NIGRA NELLA COSTRUZIONE DELLO STATO ITALIANO
di Luigi Bonanate
Prolusione alla Cerimonia di premiazione del Premio Costantino Nigra 2016 presso l'Associazione Filarmonica Francesco Romana di Castellamonte - sabato 11 giugno 2016
Luigi Bonanate è stato professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università di Torino; titolare anche del corso in Democratizzazione. Professore di Relazioni Internazionali, nel Corso Interateneo di Scienze Strategiche; docente di Pace e ordine internazionale nella Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale. Socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze. Ha partecipato a convegni internazionali e tenuto conferenze principalmente nel mondo ispanico. Suoi scritti sono tradotti in inglese, francese, spagnolo e russo. Editorialista di giornali quotidiani su temi come la politica estera, italiana e americana, sull'Unione Europea, sulla teoria democratica, sul terrorismo, la guerra. I principali settori di interesse sono: teoria delle relazioni internazionali; teoria democratica; filosofia morale; terrorismo. Tra le sue pubblicazioni: Etica e politica internazionale, Einaudi, Torino 1992 (trad. inglese 199, Polity Press); La guerra, Laterza, Roma-Bari 1998 (trad. portoghese Estacao Liberdade, San Paolo 2001); Il terrorismo come prospettiva simbolica, Aragno, Torino 2006 (trad. spagnola, Coyoacàn 2008); La democrazia internazionale, Un’introduzione al pensiero politico di Jacques Maritain (con R. Papini), Il Mulino, Bologna 2006, (trad. spagnola Club de lectores, Buenos Aires 2008); Le relazioni degli Stati tra diritto e politica. A proposito di Bobbio e altro, Guida, Napoli 2008; La crisi. Il sistema internazionale dopo la caduta del Muro di Berlino, Bruno Mondadori, Milano 2009; Undicisettembre. Un anno dopo, Bruno Mondadori, Milano 2011; Dipinger guerre, Aragno, Torino 2016.
I. Introduzione problematica sulla natura degli Stati
Storia delle istituzioni, analisi sociologica, interpretazione politologica, individuazione dei personaggi principali, ricerca introspettiva su essi, bilancio (vero e proprio) di una vicenda che va inquadrata nell'ampio e importantissimo capitolo di quella che gli studiosi chiamano la «formazione dello Stato», la costruzione del quale ne è la specificazione soggettiva — caso per caso. Quella che potrebbe apparire la banale vicenda della trasformazione della titolarità di diversi territori tra una casa regnante e l'altra, tra una Corona e un'Autorità religiosa, nasconde invece una grande complessità tematica, perché i fili che vi si intrecciano (legati alla politica interna tanto quanto a quella internazionale) sono molteplici e ingarbugliati.
Una premessa metodologica va comunque esposta: costruire uno Stato significa entrare, seguendone le regole e le condizioni, nella problematica della «formazione dello Stato», il quale, a sua volta impone alcune considerazioni preliminari. La prima riguarda la parola stessa: lo «Stato», così come lo intendiamo nelle nostre conversazioni, è ciò che gli studiosi definirebbero lo stato moderno — aggettivo che non ha alcuna funzione cronologica, perché non serve a distinguere un supposto stato antico o uno contemporaneo. La specificazione ha a che fare (lo dico un po' sinteticamente) con la differenza tra «Stato» e «non-Stato». In altri termini, tutti gli Stati presenti oggi nel mondo (si potrebbe forse suggerire qualche minima eccezione, in alcune situazioni centro-africane, o in quella specie di vetero-dittatura imposta in Corea del Nord da Kim Jong-un) sono «moderni» quanto alla loro struttura organizzativa e funzionale (la loro qualità e il se e il come funzionino è tutto un altro problema).
Succede sovente che lo «Stato» venga collegato alla «Nazione»: nation-state o stato nazionale sono formule sovente ricorrenti, che si riferiscono a realtà e a logiche che sono tra loro assolutamente distinte: lo Stato è una realtà materiale, la nazione è un ideale; lo Stato ha dei compiti; la nazione ha dei fini, lo Stato ha dei doveri, la nazione dei diritti. È possibile, ma non necessario, che compiti e fini si incontrino e si sommino — come vedremo tra un attimo — dando vita a quella che è una tipica forma di «costruzione dello Stato» nazionale (appunto). Ma non si tratta di un cammino obbligato. Esistono Stati che hanno una base nitidamente «nazionale» (la Francia, più di tutti, e la sua fucina è stata la Rivoluzione dell'Ottantanove), altri che non l'hanno ma non per questo ci appaiono meno solidi, come gli Stati Uniti d'America. Sarebbe interessante riflettere poi anche (ma non ne è questo il luogo) sui vari tipi di «costruzione» che nella storia abbiamo visto: quella che oggi è la Gran Bretagna nasce su un nucleo "duro", l'Inghilterra della Battaglia di Hastings (1066) e della Magna Charta (1215), per non fare che un esempio. Un altro tipo, estremamente significativo, è rappresentato dalla fuoriuscita da una condizione coloniale, come può essere stata nell'Ottocento quella dell'Argentina (ancora, un caso per tanti altri).
Un elemento fondamentale che è sempre presente nel meccanismo formativo decide della costruzione del singolo stato: si chiama «guerra». Come osserva lo studioso che più e meglio di ogni altro al mondo ha affrontato questa tematica, «la guerra ha costruito la rete degli Stati nazionali in Europa e la preparazione della guerra ha creato le strutture interne degli stati stessi» (Ch. Tilly, L'oro e la spada, Ponte alle Grazie, Firenze 1991, p. 90). Ancora più scultorea quest'altra sua affermazione: «La guerra fece lo Stato, e lo Stato fece la guerra» (Ch. Tilly, La formazione degli stati nazionali nell'Europa occidentale, Mulino, Bologna 1984, p. 44).
Il senso di queste due proposizioni è importantissimo: nessuno Stato è mai sorto «spontaneamente» e pacificamente: tutti gli Stati nascono da un conflitto (bellico) e dunque la loro costruzione avviene sempre e inevitabilmente in modo sanguinoso e violento. Ciò significa — sia detto di passaggio — che si tratta pur sempre di un momento particolarmente traumatico non soltanto per lo Stato che nasce, ma anche per quelli che lo circondano o, per dirlo in termini di maggior intensità, per quelli che lo "perdono", o che devono subire una amputazione, e via discorrendo. Arcinota quanto è, questa affermazione costituisce comunque la pietra militare a partire dalla quale qualsiasi riflessione sulla «formazione dello stato» deve essere compiuta.
È persino stucchevole che ricordiamo a tutti noi quanto ciò sia vero per il caso italiano, che siamo qui ora a contemplare e analizzare a più di 150 anni di distanza dagli eventi che lo fecero nascere, senza che per questo possiamo dirci che quel cammino si fosse allora concluso, non essendolo appieno ancora neppur oggi (in conclusione riprenderò questo tema, sempre attuale). Un’informazione. Stando ai sacri testi, la prima guerra d’indipendenza italiana costò 18.400 vittime e la seconda 22.500.
