negoziare i termini dell’alleanza con grande abilità. Sono parole di Cavour, rivolte al giovane diplomatico mentre questi si trovava a Parigi: «Con un interprete così dei miei pensieri, sono senza timori[243]».
3.3 Le trattative con Napoleone III
Dopo aver fissato le basi dell’alleanza tra la Francia e il Regno di Sardegna, occorreva darvi un contenuto preciso e vincolante per i due Stati. Cavour non poteva svolgere direttamente le trattative, sia per ragioni di segretezza dell’operazione, sia perché il suo ruolo istituzionale richiedeva la sua presenza a Torino. Siccome Napoleone desiderava tenersi in continuo contatto con lui, decise di inviare Nigra a Parigi per fungere da sicuro canale di comunicazione, nonché per occuparsi delle negoziazioni. Il giovane diplomatico fu, altresì, munito di una lettera personale per l’Imperatore, nella quale Cavour lo presentava quale persona degna della massima considerazione e all’altezza dell’incarico che gli aveva affidato:
Sire, dopo l’invito che V.M. ha voluto inviarmi, spedisco immediatamente a Parigi il signor Nigra, mio segretario particolare con questa lettera. Il sig. Nigra merita una fiducia illimitata, io sono sicuro di lui come di me stesso. Egli attenderà a Parigi gli ordini che V.M. per farmi avere le comunicazioni che V.M. crederà di farmi pervenire[244].
Così, Nigra partì per Parigi e vi giunse, segretamente, il 28 agosto del 1858. Il primo obiettivo era quello di farsi ricevere, nel più breve tempo possibile, dall’Imperatore per recapitargli la lettera di presentazione Cavour e ottenere un’udienza per cominciare subito le trattative di alleanza, in quanto il clima socio – politico era allora molto acceso, nella Penisola, condizione che, in realtà, giocava a favore del progetto indipendentista cavouriani, sicché bisognava approfittarne. Del resto, come sostiene gran parte della storiografia, il Risorgimento fu un fenomeno di massa, non elitario; ne è una prova il numero, elevatissimo, di volontari che accorsero in Piemonte per arruolarsi nell’esercito sabaudo in vista dell’imminente conflitto. Fu, dunque, un movimento politico che ebbe come conclusione lo Stato nazionale, alla cui creazione contribuirono migliaia di italiani o, per meglio, di persone che si sentivano tali[245]. Cavour stesso confidò a Massari che:
Il sentimento nazionale in Italia è più forte dell’opinione liberale: se domani un despota – il re di Napoli – inalbera lo stendardo nazionale, e muove guerra agli Austriaci, quel despota sarà anche più popolare del Piemonte costituzionale. Se ne persuada l’Inghilterra: oggi in Italia c’è il Piemonte a fronte dell’Austria, se domani cade il Piemonte il suo posto sarà preso dalla rivoluzione[246].
Si trattava, perciò, di sfruttare tutte le forze che erano a disposizione per far trionfare la causa italiana.
Arrivato nella capitale, Nigra incontrò i primi ostacoli: il dottor Conneau, medico personale e fiduciario di Napoleone III, che sarebbe stata la via rapida per introdursi a Corte e ottenere un’udienza, non era ancora rientrato dalle sue vacanze estive; inoltre, anche l’aiutante di campo dell’Imperatore, il Generale de Beville, non si trovava a Parigi, sicché era necessario individuare qualcun altro che annunciasse il suo arrivo, in quanto il palazzo imperiale era inaccessibile a tutti coloro che non avessero una lettera di udienza.
Fin da subito, fu chiaro a Nigra che la missione avrebbe presentato delle complicazioni e che, di conseguenza, doveva essere pronto ad assumere delle decisioni in autonomia, o ad adottare strategie alternative, qualora le circostanze lo richiedessero. Pertanto, siccome tutte le vie sembravano chiuse decise di rivolgersi per iscritto all’Aiutante di Campo in servizio, il Generale Conte di Goyon e gli inviò un plico contenente la missiva di Cavour per Napoleone III, con la richiesta di farla pervenire a Sua Maestà nel più breve tempo possibile, in quanto trattava questioni della più grande importanza, e di non leggerla, poiché era una lettera dal contenuto riservato[247]. Così si rivolse Nigra al Generale:
Signor Conte, non avendo potuto arrivare che a Voi, mi prendo la libertà di inviarvi, in allegato, un plico contenente una lettera, personale per l’Imperatore, che ho avuto l’incarico di consegnare a Sua Maestà Imperiale. Affido questa lettera a Vostro Onore, signor Conte, ed alla Vostra discrezione e Vi prego di farla pervenire senza indugio alla sua alta destinazione. Permettetemi che ripeta che la lettera è personale e che tratta questioni importanti per l’Imperatore […][248].
Dopo aver letto la richiesta, il Generale fece convocare Nigra (che nel plico aveva lasciato anche il suo biglietto da visita con il suo recapito), per chiedergli informazioni su di lui e conoscere le ragioni della sua richiesta. In proposito, Nigra rispose che non aveva impedimenti a dire chi fosse, ma che non poteva aggiungere spiegazioni in merito al motivo della sua missione a Parigi, non essendo stato autorizzato a farlo. Ribadì, altresì, la necessità di consegnare quanto prima, a Napoleone, la lettera a lui indirizzata. Di particolare effetto, e indice di grande sicurezza, sono le parole che il giovane diplomatico utilizzò con il Conte di Goyon: «Vogliate rimettere la lettera a Sua Maestà Imperiale dicendogli solamente che la lettera proviene da Torino, e provatemi anzi che non ho sbagliato nel ricorrere, per compiere la mia missione, alla Vostra lealtà e discrezione[249]». Questa risposta soddisfece il Generale, il quale confermò che aveva agito bene, rivolgendosi a lui, e aggiunse che la lettera sarebbe stata recapitata all’Imperatore per mezzogiorno, dal momento che era temporaneamente occupato a presiedere il Consiglio dei Ministri.
Il primo compito fu portato a termine con successo e, dopo essersi congedato, Nigra si premurò di comunicarlo tempestivamente a Cavour.
L’episodio fu un banale contrattempo, ma anche la prova della segretezza che avevano caratterizzato tutte le sue missioni a Parigi, quest’ultima compresa. Tuttavia, è un esempio di come il giovane diplomatico sapeva sfruttare le occasioni, il che gli valse la fiducia e la simpatia di Napoleone e, forte di ciò, Nigra non ebbe mai timore di trattare con lui qualunque questione, anche le più delicate, pur sapendo quando poteva permettersi di insistere e quando era più conveniente soprassedere. Infatti, se è vero che era munito delle istruzioni di Cavour, occorre pur sempre ricordare che era lui ad interloquire direttamente con l’Imperatore, un personaggio caratterialmente difficile ed imprevedibile, nei confronti del quale bisognava saper usare intuito e versatilità, qualità che il giovane canavesano dimostrò sempre di possedere[250].
Tre giorni dopo più tardi, Nigra fu convocato al castello di Saint Cloud[251], dove venne accolto personalmente dall’Imperatore: «Il Conte di Cavour mi ha scritto che Lei merita illimitata fiducia e tutta la mia confidenza; non posso che essere lieto di parlare a Lei, come se Lei fosse Cavour[252]». C’è una sorta di parallelismo fra le persone di Cavour e Nigra, in questo frangente: il primo godeva evidentemente della massima fiducia di Napoleone, il quale accolse il giovane inviato senza riserve; il secondo vantava la più alta considerazione del suo capo, che lo riteneva all’altezza del compito che stava eseguendo: perorare la causa italiana presso uno degli uomini più potenti d’Europa; questa stessa fiducia, che Cavour aveva in Nigra, quasi inspiegabilmente venne in lui riposta anche da Napoleone. Pertanto, i due iniziarono subito a discutere le basi dell’alleanza, fissate in via di massima a Plombiéres, prima fra tutte le strategie per indurre l’Austria a dichiarare guerra al Piemonte[253]. I preliminari degli accordi, peraltro erano stati riassunti, per iscritto, da Cavour ed inviati a Napoleone. Questi, poi, vi aveva apportato delle correzioni poiché, data la portata del trattato, era molto difficile, se non impossibile, mantenere il segreto su taluni termini del futuro negoziato, primo fra tutti, il casus belli. La preoccupazione principale dell’Imperatore era quella di non turbare platealmente gli equilibri politici stabiliti a Vienna quarant’anni. Un uso dei popoli, così come ipotizzato da Cavour nel progetto di Massa e Carrara (proposto a Plombières), che pure era stato approvato da Napoleone, sarebbe potuto apparire strumentale e ciò avrebbe comportato una disapprovazione generale da parte dell’opinione pubblica europea. Ecco spiegata la ragione per cui l’Imperatore temeva quelle previsioni, così come enunciate; anche l’indicazione delle tattiche militari, del resto, potevano apparire, per la medesima ragione, inopportune[254].
Tuttavia, Nigra seppe sedare le preoccupazioni di Napoleone, sostenendo che, in realtà, nell’immaginario di Cavour, quel suo scritto aveva come unico destinatario l’Imperatore stesso con l’obiettivo di accertare un’uniformità di pensiero fra i due riguardo alle strategie da adottare, dopodiché le stipulazioni formali avrebbero riguardato, esclusivamente, l’enunciazione di princìpi generali, nonché il riferimento alla nobiltà della causa italiana, intesa come liberazione dall’oppressione straniera; il trattato, inoltre, avrebbe dovuto avere i caratteri formali di un accordo di natura difensivo e, anzi, nella prospettiva di Cavour doveva essere predisposto in modo tale da suscitare un’approvazione generale dell’opinione pubblica. A queste osservazioni Napoleone si tranquillizzò e incaricò Nigra di comunicare a Torino che, stando così le cose, quelle correzioni che aveva apportato al documento non avevano più significato di esserci e gli accordi presi a Plombiéres potevano considerarsi immutati[255].
Proseguendo, il colloquio si concentrò sul motivo di rottura tra Austria e Regno di Sardegna, vale a dire sul casus belli. Volendo passare in rassegna eventuali pretesti di guerra, Napoleone si soffermò sulla questione di Piacenza, chiedendo delucidazioni in merito. Nigra spiegò che, secondo le statuizioni di Vienna, l’Austria aveva soltanto il diritto di difendere la fortezza di Piacenza, laddove invece erano state rinforzate le fortificazioni della città, il che aveva comportato due conseguenze: una violazione del trattato, cui seguiva una lesione dei diritti del Piemonte perché le fortificazioni (di rinforzo) erano state poste sui confini, assumendo in questo modo una posizione pericolosa. Essendo questo lo stato dei fatti, Napoleone suggerì la costruzione di una fortificazione sarda, nei confini interni, ma nei pressi di quella austriaca. Nigra obiettò che tale opera richiedeva molto tempo e l’Italia non ne aveva molto a disposizione, sicché la proposta venne scartata immediatamente, ritornando su quella di Massa e Carrara ritenuta, ancora, la migliore[256]
Del resto, c’era da considerare che l’Austria stava adoperandosi affinché le province italiane, sotto il suo dominio, fossero ammesse alla Confederazione germanica. Di questo, sia Napoleone, sia Nigra ne erano consapevoli e, se mai fosse capitato, questo sarebbe stato un più che legittimo motivo di intervento armato:
L’Imperatore aggiunse che, se l’Austria riusciva a far prevalere, in seno alla Dieta di Francoforte[257], il suo progetto di favorire l’ingresso delle Province Italiane nella Confederazione Germanica, quello sarebbe stato un motivo eccellente per provocare una rottura[258].
Il problema consisteva nel fatto che queste dinamiche non erano certe nell’an, senza considerare, tra l’altro, quanto tempo ciò avrebbe richiesto. Pertanto, ancora una volta l’Imperatore convenne che il piano migliore fosse quello di Massa e Carrara, già organizzato con Cavour.
Successivamente, fu trattata la questione dell’epoca della guerra. Secondo l’Imperatore questa non doveva iniziarsi prima della primavera del 1859, anche se avrebbe preferito rimandarla addirittura al medesimo periodo dell’anno successivo. In realtà, questo non fu un punto su cui i due interlocutori si soffermarono a lungo; con riferimento all’epoca della guerra, Cavour scrisse in seguito a Nigra di impedire eccessivi ritardi nell’inizio della ostilità per due ragioni: innanzitutto, perché in Europa sembrava sempre più possibile un riavvicinamento tra Austria e Russia; in secondo luogo perché il conte voleva sfruttare la crisi mazziniana, incominciata dopo il Congresso di Parigi. In ogni caso, l’Imperatore disse che, ad ottobre, avrebbe inviato il Generale Adolphe Niel, Ministro della guerra francese, di cui Napoleone aveva la massima fiducia e stima, per discutere tutti i dettagli della guerra, raccomandandosi però di non trattare né l’epoca del conflitto, né le sue cause[259].
Con riferimento al nuovo assetto geopolitico dell’Italia, l’Imperatore confermava quanto aveva pattuito cogli accordi di Plombiéres, aggiungendo che, perché la futura guerra divenisse popolare in Francia e nel resto d’Europa, dovesse essere mossa nel rispetto del principio della sovranità nazionale e che, in seguito, i popoli avrebbero dovuto decidere le loro sorti mediante un plebiscito. Infine, Napoleone si raccomandò che al Papa non fosse intaccato il titolo e la funzione di Capo della Cristianità Cattolica e che, all’inizio dell’invasione, si dovesse agire solo su suolo austriaco evitando i territori dello Stato della Chiesa[260].
L’ultimo argomento di questo primo colloquio fu la data in cui il Principe Gerolamo Napoleone si sarebbe recato a Torino, per conoscere Maria Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele, a lui destinata in moglie. In proposito, in realtà, non fu deciso ancora nulla e Nigra si dichiarò disposto a fare da intermediario con il Re Vittorio Emanuele per stabilire una data di incontro. Sapeva, però, che, queste nozze non erano ben viste a Torino e che il Re aveva rimesso a Clotilde la scelta, dal momento che a lui costavano un grande sacrificio. Perciò, per soddisfare la curiosità dell’Imperatore, ansioso di conoscere la posizione dei suoi nuovi potenziali parenti, si limitò a dire che «la principessa si era astenuta da ogni commento, essendo quella una questione delicata sulla quale aveva bisogno di riflettere a lungo[261]».
Così si svolse il primo colloquio tra Napoleone III e Costantino Nigra. Ve ne furono molti altri nei quattro mesi in cui il giovane canavesano fece la spola fra Torino e Parigi nell’espletamento della sua attività diplomatica. Ci limitiamo ad esaminarne altri due, ovvero quelli più rilevanti ai fini della stipulazione del trattato di alleanza.
Il primo di questi si svolse il 30 settembre, durante il quale Nigra i l’Imperatore si concentrarono sull’impresa d’Italia e su diversi temi che già erano stati affrontati durante il loro primo incontro. Napoleone si dimostrò favorevole ad iniziare la campagna militare nella primavera dell’anno successivo, come aveva caldeggiato fortemente Cavour o, al più tardi, all’inizio dell’estate; si era infatti persuaso della necessità di non tergiversare oltre. Fu nuovamente discusso il pretesto di guerra. Esso continuava a rappresentare l’assillo più grande per l’Imperatore, perché da quello dipendeva l’esito del conflitto e doveva essere tale da esercitare un’influenza positiva e favorevole sull’opinione pubblica non soltanto italiana e francese, ma anche inglese: non si poteva correre il rischio di inimicarsi questa grande Potenza. Il Regno di Sardegna, da parte sua, avrebbe avuto un valido casus belli, che era rappresentato dai numerosi sequestri effettuati dal governo austriaco, che però, osservò Nigra, erano cessati da parecchio tempo, sicché non costituiva più una legittima motivazione per intraprendere le ostilità. Pertanto, ancora una volta, fu convenuto che il progetto di Massa e Carrara, di indurre le popolazioni di quei luoghi a chiedere protezione e annessione al Piemonte, fosse il migliore. In ogni caso, Nigra assicurò che il Re e Cavour avrebbero continuato a studiare la questione. Confermò, altresì, che l’Italia, in particolare la Lombardia, nonché tutte le zone in cui si parlava italiano, fino persino al Tirolo, erano pronte ad assecondare l’impresa che stavano intraprendendo. Da ultimo, venne affrontato il tema più spinoso e delicato: le progettate nozze della principessa Clotilde[262]. Napoleone III dimostrò un reiterato interesse per il matrimonio, sicché Nigra avvertì che si trattava di una conditio sine qua non dell’alleanza. Per questa ragione, nel resoconto che egli fece a Cavour di quel suo colloquio, si premurò di osservare che:
Se il matrimonio non si fa, occorrerà rimandare l’impresa. I pretesti per giustificare la dilazione non mancheranno. Ma non imbarchiamoci assolutamente sotto il colpo di un tale rifiuto. Le regole della più ordinaria prudenza ce ne sconsigliano. Certo la sorte del Governo sarà segnata ma, per quanto ciò sia deplorevole, sarà meglio rimandare l’opera di una generazione, che non rovinarla attualmente[263].
Il matrimonio fu in seguito celebrato, ma in questa sede ci limitiamo a dire che, sull’argomento Nigra riferì che il Re aveva lasciato alla figlia una totale libertà di scelta e che, data la delicatezza della proposta, la principessa non si era pronunciata ancora, avendo bisogno di tempo per riflettervi[264].
Il Conte rimase molto soddisfatto del lavoro svolto dal giovane diplomatico e anche il Re dimostrò il suo apprezzamento, il quale ragguagliato da Cavour sul resoconto del colloquio con Napoleone disse: «Bravo, ha detto proprio quello che avrei detto io se fossi stato là[265]».
Ormai, il ministro di Sardegna era certo di potersi affidare senza timore a Nigra, lasciandogli anche una libertà di azione piuttosto ampia, avendo egli una chiaro quadro della situazione. Proprio in quei giorni, il Conte si complimentò con lui, con una frase che viene spesso citata dalla storiografia: «Non le do ulteriori istruzioni, giacché a quest’ora ella sa condurre la barca al pari, per non dire molto meglio, di me[266]».
Le capacità del giovane diplomatico erano peraltro molto apprezzate e riconosciute anche presso la corte delle Tuileries; il principe Napoleone, che seguiva le dinamiche delle trattative e si teneva in contatto con Cavour, gli scriveva: «Gli affari che noi trattiamo sono di tale importanza che io credo sarebbe utile che il signor Nigra venisse spesso a Parigi, ch’egli fosse il nostro trait d’union permanente […]. L’Imperatore, voi, Nigra ed io sappiamo tutto senza eccezioni[267]».