II. Entra in gioco l'Italia
Scorrendo una di quelle cartine geografiche (sovente «mute») che un tempo nelle scuole eravamo tutti abituati a far parlare di Stati, di nazioni, di confini, di fiumi e poi anche di mari e monti, percepiamo nella sua assoluta nitidezza la peculiarità oggettiva del fenomeno che stiamo analizzando.
Il pianeta terra, la nostra terra, non possiede, in natura, confini, ma soltanto pianure e montagne, mari, laghi e fiumi: su tutto ciò, nel tempo, si sono insediati raggruppamenti umani che — per sfruttare le risorse trovatevi casualmente — hanno un po’ per volta piantato steccati, costruito muri, collocato barriere e poi frontiere: ma nulla di ciò esiste in natura. È la cultura, cioè la storia umana, che ha dato vita a ciò che chiamiamo Stati e a cui assegniamo anche il nome di «nazione» oppure di «patria». Ma se è il caso a stabilire la mia patria e la mia nazionalità, quale particolare ed esclusivo affetto posso provare per esse?
L’esempio italiano è chiaro: è una costruzione avvenuta per sottrazione parziale da Stati e imperi circonvicini, con un processo storico discontinuo e incostante. Eventi che si inquadrano perfettamente nella vicenda dello Stato moderno e che nel solo XX secolo (quando il nostro caso era ormai ben concluso) hanno causato alcune ondate di nazionalizzazioni: dopo la caduta dell’impero ottomano, nella dissoluzione progressiva ma inarrestabile degli imperi britannico e francese, nell’emancipazione africana, nella scomparsa dell’Unione Sovietica e nella ridefinizione dei confini di gran parte dell’Europa asiatica e dell’Asia europea… In tutti questi casi, è stata l’idea di nazione a guidare le innovazioni, oppure l’oggetto della mobilitazione era un modo di vivere, un tipo di società, un principio politico? Si trattava, dunque, di Stati o di nazioni? Per gli abitanti dei sette Stati sovrani del 1848 — Regno di Sardegna, Regno Lombardo-Veneto, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Granducato di Toscana, Stato della Chiesa, Regno delle due Sicilie (sette Stati sovrani secondo tutti i più ordinari ma condivisi principi generali del diritto comune delle nazioni civili) — quali furono i mutamenti indotti dal voler diventare e poi dall'essere diventati parte di uno «Stato unitario»? (E si noti: dai sette di partenza non è nato un «nuovo» Stato, ma uno dei sette preesistenti ha conquistato gli altri sei.) La cacciata dell’austriaco, il superamento dei privilegi nobiliari e patrimonialistici, la laicizzazione, e l’autogoverno, lo sviluppo economico e l’industrializzazione: tutti obbiettivi che potevano essere raggiunti (e che sono stati raggiunti) in diverse parti del mondo in altrettante diverse e singolari modalità. Non era in discussione l’Italia, nella patria si cercava il buon governo, la buona vita: libertà, autogoverno e democrazia.
III. La costruzione dello stato italiano
Sullo sfondo della tematica complessiva della nozione di Stato (moderno, nazionale, ecc.), e avendo di mira la vicenda della «costruzione» dello Stato italiano nella temperie del suo «Risorgimento», dobbiamo ora calarci nella sua storia, e individuarne i momenti decisivi. Una prima e fondamentale precisazione riguarda la distinzione tra il complessivo quadro della politica internazionale europea e lo specifico caso italiano.
Il sistema politico europeo è quello uscito dalla "sistemazione" data dalle grandi Potenze che escono vincitrici (ma quanto indebolite nella loro tradizionale immagine di dominio...) dallo scontro epico con Napoleone, e nella loro intenzione di «Restaurazione» immaginano di riportare l'Europa indietro di mezzo secolo. Nell'Europa del loro cosiddetto «Concerto europeo», esse governano per mezzo del sistema dei Congressi che avrebbe dovuto di volta in volta intervenire, risolvendoli, in tutti i possibili conflitti europei. L'Europa delle Grandi potenze si trovò così ad affrontare la crisi greca tra il 1821 e il 1832 che costituì uno dei primi tasselli del puzzle ottomano che incominciava a disgregarsi; e poi la crisi dei Paesi bassi che nel 1830 produce la nascita del Belgio. La crisi successiva, il "48", data mitica (con le rivoluzioni, fallite, che scuotono l’Europa continentale — soltanto l'impero russo arriverà in ritardo), segna la fine di un mondo, quello dell'egemonia della statualità patrimonialistica e assolutista a cui sta succedendo (ma lentissimamente) lo Stato nazionale e democratico — questa, almeno, la prospettiva che orienterà la politica internazionale successiva, anche se le cose non andranno così lisce come a riassumerle sembra di poter immaginare. Il Quarantotto è il vero spartiacque della storia ottocentesca: non ci interessa, ora, nella sua grandiosità, ma nella sua posizione di termine a quo della vicenda della costruzione dello Stato italiano.
Che la Prima Guerra di Indipendenza italiana si sia risolta in una sconfitta serve a noi proprio per stabilire il piedistallo, politico, pubblico e anche retorico, su cui il progetto di trasformazione della penisola (da 7 Stati sovrani a uno solo e unitario) si sviluppa. Non dobbiamo infatti dimenticare che mai prima, nella storia, era esistita una entità unitaria e unificata nella penisola "geograficamente" italiana — cosicché non aveva torto, in effetti, Metternich quando nel 1815 osservava che «la parola Italia è una espressione geografica». Poiché la storia che a noi interessa qui ora è nitidamente delimitabile (e per quali ragioni, lo vedremo poco più avanti) come quella che va dal 1854-55 al 1861 (ovvero, dall'emergere della personalità di Costantino Nigra alla proclamazione dell'unità italiana, che per noi è però piuttosto segnata dalla data della morte di Cavour, il 6 giugno '61), non possiamo non inserire nel nostro quadro l'anello di congiunzione tra le dimensioni di politica interna (o "italiana", anche se all'inizio la parola era un po' precoce) e quelle di politica internazionale (mi si lasci dire, ratione materiae, che nella congiunzione tra "interno" ed "esterno" si realizza proprio quella condizione che dà significato alla ricerca scientifica nell'ambito della disciplina delle relazioni internazionali, che è quella che professo da 44 anni). Il trait-d'union è rappresentato da un evento internazionale di grande rilevanza, che noi assumeremo come dato, ben più che come oggetto di analisi (ma la cui importanza non deve essere sottovalutata). Si tratta naturalmente della Guerra di Crimea (1853-1856) che mette ancora una volta in campo praticamente tutti i più importanti Stati europei, la Russia contro l'Impero ottomano, la Gran Bretagna, la Francia e — quel che interessa a noi — il Regno sardo. Come ben sappiamo l'ingresso in guerra in quella circostanza fu per il Regno sardo il passo decisivo (il primo è sempre il più difficile ma il più importante) per il rientro nella grande politica internazionale dopo il fallimento dei tentativi quarantotteschi. Diciamocelo, francamente: l'idea di partecipare a una guerra soltanto e principalmente per poi poter avere «un pugno di morti per sedermi al tavolo delle trattative» (nelle parole di Mussolini che P. Badoglio riportò nelle sue memorie) non è la più nobile tra tutte quelle immaginabili...
Ma non si stupisca: la mia critica è destinata ad essere aggirata dalla constatazione che la lucida idea di Cavour non era altro che una ulteriore conferma dello spirito attribuito da sempre (e quasi per sempre) alla natura della politica internazionale: essere imprescindibilmente costituita da un istinto realistico, quello che ci guiderebbe nello svolgere quella "politica di potenza" che le nostre condizioni ci consentono. Ovvero, tutti i governi del mondo, in parte e in ogni età, si sono adeguati a questa regola, che è l'unica che tutti conoscono e — quel che più conta — l'unica che "paga" davvero! Che io dissenta da questa imposizione ovviamente non conta.
IV. I "costruttori" dello Stato
Con questo passaggio — ma senza scordare che dovremo individuare per bene quale sarà lo scopo della prima mossa compiuta dal Regno sabaudo — siamo entrati, ovviamente, in una nuova dimensione del nostro argomento, ovvero, incominciano a entrare in campo le dramatis personae che animarono la vicenda della costruzione, appunto, di quello al quale dobbiamo rivolgerci come a uno Stato nuovo che ancora — sia ben chiaro — non esisteva, al tempo che ci interessa. Abbiamo appena intravisto Cavour compiere una mossa (contribuire alla guerra in Crimea) un po' spericolata, ma tutt'altro che anodina; dobbiamo introdurre ora, almeno in termini biografici, il secondo più importante personaggio. Si tratta ovviamente di Costantino Nigra, del quale non starò naturalmente a ripercorrere biografia (1828-1907) e vicende umane; semplicemente lo collocherò nel quadro politico, strategico e diplomatico nel quale si trovò ad agire.
Nigra — chi era costui (per noi, o almeno per i più giovani)? Osserviamo innanzi tutto, e preliminarmente, che insieme a Cavour Nigra rappresenta una delle due anime che contraddistinsero lo spirito risorgimentale, quello "politico-operativo", per così dire, del tutto diverso e distinto dall'ala "politico-intellettuale", rappresentata da Mazzini e dagli altri intellettuali che discussero dell'unificazione in termini di teoria politica, prima e piuttosto che di strategie politiche e di programmi di fattibilità. Entrambe utili e nobilissime, ma diversissime — tant'è vero che non si incrociarono che raramente e marginalmente (ma questo è un argomento da storici veri e non da dilettanti come sono io).
Intanto, Nigra, ventiquattrenne, era entrato come volontario nel personale del Ministero degli Esteri nel 1852; guidato dapprima da Massimo d'Azeglio, Cavour lo utilizza formalmente per la prima volta nel 1855, per farne il suo segretario nel viaggio che compie, a partire dal 20 novembre, per tastare il terreno — in relazione alla guerra di Crimea — presso l'imperatore francese Napoleone III e la Regina d'Inghilterra, Victoria («porto con me, come segretario, un impiegato del Ministero degli Affari Esteri, il signor Nigra», scrive Cavour a Pes di Villamarina; cfr. Epistolario, vol. XII, Olschki, 1990 e sgg., p. 587). In quell'occasione, gli incontri diplomatici dovevano servire a Cavour per costruirsi una "sponda" in vista del Congresso che doveva definire la pace della guerra di Crimea (il Congresso si terrà a Parigi dal 25 febbraio al 16 aprile 1856). Non si può non constatare che il viaggio di Cavour avviene prima e non dopo della fine di quella guerra — una bella prontezza di riflessi, potremmo dire.
Abbiamo così anche l'occasione per registrare la prima visita di Nigra a Parigi, la città a cui legherà la parte più consistente e importante della sua vita successiva. Non tocca a me ora ripercorrere i momenti dell'avvicinamento tra Cavour e Nigra, ma è chiaro che tra la fine di novembre 1855 e l'inizio del '56, l'asse tra i due è ormai formato (v. al riguardo G. Talamo, Nigra, Cavour e la preparazione del '59, in U. Levra, a cura di, L'opera politica di Costantino Nigra, Il Mulino 2008). Anche se poi la partecipazione al Congresso della pace non porterà al Piemonte i vantaggi sperati, certo è che Nigra si sta in quel periodo introducendo brillantemente negli ambienti politici e mondani parigini, tanto che nel giugno 1856 già riceverà una decorazione ufficiale dello Stato francese). Ma a guardare la carriera diplomatica di Nigra, si potrebbe anche eccepire che questa, almeno fino all'Unità, non fu gran che; le sue cariche ufficiali non raggiunsero in quel periodo la nomina ad ambasciatore, che gli sarebbe spettata perché fu quella che in sostanza egli espletò. È solo dopo il periodo che ci interessa che Nigra fu Ministro Plenipotenziario a Parigi dal gennaio 1861 e in pratica fino al 1876 (ambasciatore di diritto sarà soltanto nel 1876 a San Pietroburgo). Il fatto è che — pur restando lontani dai pettegolezzi e dalle storie più meno romanzate — sappiamo che Nigra ebbe come vero compito quello di far scoccar una scintilla in Francia a favore di una futura guerra (ma tutt'altro che attesa, allora, sia ben chiaro sia da Cavour sia da Napoleone III: nessuno poteva sperare a quell'epoca che un improvviso conflitto potesse portare all'unificazione globale e automatica della penisola). Che si trattasse di convincere l'Imperatore, di affascinare l'Imperatrice, e che l'una e l'altra cosa dovessero avvenire grazie a rigorosi incontri diplomatici regolati da tradizionali cerimoniali oppure attraverso l'insorger di sentimenti di affetto, passione o amore tra le coppie che si potevano laggiù formare (anche grazie al "soccorso" della contessa di Castiglione), era tutto ciò che Nigra doveva conseguire — e vi riuscì perfettamente. Rientriamo nei ranghi della più paludata e austera norma della storia diplomatica, e concentriamoci sui passi decisivi che condurranno alla guerra del '59 e conseguentemente alla proclamazione del Regno d'Italia, il 17 marzo 1861.
V. Progetti di gloria
Il gioco, ormai, si fa duro. Risolta la questione d'Oriente (solo per il momento, e provvisoriamente), e quindi conclusasi in modo solo relativamente soddisfacente la partecipazione alla guerra in Crimea, una sola via si apriva ai "costruttori": convincere la Francia a "fare l'Italia"! Non è un po' paradossale che l'unità italiana non sia passata attraverso un puro semplice spontaneo moto di ribellione popolare ma un sapiente e astuto gioco diplomatico? Ma così fu, e Cavour seppe abilissimamente utilizzare, da quest'ultimo punto di vista, le lamentele e le proteste che da varie parti — Lombardo-Veneto, Marche, Granducato di Toscana, Napoli — si levavano contro i governi austriaco, papalino e borbonico. Su tutto, ovviamente e comprensibilmente la maliziosa intenzione di Napoleone III di surclassare l'impero austro-ungarico, contribuendo a espellerlo dalla penisola italiana, sulla quale poteva prevedere di esercitare una notevole influenza nel futuro.