Verso la fine di novembre, il generale Niel era atteso Torino per discutere i dettagli della guerra. Di conseguenza, si rese necessario individuare una persona a Parigi che avesse le competenze e le conoscenze adeguate per fungere da collegamento con le due Corti. Cavour non esitò a scegliere Nigra, sebbene gli costò caro farlo; in Europa era diventato chiaro che si stavano stipulando delle alleanze segrete, sicché le cancellerie si adoperavano perché scongiurare qualunque pericolo di guerra. Fu, pertanto, un periodo di intenso e frenetico lavoro per Cavour il quale, di conseguenza, avrebbe desiderato avere, al suo fianco, Nigra che considerava, ormai, un valido e fidato collaboratore. Tuttavia, era consapevole della necessità di lasciarlo a Parigi, in contatto diretto con l’Imperatore, in quanto era l’unico adatto a quell’incarico: conosceva Napoleone, il suo modo di agire e di pensare, sicché avrebbe saputo agire con successo sulla sua persona per evitare ripensamenti riguardo all’alleanza. Infatti:
Questo individuo deve godere di tutta la nostra fiducia ed ispirare confidenza all’Imperatore; essere sommamente abile e del pari devoto alla causa italiana. Malgrado i numerosi e rari requisiti ch’esso deve avere, io non ho durato fatica a trovarlo […], questo individuo l’avevo sotto le mani, nella persona di lei, mio carissimo Nigra. Poiché è una necessità, mi rassegno a lasciarla a Parigi, finché non siano spianate le difficoltà che le negoziazioni faranno sorgere. Questo sacrificio mi costa molto, poiché quand’ella è lontano da me, mi sento mancare il più valido del mio appoggio[268].
Così, una terza missione diplomatica condusse nuovamente Nigra a Parigi tra il 23 novembre e il 20 dicembre. Il 12 dicembre ebbe un colloquio con l’Imperatore, durante il quale discussero tutti i termini del trattato, in vista della stipulazione il mese successivo: questioni diplomatiche, militari, finanziari, l’epoca della guerra, il casus belli e il matrimonio. Oltre a Napoleone, era presente anche il principe Gerolamo, con il quale Nigra aveva contatti sempre più frequenti.
Analizziamo ora gli aspetti più importanti del resoconto che Nigra inviò a Cavour. Durante questo incontrò vennero fissati tre punti fondamentali: la missione di Niel a Torino per intavolare le varie trattative, matrimoniali, politiche, militari e finanziarie; il pretesto di guerra; il ruolo da assegnarsi al Re in guerra. Si convenne, pertanto, che il Generale sarebbe giunto a Torino per la metà di gennaio con il fine di stipulare la convenzione politica e, previo consenso della principessa, le si sarebbe presentato il Principe Napoleone; Clotilde, infatti, si era riservata di conoscerlo prima di accettare le nozze. Quanto al pretesto di guerra, non ci fu altro da fare che confermare definitivamente il progetto originario di Massa e Carrara, dal momento che non si era riuscito a trovarne un altro più sicuro e, del pari, valido. Infine, Nigra perorò a favore del Re, così come da lui richiesto, una posizione da protagonista durante il conflitto. Vittorio Emanuele, in quanto sovrano, desiderava avere larga parte nei pericoli di quella che aveva le caratteristiche di una guerra nazionale. Napoleone ammise di apprezzare i sentimenti del Re e aggiunse che, in sede di firma del trattato, sarebbero addivenuti ad una decisione condivisa sull’argomento[269].
Tra le tematiche, venne altresì affrontata la questione delle spese di guerra, senza che venisse ancora raggiunta un’intesa. La Francia avrebbe voluta addossarle interamente a carico del futuro Regno dell’Alta Italia, dal momento che si trattava di un’impresa che avrebbe sancito l’indipendenza della nazione italiana. Tuttavia, Nigra cercò di individuare una soluzione di compromesso, dal momento che le risorse finanziarie del Regno di Sardegna era limitate rispetto ad una grande Potenza. In realtà, ottenne soltanto che la definizione della questione fosse rimandate per essere sottoposta, in seguito, a nuove valutazioni[270].
Nigra tornò a Torino sul finire di dicembre, sicché il 1858 si chiuse con un’intensa e formidabile attività diplomatica svolta dal giovane. Rosario Romeo, nel ricostruirla, ne offre un giudizio altamente positivo: «Nigra aveva svolto un lavoro eccellente, rivelando duttilità, ricchezza di risorse, garbo e senso della misura, accompagnati da una chiara intelligenza degli interessi del Paese, rari anche a livello della migliore diplomazia[271]». I suoi incarichi, però, non finivano quell’anno; l’alleanza doveva ancora essere formalmente sancita da un trattato e, inoltre, i vari accadimenti che si verificarono nei primi mesi del 59, che rischiarono di rinviare l’inizio della guerra, richiesero nuovamente la sua azione diplomatica a Parigi.
3.4 Una questione delicata: il matrimonio di Maria Clotilde e Gerolamo Napoleone
Più volte abbiamo già avuto modo di accennare a questo tema, molto caro a Napoleone III e che egli desiderava portare a compimento, come a porre un sigillo indissolubile tra la Francia e il Regno di Sardegna. Tanto era importante, per lui, realizzare quest’unione che Nigra giunse a ritenere che fosse una condizione indefettibile dell’alleanza, che addirittura si dovesse abortire l’impresa d’Italia nel caso in cui il matrimonio non avesse avuto luogo. Del resto, già Cavour aveva inteso, dai colloqui con l’Imperatore a Plombières, che se non proprio una conditio sine qua non dell’alleanza, quelle nozze erano qualcosa che vi assomigliavano molto e, di conseguenza, sarebbe stato imprudente ostacolarle[272].
Ciononostante, non fu facile realizzare questo progetto matrimoniale, in quanto era avversato dal Re e da tutto il suo entourage. Le ragioni che ostavano alla celebrazione di quest’unione erano molteplici: 1) l’età giovanissima della principessa Clotilde, che aveva soltanto quindici anni, considerato il fatto che il suo promesso sposo ne aveva ventuno di più; 2) la cattiva reputazione che quest’ultimo si era costruito con le sue condotte personali troppo licenziose; 3) l’inclinazione spontanea della principessa ad una vita religiosa e di preghiera; 4) la promessa, fatta alla madre in punto di morte, di badare della sorella minore e di educarla finché avesse raggiunto la maggiore età; 5) la volontà del padre, Vittorio Emanuele, di non obbligarla a sacrificare se stessa e i suoi desideri [273].
Data la sua importanza, per via del contesto in cui si collocava, ricostruiamo le vicende legate al matrimonio tra Clotilde e il Bonaparte, le quali richiesero un’intensa ed attenta opera di mediazione da parte sia di Cavour, sia di Nigra.
Le premesse si trovano, come per tutti gli aspetti del trattato franco – sardo, nell’incontro segreto di Plombières. Nel pomeriggio, durante una gita in carrozza per la campagna circostante, Napoleone introdusse l’argomento del matrimonio tra suo cugino Gerolamo e la principessa Clotilde, domandando quali fossero le posizioni del Re in proposito. Cavour rispose che il suo sovrano si trovava in una situazione imbarazzante perché: da un lato, ricordava un incontro avuto con il principe Gerolamo, in occasione del quale questi ventilò un possibile matrimonio con la duchessa di Genova; dall’altro era restio a dare in sposa la figlia, poiché era ancora molto giovane, aveva quindici anni, e non voleva imporle una scelta del genere. L’Imperatore intervenne sostenendo che non approvava i progetti del cugino con la duchessa di Genova, in quanto non era stato conveniente farle una proposta matrimoniale dopo che il marito era morto soltanto da pochi mesi e in ogni caso, fra le unioni dinastiche possibili, quella con i Savoia era quella che desiderava più di ogni altra. Soggiunse, inoltre: «Lo so, lo sposo ha i suoi difetti. Io stesso, più di una volta, ho parlato male di lui. Ero in collera. Ma gli voglio bene: ed è migliore della sua fama[274]». Era infatti considerato un uomo dissoluto, dedito al gioco, al vizio e dai costumi troppo liberi e le sue tendenze politiche, orientate verso la sinistra, gli erano valse il titolo di «principe rosso[275]». Per questa ragione, l’Imperatore tentò di giustificarlo, sostenendo che ultimamente aveva saputo dimostrare, in diverse occasione, di avere un ingegno vivo e un buon cuore, lasciando quasi ad intendere che le critiche che erano mosse nei suoi confronti era persino eccessive. Cavour, da parte sua, si guardò dal contraddire Napoleone e, siccome questi non aveva fatto del matrimonio una questione di principio, ma anzi si dimostrò comprensivo nei confronti del Re, evitò assumere impegni specifici; per il momento, all’Imperatore bastava che padre e figlia si consultassero e facessero sapere quanto prima le loro intenzioni[276].
L’incontro giunse al termine e i due si salutarono amichevolmente, dopodiché Cavour provvide immediatamente a redigere un resoconto del colloquio da inviare al Re. Il rapporto riassumeva la giornata trascorsa in compagnia di Napoleone III, richiamando tutti i punti che sarebbero stati oggetto del trattato di alleanza. Tra questi, c’era ovviamente il matrimonio, sul quale Cavour si dilungò parecchio, in quanto si trattava dell’argomento più delicato e di più difficile risoluzione: il Re, infatti, era contrario alle nozze, così come tutta la Corte sabauda, poiché disprezzavano il principe Napoleone; Clotilde, da parte sua, oltre ad essere giovanissima, aveva concepito il desiderio di dedicarsi ad una vita religiosa e spirituale, sicché certamente non aveva intenzione di sposarsi. Per tutte queste ragioni, Cavour ritenne opportuno, nel relazionare il suo sovrano, iniziare a perorare quell’unione, spendendo l’argomentazione principale: il matrimonio quale conditio sine qua non dell’alleanza. In realtà, l’Imperatore non si era espresso in questi termini, pur tuttavia Cavour intese che si trattava di qualcosa di molto simile, dal momento che Napoleone era ritornato svariate volte sull’argomento, tentando di strappare al Ministro qualche impegno serio:
L’Imperatore – scriveva Cavour al Re – vi recherà uno spirito tutto diverso da quello che vi avrebbe recato se […] V.M. gli avesse accordato, per il suo parente più stretto, la mano di sua figlia. Se c’è una qualità che contraddistingue l’Imperatore, è la costanza nelle sue amicizie e nelle sue antipatie. Egli non dimentica mai un servigio, come non perdona mai un’ingiuria. Ora, il rifiuto al quale si è esposto sarebbe un’ingiuria sanguinosa […]. Non bisogna dissimularselo: accettando l’alleanza che le viene proposta, V. M. e la sua nazione si legano in modo indissolubile all’Imperatore e alla Francia[277].
Oltre a ciò, Cavour mise in luce che questo matrimonio sarebbe stato tutt’altro che svantaggioso, dal momento che Gerolamo Napoleone era principe del primo impero del mondo e portava il nome più glorioso dei tempi moderni; non apparteneva a una casa sovrana, ma bisognava d’altra parte considerare che, in quel determinato periodo storico in Europa, non c’erano Re, né principi ereditari disponibili per Clotilde. Certamente, le principali critiche che si potevano muovere contro queste nozze (che scandalizzavano la Corte sabauda) erano le qualità personali del principe e la cattiva fama che si era costruito con il suo stile di vita assai libertino. Al riguardo, Cavour ripeté le parole dell’Imperatore: che valeva molto di più della sua reputazione; che, a dispetto di quanto dicevano di lui, aveva un buon cuore: pur di non tradire le antiche amicizie e gli affetti passati, non aveva temuto di scontrarsi anche con l’imperiale cugino; infine, che se spesso la sua condotta era stata leggera, ma ciononostante era una persone che non mancava di coraggio ed intelligenza[278].
Il Ministro chiudeva la sua lettera con un appello al sovrano affinché ponderasse attentamente questo progetto matrimoniale e sull’importanza di portarlo a compimento, tenuto conto di tutti i vantaggi che ne sarebbero derivati:
Se V. M. si degna di meditare sulle considerazioni che ho avuto l’onore di sottometterle, oso illudermi che riconoscerà di potere, come padre, acconsentire ad un matrimonio che gli consigliano di contrarre l’interesse supremo dello Stato, l’avvenire della sua famiglia, del Piemonte, dell’Italia tutta[279].
La questione matrimoniale fu tra le più complicate da risolvere e diede molte preoccupazioni tanto a Cavour, quanto a Nigra. Il primo ostacolo era lo stesso Vittorio Emanuele che non voleva neanche prospettare alla figlia l’ipotesi di sposare il principe Gerolamo. I due, tuttavia, riuscirono a vincere questa resistenza sostenendo decisamente che la ragione di Stato non poteva soccombere: se il matrimonio non fosse stato celebrato, la Francia non si sarebbe alleata con il Piemonte, di conseguenza il progetto indipendentista che stavano costruendo da tempo sarebbe fallito, vanificando tutti gli sforzi e i sacrifici che erano stati fatti fino ad allora[280].
Ai primi di agosto, il Re trovò il modo di informare la figlia circa il matrimonio e, per la verità, la principessa, per quanto rimase stupita, non reagì con un immediato rifiuto, ma rispose di avere bisogno di tempo per rifletterci. A Cavour sembrò che ci fossero delle buone possibilità di successo, sennonché, ai primi di settembre, dovette richiamare il suo giovane collaboratore che era in missione a Parigi, in quanto la situazione stava precipitando: il sovrano sembrava avere dei ripensamenti e Clotilde non accennava a prendere una decisione. Cavour e Nigra furono nuovamente costretti ad insistere sull’indispensabilità di accettare le nozze, in quanto da esse dipendevano il destino dell’Italia e la gloria di Casa Savoia. Si trattava di argomentazioni che toccavano profondamente la giovane principessa, la quale chiese comunque altro tempo per riflettere: il sacrificio che le si chiedeva era grande[281] e il Re non voleva in alcun modo obbligarla a quella scelta. In seguito, Cavour venne a sapere che Clotilde aveva chiesto al padre di convocare a Corte il principe Napoleone e «se la sua persona non mi ripugna, sono decisa a sposarlo, e ciò per contribuire la bene del mio Paese ed alla gloria di papà. Andrò anch’io a brillare alla Corte di Francia, ancorché mi sia poco simpatica[282].
Quando giunse questa notizia, Nigra era già ritornato a Parigi per continuare la sua missione diplomatica. Dopo che ebbe appreso la risoluzione della principessa, formulò una risposta da dare all’Imperatore quando, al prossimo colloquio, gli avesse (quasi certamente) domandato novità sulle intenzioni del Re e di sua figlia per il matrimonio. L’incontro si svolse e, come previsto, Napoleone non mancò di soffermarsi sul tema che maggiormente gli stava a cuore. Nigra non ebbe esitazioni:
Il Re, mio augusto sovrano, ha considerato il matrimonio proposto sotto l’aspetto politico sotto l’aspetto umano, come Re e come padre. Come Re, non ha alcuna difficoltà; trova una tale alleanza conforme agli interessi politici dei due Paesi. Come padre non può innanzitutto dispensarsi dal sottolineare che sua figlia era molto giovane per un matrimonio e che vi era una notevole differenza di età tra lei e il Principe, che le si proponeva come sposo. Al momento il Re aveva dato consigli alla principessa in favore del matrimonio, ma ciononostante aveva ritenuto dover lasciare libera sua figlia di pronunciarsi secondo la coscienza ed il suo cuore.
La principessa, interpellata poi dal Re suo padre, aveva dichiarato che non aveva alcuna pregiudiziale a farlo, se non fosse il pensiero di sua sorellina per la sua promessa, alla madre moribonda, di non abbandonarla prima di una certa età. La principessa pensa che la casa di V.M. sia troppo gloriosa […], perché Lei non si consideri grandemente onorata della proposta che Le è stata fatta. Ma, alla fine dei conti, si trattava del suo avvenire e Lei desiderava, prima di prendere una decisione definitiva, vedere da vicino e conoscere un po’ l’uomo che Le si voleva donare in sposo, tanto più che le informazioni che le erano giunte su di lui non erano favorevoli[283].
Nigra seppe tenere un linguaggio efficace e deciso, ma allo stesso tempo rispettoso del suo interlocutore e molto misurato. Questo discorso aveva una serie di obiettivi: innanzitutto spiegare in modo diretto e chiaro quali fossero le posizioni del Re e di sua figlia Clotilde e che esse non fossero altro che dettate da prudenza e cautela: dopo tutto, la principessa non aveva ancora prestato il suo consenso, sicché era auspicabile premunirsi nel caso in cui, una volta incontrato il principe Napoleone, avesse deciso di non sposarsi; in secondo luogo, bisognava «far pesare adeguatamente la concessione che il Re faceva all’Imperatore accordando a suo cugino la mano della principessa»[284]; da ultimo, Nigra voleva appurare che queste nozze fossero sinceramente volute da Napoleone III, il quale ribadì, nuovamente, che non ne desiderava di altre[285].
Il progetto matrimoniale stava, dunque, prendendo forma, ma persisteva ancora il rischio che, in ultimo, Clotilde rifiutasse di sposarsi. Perciò, gli ultimi due mesi del 58 trascorsero in fervidi preparativi e fu convenuto che il principe Napoleone giungesse a Torino verso la metà di gennaio per incontrare la sua futura sposa e formularle la proposta di matrimonio. Così avvenne: seguito da una delegazione imperiale, Gerolamo Bonaparte si presentò alla Corte sabauda e tenne un comportamento che colpì positivamente tanto il Re, quanto la principessa, la quale sciolse la riserva e accettò di sposarsi. Siccome Clotilde aveva acconsentito alle nozze, si ritenne opportuno provvedere tempestivamente alla stipulazione formale dell’alleanza, mediante la sottoscrizione delle Convenzioni politica, militare e finanziaria, prima della celebrazione del matrimonio[286].
La cerimonia nuziale si svolse il 30 gennaio, nella cappella reale di San Lorenzo in piazza Castello, a Torino, e dopo tre giorni gli sposi partirono per Parigi.
3.5 La firma del trattato di alleanza e l’inizio della guerra
All’inizio del nuovo anno, la missione diplomatica di Nigra non era ancora terminata. Il 1° gennaio, infatti, si trovava nuovamente a Parigi per un ultimo incontro con Napoleone III, prima della visita di suo cugino a Torino. Quel colloquio aveva due scopi: concordare i dettagli del viaggio del principe, che si presentava a chiedere la mano della sposa, mentre il generale Niel perfezionava i termini dell’alleanza; discutere il testo di apertura del nuovo anno parlamentare che Vittorio Emanuele avrebbe pronunciato alle Camere il 10 gennaio: «nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi[287]». Questo discorso ebbe grande successo, proprio per quell’espressione «grido di dolore» che suscitò nell’opinione pubblica commenti entusiastici e che fu ideata da Napoleone III, il quale aveva apportato della modifiche al testo originario redatto da Cavour.
A questo punto, la missione di Nigra a Parigi poteva considerarsi conclusa, e anche con successo, dal momento che era stato in grado di negoziare con l’Imperatore dei francesi un’alleanza indispensabile alla causa italiana, sicché il 13 gennaio, in procinto di lasciare Parigi, precedendo il principe Napoleone a Torino, scriveva a Cavour:
Qui termina la mia missione. Essa non è sempre stata facile, né comoda. Ma io ho trovato nella fiducia del Re e di V. E., e nella mia profonda devozione alla nobile causa italiana, la forza necessaria per adempierla degnamente e con coraggio. Io ho la coscienza di avere fatto tutto il mio dovere. Io l’ho informata di tutto ciò che sono venuto a sapere e di ciò che ho creduto di potere indovinare, ed ho tenuto, povero ed oscuro impiegato,
all’Imperatore ed al Principe, un linguaggio che molti ambasciatori non avrebbero avuto il coraggio di tenere. Ecco infine il Principe a Torino munito di istruzioni e di pieni poteri dall’Imperatore[288].