Possiamo tornare ora a Cavour e Nigra. Il progetto del primo è una specie di programma intermedio, forse provvisorio, certo parziale, aperto a sviluppi imprevedibili quanto auspicati; in prima battuta, Cavour non pensava a una specie di man bassa con la quale conquistare tutta la penisola, ma a un paio, almeno, di tappe successive. Un Nigra ormai in totale sintonia con Cavour è quindi inviato a Parigi per distendere un filo diretto, ma segreto, con Napoleone III. Nigra risiede a Parigi tra febbraio e aprile 1856, e poi vi è di nuovo il 25 marzo 1858 quando incomincia a tessere la trama che dovrà condurre all'incontro segreto di Plombières tra Napoleone III e Cavour nel luglio dello stesso anno. In quegli anni (tre, in sostanza) Nigra «si rivelò un diplomatico di prima grandezza, sotto la guida di Cavour: fu quest'ultimo a "inventare" Nigra e non Massimo d'Azeglio» (così, U. Levra, in Costantino Nigra 1828-907, Comitato Nazionale per il centenario della morte di Costantino Nigra, p. 36). È evidente infatti che in quel momento in Europa non c'era nessuno Stato che avesse intenzione di immischiarsi in nuove vertenze internazionali; qualche speranza in tal senso la offriva soltanto la Francia. Precisa significativamente il quadro delle rispettive prospettive diplomatiche Umberto Levra, nella sua Presentazione alla mostra del 2008-09, p. 50.
Ma — come la scienza politica saggiamente ci insegna — uno Stato non nasce che in guerra, dunque non la pura diplomazia poteva far sperare a Cavour di trasformare la penisola in altro. Ed ecco che troviamo Cavour e Napoleone, a Plombières (1858) che, in segreto, vanno alla ricerca di una buona occasione: «Noi ci ponemmo a percorrere insieme tutti gli Stati dell'Italia, per cercarvi quelle cause di guerra così difficili a trovarsi. Dopo aver percorso mentalmente tutta la Penisola, giungemmo, per caso, a Massa e Carrara: e lì scoprimmo quello che cercavamo con tanto ardore... provocare un appello degli abitanti al Re Vittorio Emanuele II» (v. Roberto Favero, Io, Costantino Nigra, Ass. Nigra, p. 98).
Appoggiandosi agli screzi tra il Ducato di Modena e Reggio e la Francia, e provocandone il rinfocolamento, ecco apparire il casus belli, tanto artificioso quanto efficace, tant'è vero che i due (Cavour e Napoleone III) passano, a quel punto, a disegnare immediatamente il futuro della penisola: «La Valle del Po, la Romagna e le Legazioni avrebbero costituito il Regno dell'Alta Italia, sul quale regnerebbe Casa Savoia. Al Papa si conservava Roma e il territorio che la circonda. Il resto degli Stati del Papa, con la Toscana, formerebbero il Regno dell'Italia centrale. La circoscrizione territoriale del Regno di Napoli non verrebbe modificata. I quattro Stati italiani formerebbero una Confederazione a somiglianza della Confederazione Germanica, della quale sarebbe data la presidenza al Papa, per consolarlo della perdita della miglior parte dei suoi Stati. Questo assetto mi parve interamente accettabile, fatta la considerazione che il Re di Sardegna, essendo Sovrano di diritto della metà più ricca e più forte dell'Italia, sarebbe stato sovrano di fatto di tutta la Penisola» (questo è il resoconto che Nigra stese sulla base del racconto fattogli da Cavour; vedilo in R. Favero, op. cit., pp. 97 e sgg.). La stessa idea era condivisa negli ambienti patriottici. Che l'unificazione potesse avvenire per gradi piuttosto che un brusco colpo di mano (Mazzini, Garibaldi) è un'idea condivisa, tra gli altri, anche da Daniele Manin, già capo dell'insurrezione anti-austriaca di Venezia nel '48, le idee del quale Nigra riassume per Cavour nel 1857, quando informa quest'ultimo della morte del patriota veneziano, avvenuta a Parigi il 22 settembre 1857.
Se questo è il quadro politico al quale si pensa, bisogna però anche addivenire a un accordo "privato" tra i contraenti — trattativa non facile che si impernia su tre condizioni: se da una parte la Francia entra in campo a favore del Regno sardo, dall'altra e in cambio dovrà Vittorio Emanuele II concedere la figlia Clotilde in sposa a Girolamo Napoleone Bonaparte, le spese di guerra dovranno venire poi accollate alla neonata futura nuova entità statale (il Regno dell'Alta Italia), intanto che Nizza e la Savoia passeranno sotto la sovranità francese (senza contare, perché ovvio, che il nuovo Stato osservi una leale e rispettosa osservanza degli interessi internazionali francesi). Condizioni segrete, che soltanto Cavour e Nigra conoscono, discutono, trattano. Sovradetermina ogni accordo la necessità che la scintilla della guerra, per quanto auspicata dai piemontesi, non possa esser loro attribuita, ma sia fatta scoccare dall'Austria (che doveva cadere nella trappola tesale, come poi fu).
VI. L'ascesa di Nigra
Dopo l'incontro di Plombières, i contatti tra Torino e Parigi sono intrattenuti, per parte piemontese, da Nigra, al quale Cavour, in una lettera a Napoleone III, fa riferimento con queste parole: «Il sig. Nigra merita una fiducia illimitata, Io sono sicuro di lui come di me stesso» (Epistolario Cavour, vol. XV, 1858, pp. 597-98). La stella di Nigra risplende sempre più: anche Vittorio Emanuele a sentire il resoconto che Cavour gli fa sull'operato di Nigra a Parigi esclama: «Bravo, ha detto proprio quello che avrei detto Io se fossi stato là» (v. Epistolario Cavour, vol. XV, pp. 697-98 — siamo nell'ottobre 1858). E Cavour di rincalzo, a Nigra: «Non Le do ulteriori istruzioni; giacché a quest'ora ella sa condurre la barca al pari, per non dire molto meglio di me» (Epistolario Cavour, vol. XV, pp. 708-09, 9 ottobre 1858). Questa valutazione è confermata da Gerolamo Bonaparte in una lettera a Cavour: «Gli affari che noi trattiamo sono di tale importanza che io credo sarebbe utile che il signor Nigra venisse spesso a Parigi, ch'egli fosse il nostro trait d'union permanente (...). L'imperatore, voi, Nigra ed io sappiamo tutto senza eccezione» (Epistolario Cavour, vol. XV, pp. 770-71.