Qualche giorno più tardi Gerolamo Napoleone giunse a Torino e, essendo stato gradito a Clotilde, iniziarono i preparativi del matrimonio. Contestualmente furono firmate le convinzioni politica, militare e finanziaria.
A questo punto, non restava che occuparsi di come generare il conflitto. Per questa ragione, Nigra fu inviato a Parigi alla fine di febbraio, insistentemente richiesto dal principe, col quale i rapporti si incrementarono. L’obiettivo di questa nuova missione era quello di trovare il modo di indurre l’Austria a compiere un atto di aggressione ai danni del Regno di Sardegna e, nel medesimo tempo, bisognava adoperarsi per neutralizzare le pressioni diplomatiche di tutta l’Europa, avversa all’imminente guerra e pronta a tutto pur di evitarla. Furono, pertanto, mesi di intensa e laboriosa attività diplomatica per Nigra, che continuava ad operare in veste non ufficiale, sebbene la segretezza del suo incarico era venuta meno, essendo diventato impossibile giustificare la sua continua presenza alla Corte imperiale[289].
Nonostante tutto, Cavour rimase convinto della necessità di lasciare il giovane diplomatico a Parigi, ipotizzò di nominarlo consigliere di legazione, così da attribuirgli una veste ufficiale agli occhi della diplomazia francese ed europea, e di sollevare dall’incarico il rappresentante sardo Pes di Villamarina, in quanto non si dimostrava all’altezza di gestire la delicata situazione che si era generata a livello internazionale a seguito della proposta russa, di indire un Congresso fra le grandi Potenze per risolvere in modo non cruento la questione italiana, accettata dagli altri Stati compresa la Francia, la quale non voleva inimicarsi un’Europa intera[290].
Nigra rifiutò la promozione, dimostrando di possedere grande realismo, oltre alle numerose qualità che gli avevano permesso di avere successo durante le sue missioni. Egli riteneva che, per agire sullo spirito dell’Imperatore e persuaderlo a proseguire l’impresa che stavano costruendo da mesi, fosse necessario un personaggio autorevole, di solida esperienza e di alta posizione sociale e finanziaria[291]. Ciononostante, rimase a Parigi e in continuo contatto con Napoleone e riuscì a procurare a Cavour un incontro con lui verso la fine di marzo per cercare di trovare una soluzione al problema dell’indicendo Congresso. Nel frattempo, però, l’Austria commise inaspettatamente un errore politico: inviò al Regno di Sardegna un ultimatum con cui richiedeva, entro tre giorni, il disarmo dei contingenti militari piemontesi, pronti ad entrare in guerra, nonché lo scioglimento dei corpi volontari, che da tutta Italia giungevano in Piemonte ad arruolarsi. Questo costituì il casus belli che Cavour disperatamente cercava e che fece scattare la clausola di intervento della Francia a fianco del Regno di Sardegna. Così, il 27 aprile 1858 iniziava formalmente la seconda guerra d’indipendenza[292].
In chiusura, riportiamo il testo delle Convenzioni siglate fra Regno di Sardegna e Francia[293], frutto della laboriosa e difficile attività politico – diplomatica dispiegata dal binomio Cavour – Nigra per tutto il 1858:
Convenzione Segreta Tra Il Re E L’imperatore
Lo stato critico dell’Italia, essendo di natura tale da far prevedere complicazioni che potrebbero dare al Piemonte ragioni legittime di invocare l’appoggio della Francia, l’Imperatore dei Francesi ed il Re di Sardegna hanno deciso di concertarsi anticipatamente in previsione di queste eventualità, e dopo aver deliberato, hanno deciso i seguenti articoli:
Articolo 1
Nel caso che, a seguito ad un atto aggressivo dell'Austria, venisse dichiarata una guerra tra il Re di Sardegna e l'Imperatore d'Austria, sarà conclusa un’Alleanza Offensiva e Difensiva fra S.M. l'Imperatore dei francesi e S.M. il Re di Sardegna.
Articolo 2
Lo scopo dell'Alleanza sarà quello di liberare l'Italia dall'occupazione austriaca, di soddisfare i voti delle popolazioni e di prevenire il ritorno di complicazioni che darebbero luogo alla guerra e che metterebbero senza fine pericolo il resto dell’Europa, costituendo, se l'esito della guerra lo permetterà, un Regno dell'Alta Italia di circa undici milioni di abitanti.
Articolo 3
In nome dello stesso principio il Ducato di Savoia e la Provincia di Nizza saranno riuniti alla Francia.
Articolo 4
Quale sia il corso degli avvenimenti ai quali la guerra potrà dar luogo, è espressamente stipulato, nell'interesse della religione Cattolica, che la Sovranità del Papa sarà mantenuta.
Articolo 5
Le spese della guerra saranno a carico dal Regno dell'Alta Italia.
Articolo 6
Gli H.H.P.P.C.C si impegnano a non accogliere alcuna iniziativa né alcuna proposta tendente alla cessazione delle ostilità senza aver preventivamente concordato la risposta.
Convenzione Militare
Nel caso in cui, conformemente alle previsioni della Convenzione segreta firmata il 12 dicembre 1858 tra S.M. l’Imperatore dei Francesi e S.M. il Re di Sardegna, un'Alleanza Offensiva e Difensiva verrà conclusa tra le suddette Maestà, la Convenzione militare, le cui clausole sono indicate nel seguito, sarà annessa al Trattato di Alleanza offensiva e difensiva.
Articolo 1
Le forze dell’Alleanza in Italia saranno portate a circa 300.000 uomini, di cui 200.000 Francesi, 100.000 Italiani.
Una flotta nell'Adriatico asseconderà le operazioni dell'armata di terra.
Articolo 2
Le Province italiane, successivamente occupate dalle forze alleate, saranno dichiarate in stato di assedio.
I poteri pubblici verranno costituiti da Sua maestà il Re di Sardegna e funzioneranno a suo nome.
Articolo 3
L’unità di comando essendo una condizione indispensabile del successo, il Comando supremo sarà esercitato da S.M. l'Imperatore dei Francesi e, in caso di assenza dell'Imperatore, da colui che verrà designato da Egli stesso.
Articolo 4
L'incorporazione delle reclute e dei volontari nell'Armata sarda si farà in modo tale da non presentare al nemico che truppe istruite e ben disciplinate.
Articolo 5
L’Armata francese sarà approvvigionata sia tramite magazzini organizzati anticipatamente, sia da requisizioni fatte sui luoghi dalle Autorità del Paese, sia da parte di forniture fatte dagli abitanti, e che saranno loro pagate in contanti.
Articolo 6
Genova sarà la principale piazza di deposito e approvvigionamento dell’Armata francese. A questo scopo il Governo sardo metterà a disposizione dell’amministrazione francese tutti gli edifici necessari per i suoi magazzini e ospedali.
Articolo 7
Le requisizioni fatte sui luoghi saranno constatate secondo le modalità della contabilità francese. Dei Commissari sardi, aggregati all’Armata francese, faciliteranno la copertura di queste requisizioni, indicando il valore secondo i prezzi di acquisto del Paese, e ne seguiranno la contabilità.
Convenzione finanziaria
Nel caso in cui, conformemente alle previsioni della Convenzione segreta firmata il 12 dicembre 1858 tra S.M. l’Imperatore dei Francesi e S.M. il Re di Sardegna, un’Alleanza offensiva e difensiva verrà ad essere conclusa tra le dette Maestà, una Convenzione finanziaria, le cui clausole sono indicate nel seguito, sarà annessa al Trattato di Alleanza offensiva e difensiva.
Articolo 1
Tutte le spese di guerra in Italia saranno rimborsate alla Francia a mezzo di annualità equivalenti alla decima parte di tutte le entrate di qualsiasi natura percepite nel nuovo Regno dell'Alta Italia.
Articolo 2
Le forniture, fatte dal Governo francese per le necessità dell’Armata sarda, saranno verbalizzate da Buoni rilasciati dalle Autorità sarde.
Al momento del regolamento dei conti tra i due Governi, il valore delle varie forniture sarà determinato di comune accordo, e i Buoni saranno scambiati come valore in contanti.
Articolo 3
Il prodotto delle imposte di guerra, prelevate dalle Autorità nelle Provincie occupate, sarà diviso in due parti uguali: l’una sarà versata nelle casse dell’Armata francese e conterà come riduzione delle spese di guerra; l’altra sarà devoluta alle necessità del Paese e alle spese dell’Armata sarda.
Dei Commissari francesi constateranno l’esecuzione di queste stipulazioni.
Articolo 4
Una Commissione mista, composta di sette membri, liquiderà i debiti di guerra. Tre membri saranno nominati dal Governo francese.
Tre membri saranno nominati dal Governo sardo.
Un membro, che fungerà da Presidente, sarà nominato di comune accordo dai due Governi.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Fra marsine e merletti. Viaggio diplomatico a Plombières, a cura di Vittorio G. Cardinali, Beinasco, 2010.
AA. VV., La Restaurazione in Italia, strutture e ideologie. Atti del XVLII Congresso di storia del Risorgimento italiano (Cosenza 15 – 19 settembre 1974), Roma, 1976.
AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, Bologna, 2008.
AA.VV., Sir James Hudson nel Risorgimento italiano, a cura di Edoardo Greppi e Enrica Pagella, Torino 2012.