Verrebbe da chiedersi: ... e Vittorio Emanuele? La risposta è semplice (oltre che duplice): una, e la meno significativa dal nostro punto di vista, è che Vittorio Emanuele non avrebbe probabilmente acconsentito a ciò che invece Cavour accettò, cioé l'abbandono di Nizza e della Savoia (ma ciò è per noi, ora, irrilevante); l'altra e più illuminante è che l'intera vicenda della «costruzione dello Stato» nazionale (come abbiamo visto all'inizio) non poté essere condotta alla luce del sole, che ne avrebbe svelato trame che avrebbero fatto fallire il disegno. Ed ecco perché Nigra fu così importante: come consigliò Alessandro Bixio a Cavour (questo Bixio è il fratello del più noto a noi Nino, ma si tratta di un personaggio di grande rilievo politico-economico nella Francia del Secondo impero, introdotto altrettanto bene negli ambienti politici e finanziari della Parigi che contava quanto negli ambienti politico-culturali torinesi), l'intero progetto non poteva essere condotto secondo le normali vie della diplomazia pubblica, sarebbe quindi stato meglio «trattare direttamente con l'Imperatore al di fuori della diplomazia ufficiale» (v. Carteggio Cavour-Nigra, vol. I, pp. 83-84. Il consiglio di Bixio è del 31 marzo 1858).
VII. La partita più difficile
La preparazione segreta, essenzialmente legata alla capacità di "far saltare i nervi" all'Austria di Francesco Giuseppe, è complessa e complicata dal fatto che Cavour, in effetti, non gode della simpatia delle teste coronate europee (per loro, si tratta di un parvenu) e che il clima internazionale appare vieppiù incline alla convocazione di una conferenza internazionale sull'Italia, semmai, proprio allo scopo di schivare i rischi di una guerra.
Si pensi: di solito, sappiamo che gli statisti fanno di tutto (o così dicono) ogni volta, per evitare conflitti internazionali e guerre (allora come prima e poi dopo): questa volta, l'accoppiata Cavour-Nigra rema invece in direzione perfettamente opposta. Pur senza negare un formale assenso alla Conferenza internazionale, devono cercare di esasperare i rapporti con l'Austria, e quelli dell'Austria con la diplomazia europea — darà a ciò il suo contributo anche Massimo d'Azeglio, inviato a Londra nella primavera del '58. È ben vero che il 10 gennaio 1859 (quindi pochi mesi prima della guerra) Vittorio Emanuele può pronunciare il famoso discorso del «grido di dolore», ma solo una settimana dopo Cavour si mostra estremamente pessimista in una lettera a Nigra. E le cose non fanno che peggiorare (o almeno così sembra): il 14 marzo Cavour ammette con Nigra che un attacco austriaco è poco probabile (v. Epistolario, vol. XVI, pp. 233). Ed ecco allora Nigra nuovamente a colloquio con Napoleone III al quale fa balenare la possibilità che l'Austria non tolleri le agitazioni in Italia centrale, e che da Massa e Carrara prima e da Parma e Piacenza stiano ora giungendo truppe di volontari! All'ingiunzione austriaca del loro disarmo, per altro formalmente accettata da Francia e Regno sardo, fa seguito un vero e proprio ultimatum dell'Austria: ad aprile, la partita è al termine. Ormai è chiaro che la guerra ci sarà. Cavour insomma non perderà il posto a favore del ben più prudente e diplomatico Massimo d'Azeglio, e Nigra conserverà la sua aura di autorevolezza nella politica segreta.
VIII. La notte del dramma
La guerra ci sarà; la vittoria arriverà. Ma ancor più difficile che vincere, in guerra, è conquistare la pace, cogliere cioé i frutti della vittoria e costruire un nuovo scenario solido, consensuale, rappacificato. Nulla è più difficile che divider le spoglie, insomma, e gli accordi, non poco ambigui stretti e dei quali Nigra deteneva la chiave che li annodava, per così dire, "esplodono".
Eventi più complessi, più burrascosi e tutt'altro che rasserenanti stavano per accompagnare l'evento centrale: causata la guerra, e dopo le vittorie militari, gli alleati Francia e Regno sardo dovevano raccogliere i frutti dell'intensa e delicata operazione diplomatica preliminarmente condotta da Cavour e da Nigra. Ma comprensibilmente Napoleone III non poteva uscire da quella vicenda senza acquisizioni, vuoi territoriali, vuoi politico-internazionali: Napoleone III appare il solo e unico vincitore. Ha umiliato Francesco Giuseppe, ha accasato la figlia, ha conquistato Nizza e la Savoia... I risultati raggiunti a Villafranca, tra l'8 e l'11 luglio (i frutti della vittoria), lo potevano soddisfare; ciò poteva essere realisticamente accettato da Vittorio Emanuele II, che in ogni caso vedeva avanzare il cammino dell'unificazione (seppure più lentamente di quanto sperasse, anche se il "rospo" di Nizza e la Savoia non gli andava giù), ma non poteva minimamente essere accolto neppure da Cavour che, in quel nuovo Stato dimezzato anziché ingrandito rispetto alle aspettative, ma diviso, in fondo, con il Papato, vedeva il fallimento della sua strategia politico-diplomatico-militare.
Non tocca a noi in questo contesto discuterne, ma mettere in evidenza che in quei giorni ancora Nigra (che "sapeva" e — come abbiamo detto — aveva approvato...) ebbe un ruolo importante accanto a Cavour: a lui toccò di accompagnarlo fuori dal cospetto del Re quando quest’ultimo lo cacciò, mandandolo a dormire — se Cavour e Nigra si fossero detti qualche parola in quella circostanza non sappiamo. Ma addirittura, le notizie definitive sull'accordo Nigra le aveva ricevute addirittura prima di Cavour, dato che aveva fatto parte della delegazione che aveva accompagnato Vittorio Emanuele all'incontro decisivo nella stessa giornata con Napoleone III, in quell'11 luglio, e del quale aveva steso il testo dei Preliminari, portando quindi in sé la percezione della difficoltà della situazione e del rischio che tutto crollasse in pochi istanti.
Sappiamo delle dimissioni di Cavour, esacerbato dal comportamento del Re, sappiamo che Cavour si ritirò a Leri (in attesa di riprendere il potere — chi sa — ma certo a "leccarsi le ferite"), sappiamo che non aveva scordato Nigra: «Se Villafranca mi ha separato da Voi, non ha affievolito la mia affezione, né la mia stima né la mia fiducia...» (vedine il testo in R. Favero, Io, Costantino Nigra, cit., p. 204).
IX. L'epilogo
Una grande storia era finita. Ci furono, certo, ancora incontri, ancora sviluppi politico-diplomatici; Cavour ritornò Presidente del Consiglio; il nuovo Stato venne proclamato il 17 marzo del '61, ma Cavour era ormai ferito a morte (essa difatti lo raggiungerà poco dopo, il 6 giugno successivo), mentre Nigra vedeva nella sua scomparsa la svolta decisiva della sua vicenda, ben più che della carriera. Lo aspetteranno ancora incarichi diplomatici, onori politici e riconoscimenti internazionali. Ma quel Nigra che aveva volteggiato nei saloni di Saint-Cloud, nel parco delle Tuileries, che aveva discusso a quattr'occhi con Napoleone III, e aveva guardato negli occhi, molto da vicino, la sposa di quest'ultimo, Eugenia, non sarebbe mai più stato lo stesso. La vicenda della costruzione dello Stato unitario (o quasi) certo non era finita; ma l'emozione che un giovanotto trentenne doveva aver provato nel sentirsi al centro di una grande vicenda politico-internazionale non come semplice portatore d'acqua, ma come interprete unico e fedelissimo di uno statista come Cavour, non poteva più essere provata. Egli avrà ancora una vita ricca di avvenimenti, pubblici e privati, politici e mondani — ma, come dire, il suo sorriso resterà per sempre velato dal ricordo della notte terribile dell'11 luglio 1859, quando Vittorio Emanuele gli ingiunse bruscamente di fargli la cortesia di togliergli dai piedi Cavour!
Fu vera gloria? La perplessità era già nelle parole — per altro piene di rispetto e di attenzione storiografica — con cui Federico Chabod valutava il personaggio, che gli appariva «circondato da un alone in cui leggenda e storia si frammischiavano, e oggetto, come nessun altro fra i diplomatici, di simpatie e antipatie, di alti riconoscimenti e di critiche aspre» (F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, 1951).
E se a Chabod Nigra apparve esclusivamente l'uomo della grande stagione cavouriana, che si spegne quando la sua guida muore, talché egli «era come rimasto privo di ogni spinta intima e determinante all'azione» (G. Galasso, Nigra: una veduta d'insieme, in L'opera politica di Costantino Nigra, Il Mulino, p. 187), ad altri, come Walter Maturi, appare invece come dotato di «caratteristiche peculiari» nonché di un «acume della consapevolezza storica e politica» (Cit. in Galasso, Op. cit., p. 188), che lo avrebbe accompagnato poi anche nella sua successiva attività diplomatica. Va aggiunto — ma anche ciò esula dal tema attuale — che Nigra fu anche altro: un poeta addirittura, un antropologo, in quanto studioso serissimo dei canti popolari (l'edizione definitiva dei Canti popolari del Piemonte è del 1888), un bon vivant, con una casa a Trinità dei Monti a Roma, una palazzina sul Canal Grande a Venezia, amici altolocati, politici di rango, diplomatici, belle donne... Il suo rifugio non fu mai la famiglia... Ci si legga l'elenco, prezioso, che Roberto Favero ha stilato delle cariche, degli incarichi, delle onorificenze e dei riconoscimenti ottenuti praticamente da tutti gli stati europei (v. le pp. 427-28, di Io, Costantino Nigra).
X. Fatta l'Italia...
Questa è la vicenda, ma la storia non è finita perché ci deve ancora guidare (e ciò vale ancora per l'oggi!) alla riflessione sulla complessità della fenomenologia dello Stato (nazionale — ancorché ciò sia avvenuto, nel caso italiano, soltanto per gradi e, come Nigra avrebbe visto, in modo non sempre lineare e spontaneo).
Uso a questo punto per la prima volta il termine "italiano" nel suo senso storico-politico perché la vicenda alla quale Nigra partecipò non poté completare quel tragitto che doveva fare dei 7 stati sovrani che componevano la penisola italiana una realtà unitaria e "completa" (non mi chiederò certo qui se poi l'Italia dovrà conoscere altre vittorie incomplete, come dopo la Grande guerra, o contingenze territoriali insoddisfacenti dopo la Seconda guerra mondiale).
Tra tutti, il caso italiano è esemplare: la sua unità non fu il prodotto di grandiosi slanci ideali, o meglio lo fu soltanto in parte; una volta costituita in indipendente Stato-Nazione si alleò addirittura con gli ex-nemici dell'impero austro-ungarico nel 1882 (la Triplice alleanza); da alleata di questi ultimi l'Italia finì però per entrare nella Grande Guerra contro di essi; il dopo-guerra fu come una vittoria mutilata e tradita, e il nazionalismo diventò uno dei miti simbolici su cui il fascismo costruì la sua immagine internazionale. E dopo un'altra ancor più devastante nuova grande guerra (alla quale toccò di spazzar via — speriamo per sempre — i nazionalismi tedesco giapponese e italiano) l'Italia approda finalmente a un sentimento (popolarmente piuttosto diffuso) sovranazionale che ne ha fatto — e speriamo ritorni a fare — uno dei paesi trainanti nell'impresa unionistica-europea.
Morale della favola: nella costruzione dello Stato italiano il ruolo di Nigra è stato importante fin tanto che le decisioni fondamentali erano ancora in divenire, in elaborazione e senza che ottenessero da tutti, sempre, il necessario consenso. Non ne abbiamo prove certissime, ma la sua amicizia e la sintonia con Cavour non si svilupparono naturalmente soltanto nei pochi incontri che abbiamo raccontato. Con Cavour Nigra è stato uno dei principali fattori che hanno nutrito la celeberrima e mai troppo sovente ripetuta affermazione di Massimo d'Azeglio sull'Italia (fatta) e gli italiani (ancora da fare)... Rimane qualche minima considerazione di carattere politologico. Mentre è evidente che, seppure a due stadi, il Regno sardo unificò il paese facendolo diventare Regno d'Italia, ciononostante la «nazione» non si allineò allo Stato. Quello italiano è proprio uno di quei casi (a cui ho fatto riferimento all'inizio) nei quali l'endiadi tra Stato e Nazione non si salda. L'Italia (la penisola) trasudava spirito di nazione, e quando si fa Stato perde lo spirito nazionale (o peggio: lo riduce in nazionalismo, con i risultati che si vedranno, a tempo debito).
Fu nazione, in altri termini, finché non divenne Stato. E lo Stato ha bisogno di razionalità e di osservanza, alle leggi come alle tradizioni e ai costumi — senza temerne l'arrivo di altri diversi o nuovi. Avevano uno spirito più cosmopolita i nostri padri fondatori di quanto non ne dimostrino le società contemporanee.
C'è poi l'idea che gli Stati non si formino che in guerra. Basti pensare che negli ultimi cinque secoli, dacché esiste lo Stato come lo consideriamo oggi (lo «Stato moderno»), il numero degli Stati sia passato da poche decine (una ventina nel '600) a ormai quasi 200, per capire quale quantità di violenza questo «progresso» abbia sprigionato e richiesto. Questo ci fa capire quanto prezioso lo Stato sia come Bene, e quanto per questo motivo dobbiamo adoperarci per la sua democratizzazione che è, tutt'ora, l'unica proposta di società pacifica che la storia universale della politica abbia saputo offrirci.
Costantino Nigra L’agente segreto del Risorgimento di Franca Porciani
Presentazione
Che cosa c’entro io con Costantino Nigra? Assolutamente nulla, direi. Di lui mi è capitato di scrivere una volta sola, e poche righe, a proposito della pagina della sua vita che più mi piace: la fuga – un po’ cavalle- resca, un po’ rocambolesca – dalla Parigi sconvolta del 1870, dopo Sedan, al braccio di una bella, affascinante, insopportabile dama che avrebbe avuto molte ragioni per odiarlo (lei cattolicissima, lei paladina fino all’ultimo dello Stato Pontificio che in seguito a Sedan sarebbe a sua volta caduto…). A me di Nigra, di Napoleone III – che ho pur, Dio mi perdoni, brevemente «biografato» – dei Savoia, un pochino anche di Pio IX e soprattutto insomma del Risorgimento, non è mai importato niente. Quando sono in vena di scandalizzare (è tanto dif- ficile scandalizzare sul serio, al giorno d’oggi, in un mondo che non sembra più aver principi…), amo ripetere che il Risorgimento è tutto una complessa, delicatissima questione storica che tuttavia sarebbe stato eccellente risolvere subito, alla radice – quanta ragione aveva il maresciallo conte Radetzky… – con un più attento, oculato e siste- matico uso dei fucilieri di Boemia. Io resto fedele al mio imperatore Francesco Giuseppe, al mio granduca Leopoldo, e continuo a pensare che l’Italia – Paese per sua natura policentrico – non andava unita, o quanto meno certo non così, «alla francese», sul modello giacobino e bonapartista adottato da una casa dinastica bigotta e ai suoi orizzonti espansionistici nutriti di maldigerito utopismo massonico. Voilà: vuo- tato per intero il sacco dei miei umori antisavoiardi.