R. Albrecht – Carrié, Storia diplomatica dell’Europa: dal Congresso di Vienna ad oggi, Bologna 1964.
L. Bonanate, Costantino Nigra nella costruzione dello Stato italiano, in www.costantinonigra.eu/images/VARIE/nigra%20nella%20costruzione%20stato%20italiano.pdf.
L. Bonanate, Storia internazionale: le relazioni tra gli Stati dal 1521 al 2009, Milano 2010.
P. Borelli, Costantino Nigra: il Diplomatico del Risorgimento, Cavallermaggiore, 1992.
M. Brignoli, Cavour e l’Unità d’Italia, in http://www.ateneo.brescia.it/controlpanel/uploads/supplementi-ai-commentari/S-2015b-12%20Brignoli. pdf.
P. Campanella, Costantino Nigra, Torino, 1961.
P. Casana Testore – N. Nada, L’età della Restaurazione. Reazione e rivoluzione in Europa, 1814 – 1830, Torino, 1981.
C. Cavour, L’Epistolario, Vol. XIII, 1856, in 2 tomi, a cura di C. Pischedda e E. Mangosio, Firenze, 1992; Vol. XIV, 1857, in 2 tomi, a cura di C. Pischedda e R. Roccia, Firenze 1994; Vol. XV, 1858, in 2 tomi, a cura di C. Pischedda, Firenze, 1998.
F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Roma, 1997.
G. Falzone, Il Congresso di Parigi e i fatti di Sicilia del 1856, Trapani, 1959.
R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, Torino, 2017.
R. Favero, Io Costantino Nigra. L’unità d’Italia narrata da un protagonista dimenticato dalla Storia, Chieri, 2006.
R. Favero, Verità e segreti di storia risorgimentale nella corrispondenza di Costantino Nigra, Torino, 2013.
C. Focarelli, Introduzione storica al diritto internazionale, Milano, 2012.
Rita Giacomino – Ezio Girardi, Costantino Nigra al servizio di Sua Maestà. Diplomatico, poeta e ricercatore dei Canti Popolari del Piemonte, Torino, 2011.
M. Giorda, Costantino Nigra la vita e le opere, a cura del Comitato promotore Canavesano, 1957.
R. Giusti, Dal Congresso di Parigi al 1859, Mantova, 1971
Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, a cura della R. Commissione editrice, Vol. I, II, III, IV, Bologna, 1926 – 1929.
U. Levra, Costantino Nigra (1828 – 1907), Torino, 2008.
U. Levra, Fare gli Italiani, Torino, 1992.
D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Roma, 2011.
W. Maturi, Costantino Nigra secondo il Carteggio col Cavour, Pinerolo, 1930.
R. Moscati, La diplomazia europea e il problema italiano del 1848, Firenze, 1942.
P. Notario – N. Nada, Il Piemonte sabaudo dal periodo napoleonico al Risorgimento, Vol. VIII, in 2 tomi, Torino, 1993.
D. Orsi, Il mistero dei «ricordi diplomatici» di Costantino Nigra, Roma, 1928.
G. S. Pene Vidari, Un secolo e mezzo fa (22 gennaio 1851): la lezione torinese di Pasquale Stanislao Mancini sulla nazionalità, in «Studi piemontesi», XXXI, 2002.
A. Rapisardi – Mirabelli, Storia dei trattati e delle relazioni internazionali, Milano, 1940.
R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Vol. III, 1854 – 1861, Roma, 1984.
M. Soresina, L’età della Restaurazione, 1815 – 1860: gli stati italiani dal Congresso di Vienna al crollo, Milano, 2015.
F. Valsecchi, L’Italia del Risorgimento e l’Europa della nazionalità: l’unificazione italiana nella politica europea, Milano, 1978.
[1]R. Albrecht-Carrié, Storia diplomatica d’Europa dal Congresso di Vienna ad oggi, Bari 1978, p. 21.
[2] Ibidem
[3] L. Bonanate, Storia internazionale. Le relazioni fra gli Stati dal 1521 al 2009, Milano 2010, pp. 130 – 132.
[4] Ivi, p. 133.
[5]Ivi, p. 134.
[6] R. Albrecht-carrié, op. cit., p. 24.
[7] Ivi, p. 25.
[8] L. Bonanate, op. cit., p. 137.
[9] Ivi, pp. 137-138.
[10] Con la precisazione che la Francia partecipava a pieno titolo ai lavori del Congresso e ai processi decisionali, ma fu ammessa formalmente al “concerto” delle altre quattro grandi Potenze soltanto nel 1818.
[11]C. Focarelli, introduzione storica al diritto internazionale, Milano, 2012, pp. 274 – 275; cfr. anche P. Casana Testore - N. Nada, L’età della Restaurazione. Reazione e rivoluzione in Europa 1814 – 1830, Torino 1981 pp. 28 segg.; A. Rapisardi – Mirabelli, Storia dei trattati e delle relazioni internazionali, Milano, 1945, pp. 179 segg.
[12] C. Focarelli, op. cit., p. 274.
[13] Ibidem
[14] L. Bonanate, op. cit. p. 164
[15] Ivi, p. 165; M. Soresina, L’età delle restaurazione (1815-1860). Gli Stati italiani dal Congresso di Vienna al crollo, Milano, 2015, p. 11.
[16] M. Soresina, op. cit. p. 11.
[17] L. Bonanate, op. cit. p. 165.
[18] Ivi, 170.
[19] R. Albrecht-Carrié, op. cit. p. 29.
[20] P. Casana Testore - N. Nada, op. cit., p. 28.
[21] Non esiste una definizione generale di “grande Potenza”. In linea di principio, si dice che uno Stato ha tale rango quando gli altri glielo riconoscono. La “Potenza” ha interessi generali, nel senso che «ha automaticamente una voce in tutte le questioni, diversamente da una potenza di rango inferiore o potenza con interessi limitati». (R. Albrecht - Carrié, op. cit., p. 44).
[22] Così definita da Rapisardi nella Storia dei trattati e delle relazioni internazionali.
[23] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 28.
[24] A. Rapisardi – Mirabelli, op. cit., p. 178.
[25] A. Rapisardi – Mirabelli, op. cit., p. 184.
[26] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 30; R. Albrecht – carrié, op. cit., p. 30.
[27] R. Albrecht – Carrié, op. cit. p. 47.
[28] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 34.
[29] Ibidem.
[30] R. Albrecht – Carrié, op. cit., p. 30.
[31] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 30.
[32] R. Albrecht – Carrié, op. cit., pp. 30 – 31.
[33] A. Rapisardi – Mirabelli, op. cit., p. 181.
[34] L. Bonanate, op. cit., p. 171.
[35] Ivi, pp. 170 – 171; cfr. anche R. Albrecht – Carrié, op. cit., pp. 32 – 33; P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 30.
[36] L. Bonanate, op. cit., p. 171.
[37] R. Albrecht – carrié, op. cit., p. 34; cfr. anche P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 30; L. Bonanate, op. cit., p. 171.
[38] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 30.
[39] R. Albrecht – Carrié, op. cit., p. 33.
[40] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit. p. 31.
[41] L. Bonanate, op. cit., p. 172.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem; P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 31.
[44] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit. p. 31.
[45] L. Bonanate, op. cit., p. 171 – 172.
[46] Ivi, p. 173.
[47] Ibidem.
[48] Ibidem.
[49] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 31.
[50] Ivi, p. 33.
[51] Ivi, p. 31.
[52] R. Albrecht – Carrié, op. cit., pp. 43 – 44.
[53] C. Focarelli, op. cit., p. 275.
[54] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 34.
[55] L. Bonanate, op. cit., p 172; A. Rapisardi – Mirabelli, op. cit., p. 182; C. Focarelli, op. cit., p. 274.
[56] R. Albrecht – Carrié, op. cit., p. 39.
[57] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 35.
[58] Ivi, p. 34
[59] R. Albrecht – Carrié, op. cit., p. 39.
[60] Ibidem.
[61] P. Casana Testore – N. Nada, op. cit., p. 35; C. Focarelli, op. cit., p. 275; A. Rapisardi – Mirabelli, op. cit., p. 183.
[62] C. Focarelli, op. cit., p. 276.
[63] M. Soresina, op. cit., p. 15.
[64] Il Regno di Sardegna comprendeva il Piemonte, la Savoia, la Valle d’Aosta e l’isola di Sardegna.
[65] Lo Stato Pontificio comprendeva il Lazio, l’Emilia e la Romagna, l’Umbria, le Marche e altri possedimenti in Francia e nel Regno di Napoli.
[66] Le Province Illiriche erano costituite dai territori dell’Istria, della Dalmazia, Trieste e Gorizia.
[67] M. Soresina, op. cit., pp. 11 – 13.
[68] AA.VV., La Restaurazione in Italia, strutture e ideologie. Atti del XVLII Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Cosenza, 15 – 19 settembre 1974), Roma, 1976, p. 99.
[69] Ibidem.
[70] Ibidem.
[71] Ibidem.
[72] M. Soresina, op. cit., p. 15.
[73] Per farlo aveva intenzione di abolire la «secondogenitura» lorenese. Così, alla morte di uno dei due fratelli, i troni di Toscana e Austria si sarebbero uniti, sotto un’unica Corona. Leopoldo era contrario a questa decisione perché sosteneva che una tale mossa avrebbe suscitato antipatie nelle Corti borboniche.
[74] AA.VV., La Restaurazione in Italia, strutture e ideologie. Atti del XVLII Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Cosenza, 15 – 19 settembre 1974), Roma, 1976, pp. 105 – 110.
[75] M. Soresina, op. cit., p. 15.
[76] Ibidem.
[77] Ivi, p. 17.
[78] Ivi, p. 18.
[79] Ivi, p. 19.
[80] U. Levra, Costantino Nigra (1828 – 1907), Torino, 2008, p. 7.
[81] M. Giorda, Costantino Nigra, a cura del Comitato promotore Canavesano, 1957, p. 9.
[82] W. Maturi, Costantino Nigra secondo il carteggio col Cavour, Pinerolo, 1930, p. 2.
[83] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, a cura di Umberto Levra, Bologna, 2008, p. 35 e p. 53.
[84] F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Roma 1997, p. 601.
[85] U. Levra, op. cit., p. 54.
[86] AA.VV, l’opera politica di Costantino Nigra, pp. 25 - 26
[87] W. Maturi, op. cit., p. 11.
[88] Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, a cura della R. Commissione editrice, Vol. IV, Bologna, 1929, p. 349.
[89] U. Levra, op. cit., p. 67; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 27.
[90] U. Levra, op. cit., p. 70.
[91] W. Maturi, op. cit., p. 2.
[92] Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 168.
[93] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo: L’unità italiana rivive nel Carteggio Cavour – Nigra dalla viva voce dei protagonisti, Torino, 2017, p. 9.
[94] AA. VV, L’opera politica di Costantino Nigra, p. 28.
[95] Ivi, p. 38.
[96] Ivi, pp. 26 – 27.
[97] Ivi, pp. 28 – 29.
[98] U. Levra, op. cit., p. 70.
[99] Ibidem.
[100] Ivi, p. 71; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 30.
[101] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 31.
[102] U. Levra, op. cit., p. 74.
[103] P. Campanella, Costantino Nigra, Torino, 1961, pp. 5, 8; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra. L’unità d’Italia narrata da un protagonista dimenticato dalla storia, Chieri, 2006, pp. 27 segg.
[104] W. Maturi, op. cit., p. 8.
[105] Emanuele d’Azeglio fu, dal 1850 al 1868, ministro plenipotenziario a Londra del Regno di Sardegna, prima, e d’Italia dopo.
[106] W. Maturi, op. cit., pp. 8 – 9.
[107] Ivi, p. 9; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 111.
[108]W. Maturi, op. cit., p. 9.
[109] F. Chabod, op. cit., p. 603.
[110] Ivi, p. 605.
[111] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 31 – 32; cfr. anche W. Maturi, op. cit., p. 9.
[112] W. Maturi, op. cit., p. 10.
[113] Ibidem; cfr. anche F. Chabod, op. cit., p. 603.
[114] F. Chabod, op. cit., p. 605.
[115] U. Levra, op. cit., p. 75.
[116] Ivi, p. 76.
[117] F. Chabod, op. cit., 608.
[118] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 32.
[119] U. Levra, op. cit., p. 76.
[120] F. Chabod, op. cit., p. 609.
[121] Ivi, p. 610
[122] Ivi, p. 611.
[123] Ivi, pp. 612 – 613.
[124] Ivi, p. 607.
[125] Ibidem.
[126] U. Levra, Fare gli italiani, Torino, 1992, p. 209.
[127] Ivi, pp. 199 – 202, 209 – 210.
[128] Nicomede Bianchi (Reggio nell’Emilia 1818 – Torino 1886) fu uno storico, originario dell’Emilia, esule a Torino nel 1849 a seguito dei conflitti di quegli anni.
[129] U. Levra, ult. op. cit., p. 276 e pp. 204 – 206, 208 – 218.
[130] Luigi Chiala (Ivrea 1834 – Roma 1904) fu uno scrittore e politico italiano. È noto per aver pubblicato circa 30 dettagliati volumi di storia del Risorgimento.
[131] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 33 – 34.
[132]Ivi, pp. 35 – 36.
[133]U. Levra, ult. op. cit., pp. 278 – 279.
[134]D. Orsi, Il mistero dei «ricordi diplomatici» di Costantino Nigra, Roma, 1928, p. 146.
[135] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra., pp. 39 – 40.
[136] F. Chabod, op. cit., p. 753.
[137] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 38.
[138] Ivi, p. 53.
[139] M. Giorda, op. cit., p.5.
[140] U. Levra, Costantino Nigra (1828 – 1907), p. 11.
[141] Ivi, pp. 11 – 12; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p.5; P. Campanella, op. cit., pp. 4 – 5; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 14 – 17 e p. 21.
[142] Lo scopo del gioco era quello di lanciare un pezzo di legno il più lontano possibile, colpendolo con un bastone.
[143] M. Giorda, op. cit., p. 6; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, p. 20.
[144]M. Giorda, op. cit., p. 70; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra., p. 107, 158 e pp. 167 – 168; R. Favero, Da Plombières alla Pace di Zurigo, p. 98 e passim.
[145] F. Chabod, op. cit., p. 602.
[146] M. Giorda, op. cit., p. 71.
[147] Ibidem.
[148] U. Levra, op. cit., p. 26; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p 10; P. Campanella, op. cit., p. 11.
[149] M. Giorda, op. cit., p. 69 e 72.
[150] Vedi paragrafo precedente.
[151] M. Giorda, op. cit., p. 72.
[152] U. Levra, op. cit., pp. 12 – 13; cfr. anche R. Favero, Io, Costantino Nigra, p. 22; M. Giorda, op. cit., p. 6; P. Campanella, op. cit., p. 5.
[153] P. Campanella, op. cit., p. 4.
[154] U. Levra, op. cit., p. 13.
[155] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 67 – 68.
[156] Ivi, pp 64 – 65 e 70; cfr. anche U. Levra, op. cit., pp 13 – 14; R. Favero, Io Costantino Nigra pp. 32, 41 e passim.
[157] U. Levra, op. cit., p. 16.
[158] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 99.
[159] U. Levra, op. cit., p. 17; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p. 7; P. Campanella, op. cit., p. 8.
[160] Costantino Nigra fu un validissimo letterato e scrittore. Coltivò la passione per le lettere e le lingue per tutta la vita. Non è questa la sede in cui approfondire questo aspetto del personaggio, ma ciononostante è doveroso farlo presente.
[161] U. Levra, op. cit., pp. 17 – 18.
[162] U. Levra, op. cit., p. 18; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 50 – 51.
[163] U. Levra, op. cit., p.23; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 51 – 53.
[164] P. Campanella, op. cit., p. 9; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p. 9.
[165] U. Levra, op. cit., p. 23.
[166] P. Campanella, op. cit., p. 9.
[167] Ibidem.
[168] M. Giorda, op. cit., p. 9.
[169] Ibidem; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 54 – 56.
[170] P. Campanella, op. cit., p. 10.
[171] U. Levra, op. cit., p 24.
[172] Ibidem.
[173] P. Campanella, op. cit., p. 10.
[174] R. Favero, Da Plombiéres alla pace di Zurigo, p. 64; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 168.
[175] U. Levra, op. cit., pp. 27 – 28.
[176] P. Campanella, op. cit., p. 10.
[177] U. Levra, op. cit., p. 28.
[178] Ivi, pp. 30 – 31.
[179] Ivi, p. 31.
[180] U. Levra, op. cit., p. 31; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 12; AA.VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 114 – 115; P. Notario – N. Nada, Il Piemonte sabaudo dal periodo napoleonico al Risorgimento, Torino, 1993, pp. 398 – 399.
[181] La Legazione era una sede di rappresentanza priva di Ambasciatore, dotata solamente di un inviato straordinario e Ministro plenipotenziario che, all’epoca era il marchese Salvatore Pes di Villamarina.
[182] R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 83 – 84; cfr. anche U. Levra, op. cit., p. 24.
[183] P. Campanella, op. cit., p. 11; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, p. 87.
[184] Ibidem.
[185] U. Levra, op. cit., p. 32; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 87 – 89.
[186] P. Campanella, op. cit., pp. 12 – 13; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 89 – 90; AA.VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 115 – 116; P. Notario – N. Nada, op. cit., p. 399.
[187] U. Levra, op. cit., p. 36; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 13 – 14; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 100 – 101; F. Valsecchi, L’Italia del Risorgimento e l’Europa delle nazionalità: l’unificazione italiana nella politica europea, Milano, 1978, pp. 264 – 265.
[188] U. Levra, op. cit., pp. 35 – 36; cfr. anche D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Roma, 1999, p. 298.
[189] P. Campanella, op. cit., p. 13; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., pp. 260 e 264.
[190] F. Valsecchi, op. cit., p. 264.
[191] U. Levra, op. cit., pp. 36 – 37; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., p. 264.
[192] Al palazzo delle Tuileries sedeva la Corte di Napoleone III.
[193] U. Levra, op. cit., p. 37; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., pp. 264 – 265.
[194] F. Valsecchi, op. cit., p. 266.
[195] Ivi, p. 263.
[196] D. Mack Smith, op. cit., pp. 296 segg.; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., pp. 267 – 268; AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 117; AA. VV., Fra marsine e merletti. Viaggio diplomatico a Plombières, a cura di Vittorio G. Cardinali, Beinasco, 2010, p. 15; P. Notario – N. Nada, op. cit., pp 399 – 400.
[197] D. Mack Smith, op. cit., p 299; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., pp. 269 – 270; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 105 – 106.
[198] U. Levra, op. cit., p. 40.
[199] Ibidem.
[200] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 116; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, p. 107; U. Levra, op. cit., p. 43.
[201]AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 15 – 16 .
[202] P. Notario – N. Nada, op. cit., pp. 400 – 401 e 413; U. Levra, op. cit., p. 46.
[203] Luciano Murat era figlio di Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone I.
[204] U. Levra, op. cit., pp. 46 – 47; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., pp. 281 – 282; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 112 – 113.