E allora, dopo questo attacco che spero sarà stato preso da qual- che anima bella come un pugno sullo stomaco, lo dico di nuovo: che c’entro io con Costantino Nigra?
Nulla, evidentemente: e Franca Porciani lo sa benissimo. E senza dubbio mi ha proposto di scrivere un Invito alla lettura non già perché credesse in un mio qualche interesse per lui, ma semplicemente così, per amicizia. Forse stima. Quasi certamente simpatia. Senti- menti che a mia volta nei suoi confronti condivido: e senza forse. Non senza aggiungere, per dovere di lealtà, che avevo letto alcuni scritti di Nigra che definirei «antropo-folklorico-filologici», e che mi erano piaciuti. Nigra si può considerare uno dei fondatori degli studi relativi alle tradizioni popolari (il Piemonte è in ciò benemerito: si pensi al Falletti di Villafalletto…), le valli della forte e gentile Prussia d’Italia sono tra le riserve folkloriche più ricche e fertili d’Europa; e da quel punto di vista un tenace filo d’oro congiunge il montuoso nordovest della penisola a quel Meridione che ha fornito alla scienza folklorica europea alcuni dei suoi studiosi migliori, da De Martino a Bronzini, a Di Nola, a Buttitta, a Lombardi Satriani.
Perché insomma, piaccia o non piaccia (a me non piace), l’Italia è stata fatta, non proprio magari come la voleva il Benso conte di Cavour e meno ancora come l’avrebbe voluta il D’Azeglio: quanto agli italiani, che c’erano già da molti secoli perché tale aggettivo sostantivato compare già nel Boccaccio, forse come li sognavano certi Padri Nobili del Risorgimento non sarebbero in realtà nati mai in quel Bel Paese la più bella definizione dei ceti dirigenti del quale l’ha messa decenni fa il Tomasi di Lampedusa in bocca a un reazionario siciliano, diventato rivoluzionario garibaldino per av- ventura ancor prima che per tornaconto, «bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è». Non è questa la divisa che unisce tanti cittadini della penisola, padri della patria veri o sedicenti o presunti, compresi quelli convinti e, chissà, perfino in buona fede, di volerla in un modo o nell’altro cambiare sul serio? Perché, se non proprio l’Inferno, il Purgatorio dell’Italia postunitaria è lastricato di buone intenzioni tutte finite in burla, o in commedia, o in tragicommedia, qualcuna in tragedia tout court: il filo tricolore che unisce Crispi a Giolitti, a Mussolini, a De Gasperi, a Craxi, a Berlusconi fino a Renzi, il filo tricolore del trasformismo e dell’opportunismo, delle intenzioni magari buone e della rosminiana eterogenesi dei fini. A che punto di questa galleria di false partenze, di vere disgrazie e di autentici equivoci va sistemato il busto marmoreo, o se preferite il severo ritratto, del bel Costantino Nigra poeta, interprete dei can- ti e dei sogni popolari, tombeur de femmes, buon diplomatico ed eccellente calligrafo? E qui, badate, c’è di tutto: compresa – poteva mancare? – madame Virginia Oldoini di Castiglione detta Nicchia, la Divine Countesse tra le dolci curve carnali della quale è passato mezzo Risorgimento, mentre forse l’altra metà avrebbe tanto voluto a sua volta passarci.
E allora, come diceva la bella Mimì della Bohème, «altro dirvi non so». Questa è una biografia di Costantino Nigra: e io, per quanto di biografie ne abbia a mia volta scritte cinque o sei, il genere biogra- fico non l’ho mai amato, se non altro perché piaceva troppo a don Benedetto Croce. Ma colui che per 12 lunghi anni, dall’’82 al ’94, è stato il mio Maestro di giornalismo, Indro Montanelli, avrebbe ama- to un libro di questo tipo. Credeva nella storia, lui; e nel sacrosanto diritto dovere di raccontarla, e di raccontarla in modo divertente ed efficace, specie – e soprattutto – se non si è accademici, se non si è «addetti ai lavori». E io, che «accademico» non sono mai stato, che storico non oso definirmi, ma che insomma avendo regolar- mente vinto i proscritti pubblici concorsi all’Accademia apparten- go, quando col Maestro litigavo – cioè tutte le volte che potevamo farlo –, della divulgazione storica gli dicevo peste e corna, magari (per fargli rabbia) molto peggio di quanto pensassi.
A questa biografia, Montanelli avrebbe certo con piacere fatto precedere una sua Introduzione o Presentazione (la Prefazione, l’au- trice se l’è scritta da sola: e ha fatto benissimo) o meglio ancora le avrebbe fatto seguire una di quelle Postfazioni che non si sa e non si capisce quasi mai se siano dulcis in fundo o in cauda venenum, e probabilmente è tutto sommato la medesima cosa. Io mi limito a un Invito alla lettura, in realtà meno impegnativo e coinvolgente, ma forse più sincero, più convinto, meno «accademico». Questo non è il vero Nigra: è il Nigra della Porciani, esattamente come il Cavour di Rosario Romeo non è il vero Cavour, bensì il Cavour di Romeo. Anni fa, fummo in parecchi ad apprezzare nell’allora «TiVì di Stato» in bianco-e-nero un Nigra che aveva la fortuna di stare al fianco d’una splendida Virna Lisi, un’attrice in realtà molto più professionalmente e cattolicamente pudica – e, va aggiunto, ben più bella… – del personaggio della Divine Countesse che interpretava. Per molti italiani, ormai non più giovanissimi, l’immagine di Nigra è rimasta a quello sceneggiato. Il ritratto che ora ce ne viene offerto da Franca Porciani è montanellianamente fedele alla formula della storia événementielle raccontata con garbo, con poche concessioni all’esegesi delle fonti, senza troppo curarsi dei mal-di-pancia della critica storiografica: accettazione serena e piacevole di un «modulo narrativo» che a quello «problematico» è disposta sì e no a concedere una sobria nota bibliografica, non senza farci mancare tuttavia la rituale e purtroppo sacrosanta lamentela sulle di lui perdute memo- rie diplomatiche. Vi sarà bene qualche rivista cisalpina o qualche bollettino pedemontano a ricordare a Franca Porciani e ai colleghi risorgimentalisti che sul Nigra questo o quest’altro avrebbe dovuto essere aggiunto, questo o quest’altro chiarito, questo o quell’altro evitato, eccetera eccetera, bla bla. Spetterà all’autrice far tesoro di quelle critiche, senza dubbio giudiziose, se e quando verranno. In- somma, dal momento che i personaggi della realtà storica e quelli dei racconti biografici non sono mai identificabili, si sarebbe potuto far di Nigra ben altro ritratto. Come Franca Porciani potrebbe ri- spondere parafrasando Manzoni: «Non so che dire: fabbricatevelo. Quello era così».