[205] C. Cavour, Epistolario, vol. XIII, 1856, in 2 tomi, a cura di C. Pischedda e L. Sarcinelli, Firenze, 1992, pp. 884 – 886.
[206] Daniele Manin fu un esule italiano. Dopo la disfatta di Venezia, nel 1849, si rifugiò in Francia dove si adoperò per la causa italiana. Perché prevalesse il superiore interesse dell’Italia unita, rinunciò ai suoi ideali repubblicani e si dichiarò favorevole alla costituzione di uno Stato sotto un’unica bandiera e un’unica Corona, quella dei Savoia.
[207] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 118 – 119; cfr. anche U. Levra, op. cit., pp. 47 – 48; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 116 – 118; W. Maturi, op. cit., pp. 8 – 9.
[208] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 119.
[209] P. Notario – N. Nada, op. cit., p. 414; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., p. 270; U. Levra, op. cit., p. 48.
[210] F. Valsecchi, op. cit., p. 271; cfr. anche R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 123 – 124; P. Campanella, op. cit., pp. 16 – 17.
[211] F. Valsecchi, op. cit., p. 272.
[212] Ibidem.
[213] F. Valsecchi, op. cit., p. 273; cfr. anche P. Notario – N. Nada, op. cit., p. 415; U. Levra, op. cit., pp. 48 – 49.
[214] Vedi nota 212.
[215] U. Levra, op. cit., pp. 49 – 50; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 119 – 120; F. Valsecchi, op. cit., pp. 276 – 277; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Vol. III 1854 – 1861, Roma, 1984, pp. 446 – 447.
[216] M. Giorda, op. cit., p. 10; cfr. anche W. Maturi, op. cit., p. 2.
[217] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp., 154 – 155; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 120 – 121; D. Mack Smith, op.cit., pp. 336 – 338.
[218] Da settembre a dicembre 1858.
[219] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 18 e 29; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 121.
[220] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 156 – 158.
[221] Ivi, pp. 19 – 20 e 29; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., p. 278
[222] R. FAVERO, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 29.
[223] A quel tempo, Massa e Carrara facevano parte del Ducato di Modena e Reggio, il cui sovrano era Francesco V di Modena, discendente di Maria Teresa d’Austria. Egli non voleva riconoscere Napoleone come imperatore dei Francesi ed è proprio sfruttando questo rifiuto che Cavour individuò il pretesto di guerra, così come verrà spiegato di seguito nella tesi.
[224] D. Mack Smith, op. cit., pp. 339 – 340; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., p. 280.
[225] R. FAVERO, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 170; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. II, p. 51.
[226] Le popolazioni del Lombardo-Veneto chiedevano, con insistenza crescente, la liberazione dall’Austria. Cfr. P. Campanella, op. cit., pp. 19 – 21; AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 127 – 128.
[227] R. FAVERO, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 206; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p. 17.
[228] Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. II, p. 114.
[229] Ivi, p. 33; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., p. 342.
[230]Cavour faceva tenere armate le truppe militari sul fronte, nel caso la guerra fosse scoppiata all’improvviso, considerato il clima di tensione di quei mesi.
[231] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 36 – 38; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 127 segg.; P. Notario, op. cit., pp. 418 – 419.
[232] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 30 – 31; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., pp. 340 – 341.
[233]F. Valsecchi, op. cit., pp. 280 – 281; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., pp. 340 – 341.
[234] R. FAVERO, op. cit. p. 32; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 106.
[235] AA. VV., Fra marsine e merletti¸ pp. 23 – 24; cfr. anche G. S. Pene Vidari, Un secolo e mezzo fa (22 gennaio 1851): la lezione torinese di Pasquale Stanislao Mancini sulla nazionalità, in «Studi piemontesi», XXXI, 2002, p. 281 e passim.
[236] D. Mack Smith, op. cit., p. 341; cfr. anche F. Valsecchi, op. cit., p. 281; U. Levra, op. cit., pp. 60 e 62.
[237] Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I. pp. 107 – 108; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., p. 342.
[238] D. Mack Smith, op. cit., pp. 342 – 343; R. Romeo, op. cit., pp. 450 – 451.
[239] R. FAVERO, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 35; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I. p. 109.
[240] D. Mack Smith, op. cit., pp. 343 – 345; F. Valsecchi, op. cit., pp. 282 – 283.
[241] P. Notario – N. Nada, op. cit., pp. 415 – 416; cfr. anche AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 20 – 21 e 158 - 159; R. ROmeo, op. cit.¸ 449 segg.
[242] AA. VV., Fra marsine e merletti, p. 8; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., p. 345; F. Valsecchi, op. cit., pp. 283 – 284.
[243] R. FAVERO, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 91; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, pp. 222 – 223.
[244] C. Cavour, Epistolario, Vol. XV, 1858, pp. 597 – 598; AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 122 – 123; cfr. anche AA. VV., Fra marsine e merletti, p. 160; U. Levra, op. cit., p. 53; P. Campanella, op. cit., p. 17.
[245] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 33 – 34.
[246] Ivi, p. 33.
[247] P. Campanella, op. cit., p. 17.
[248] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 50; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 136.
[249] Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 136.
[250] P. Campanella, op. cit., pp. 17 – 18; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p. 10; U. Levra, op. cit., p. 53.
[251] Saint Cloud era la residenza estiva dell’Imperatore.
[252] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 51
[253] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 123; cfr. anche U. Levra, op. cit., p. 53; P. Campanella, op. cit., p. 18.
[254] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 52.
[255] Ivi, pp. 52 – 53; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra, Vol. I, p. 137.
[256] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 123.
[257] Organo istituito a Vienna nel 1815 che aveva, come compito, quello di deliberare sui grandi interessi dell’Impero germanico, sui cui l’Austria aveva prevalenza.
[258] R.FAVERO, Da Plombières alla pace di Zurigo, pag. 53; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 138.
[259] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 54 – 55; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 123.
[260] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 55; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, p. 139.
[261] Ivi, p. 56; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 18.
[262] Questo argomento verrà approfondito nel prossimo paragrafo data la sua importanza.
[263] M. Giorda, op. cit., pp. 11 – 12; cfr. anche R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 62; D. Mack Smith, op. cit., pp. 345 – 346; F. Valsecchi, op. cit., p. 283.
[264] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 123 – 124; cfr. anche C. Cavour, Epistolario, Vol. XV, 1858, pp. 686 segg.; U. Levra, op. cit., p. 53; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 160 segg..
[265] Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, pp. 167 - 168; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 19.
[266] C. Cavour, Epistolario, Vol. XV, 1858, pp. 708 – 709; cfr. anche M. Giorda, op. cit., p. 12; R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 64.
[267] C. Cavour, Epistolario¸ Vol. XV, 1858, pp. 770 – 771; cfr. anche R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 75; M. Giorda, op. cit., p. 12.
[268] AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 125; cfr. anche P. Campanella, op. cit., pp. 19 – 20; M. Giorda, op. cit., p. 12.
[269] U. Levra, op. cit., p. 55; R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 103 segg.
[270] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 108 – 109; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra, Vol. I, pp. 241 segg.
[271] R. Romeo, op. cit., p. 458.
[272] Vedi nota 262.
[273] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 8 e 54; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 18; F. Valsecchi, op. cit., pp., 282 – 283; AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 122; R. Favero, Io Costantino Nigra, pp. 143 – 144; D. Mack Smith, op. cit., p. 344.
[274] F. Valsecchi, op. cit., p. 283; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., p. 344; R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 35; Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 109.
[275] F. Valsecchi, op. cit., pp. 275 e 283.
[276] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 52 – 53; cfr. anche D. Mack Smith, op. cit., pp. 344 – 345; R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 34 – 36.
[277] D. Mack Smith, op. cit., pp. 345 – 346; cfr. anche Il carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 110.
[278] D. Mack Smith, op. cit., pp. 347 – 348; cfr. anche R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 36 – 39; P. Campanella, op. cit., p. 18; F. Valsecchi, op. cit., p. 283.
[279] D. Mack Smith, op. cit., p. 348; cfr. anche Il carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 113.
[280] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 54 – 55; cfr. anche R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 42 – 43.
[281] AA. VV., Fra marsine e merletti, p. 55; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 19.
[282] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 48; cfr. anche Il carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 148.
[283] AA. VV., Fra marsine e merletti, pp. 56 – 57; cfr. anche Il carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 160; AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, p. 124.
[284] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 62; cfr. anche Il carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, p. 160.
[285] Ibidem.
[286] AA. VV., Fra marsine e merletti¸ pp. 57 – 58; cfr. anche R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 49 e 141 – 143; U. Levra, op. cit., pp. 54 – 55; M. Giorda, op. cit., p. 14; P. Notario – N. Nada, op. cit., p. 417.
[287] P. Notario – N. Nada, op. cit., p. 416; cfr. anche AA. VV., Fra marsine e merletti, p. 43; U. Levra, op. cit., p. 54; R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 129.
[288] M. Giorda, op. cit., p. 13; cfr. anche P. Campanella, op. cit., p. 24; Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, pp. 302 – 303.
[289] U. Levra, op. cit., pp 55 – 56.
[290] Vedi pp. 80 – 81 della presente tesi.
[291] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, p. 209; cfr. Anche M. Giorda, op. cit., p. 17; P. Campanella, op. cit., pp. 21 – 22; Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. II, p. 115.
[292] U. Levra, op. cit., pp. 57 – 58; cfr. anche AA. VV., L’opera politica di Costantino Nigra, pp. 128 segg.; P. Notario, op. cit., pp. 418 – 419.
[293] R. Favero, Da Plombières alla pace di Zurigo, pp. 144 – 145; cfr. anche Il Carteggio Cavour – Nigra dal 1858 al 1861, Vol. I, pp. 312 – 315.