Franco Cardini
Prefazione
La villa in cima alla collina a Castelnuovo Nigra, in quel pezzo di quasi montagna che è l’alto Canavese, è grande, col tetto sfondato, rovinata; sembra svuotata di tutto, perfino dei ricordi, anche se lo stemma, sul portone e alle finestre (uno scudo tagliato a metà da una spada sostenuto da due tori e il motto, in piemontese, Aut e Drit), ricorda che quella fu la casa di una persona importante. È così, non è rimasto niente alla famiglia Nigra, mi dice la gente del posto che, gentilmente in un pomeriggio di aprile, mi accompagna qui da Castellamonte, paese a 15 chilometri da Ivrea, dove il benessere si è sposato in passato con il successo della Olivetti e oggi si regge sulla ceramica artistica. E di ceramica sono anche le stufe, coloratissime, fabbricate qui, capolavori di artigianato che dopo il grande succes- so nell’Ottocento (le ordinavano anche da San Pietroburgo) erano state dimenticate e ora sono tornate di moda, soprattutto nel nord Europa e negli Stati Uniti.
Quella villa è ciò che resta del legame del diplomatico piemontese con la sua terra di origine, amata per tutta la vita nonostante vi abbia vissuto solo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza: se ne andò ben presto inseguendo un destino brillante a Torino, poi a Parigi, e in molti altri luoghi per trascorrere gli ultimi anni a Venezia e spegnersi a Rapallo. Una villa che lui aveva progettato ma dove non abitò mai: dopo la sua scomparsa e quella del figlio Lionello, divenne la casa dell’odiata nuora «plebea» Teresa, unica superstite, fino alla morte, avvenuta nel 1928. In seguito gli eredi, i fratelli di lei e i loro figli, nel corso degli anni, dissiparono un enorme patrimonio e qui vendettero tutto, perfino lo scalone con la balaustra in ferro battuto disegnata da Costantino e il salottino cinese. Ora il Comune di Castelnuovo Nigra l’ha acquistata, in attesa di riuscire a restaurarla per farne il Museo e Centro Studi Nigra, ospitato per il momento nella piccola biblioteca di Castellamonte. E la grande casa se ne sta lì, disabitata da molti anni, come una misteriosa testimonianza.
Il futuro agente segreto di Cavour nacque nel vecchio castello, ora diroccato, di Villa Castelnuovo, divenuto oggi Castelnuovo Nigra, l’11 giugno del 1828 da una famiglia borghese benestante: il padre Ludovico era chirurgo e, come tale, aveva partecipato alle guerre napoleoniche, la mamma, donna colta, veniva da una storica famiglia di notai ed era nipote di Gian Bernardo De Rossi, docente di lingue orientali all’Università di Parma. Aveva due fratelli minori che avranno poi un ruolo importante nel tenerlo legato a questi luoghi, Virginia e Michelangelo, medico; vivranno qui tutta la vita e qui ne aspetteranno le visite, sempre assidue quando Costantino si trovava a una distanza ragionevole. Uomo costante negli affetti, ma girovago per necessità e ambizione. Al seguito di Cavour, fece negli anni che precedettero l’Unità d’Italia una spola continua fra Torino e Parigi; fatta l’Italia, andò a Napoli come inviato del Re per risolvere in poco tempo la questione meridionale (almeno questa era l’illusione di Cavour!), fu poi ambasciatore nelle principali capitali europee, da Parigi a San Pietroburgo, da Londra fino alla Vienna di Francesco Giuseppe e Sissi e della tragedia di Mayerling. Ma fu anche filologo, poeta, traduttore e studioso di tradizioni popolari, soprattutto quelle della sua terra, il Canavese, da cui scaturì la sua opera più importante, I Canti popolari del Piemonte.
Di questa vita brillante e del lavoro accanto a Cavour, Castella- monte ha voluto conservare i ricordi raccogliendo carteggi, pubbli- cazioni dell’epoca, fotografie, ma anche oggetti di vita quotidiana, la tabacchiera, il frustino, libri, in una stanzetta che gli abitanti del paese mi mostrano con orgoglio, sperando che io scriva un bel testo su quest’uomo che loro tanto amano, immeritatamente dimenticato. Perché nessuno ricorda davvero Costantino Nigra, ambasciatore segreto di Cavour presso Napoleone III in quella Corte di eccessi e di cattivo gusto che fu il Secondo Impero, forse amante della spa- gnola con gli occhi azzurri, madamigella Eugenia di Montijo, di cui Napoleone III si invaghì al punto di volerla sposare e farne la prota- gonista della sua ascesa, senz’altro grande amico (o qualcosa di più) e «collega» della divina Nicchia, come chiamavano gli intimi Virginia Oldoini, coniugata Castiglione. Una vicenda umana che si dipana fra i personaggi noti del Risorgimento, ma che lo lega anche ad altre donne importanti fino all’ultima, la contessa veneziana Elsa Albriz- zi, tuttavia l’oscura vicenda delle sue memorie (che racconteremo) perse, sparite o forse bruciate da Costantino stesso in un caminetto veneziano, ci limita a conoscerla filtrata dalla grande riservatezza del personaggio, in realtà mai «disgiunto» dalla moglie legittima, la torinese Emma, che gli sopravvisse. Un matrimonio che lo elevò a uno status sociale tale da permettergli la carriera diplomatica (riser- vata all’epoca all’aristocrazia), ma che non gli dette felicità perché la loro fu una storia d’amore breve e tormentata, oscurata subito da due diverse concezioni del futuro, dalla troppa ambizione di lui e, forse (non ci sono prove certe), dalla fragilità psichica di lei.
Il racconto della vita di Nigra che si lega in modo indissolubile all’epopea risorgimentale non può che partire da qui, da questo angolo del Piemonte. Si ringraziano:
Il Centro Studi Costantino Nigra presso la Biblioteca Civica Carlo Trabucco di Castellamonte (Torino); in particolare, per la disponi- bilità e la gentilezza, Alessio Canale Clapetto; Roberto Favero, presi- dente dell’Associazione culturale Costantino Nigra per l’aiuto nella raccolta dei documenti e il costante sostegno; il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino; l’Archivio del Museo del Risorgimento di Torino, in particolare la signora Edi Perino; Nerio Nesi, presiden- te della Fondazione Cavour; l’Archivio storico del «Corriere della Sera»; Giovanni Vigo, storico dell’Università di Pavia.
Crescere nelle valli del Canavese
Era una porzione del castello dei conti di San Martino, ristrutturata secondo le esigenze e le comodità moderne (dell’epoca), la casa dove nacque Nigra l’11 giugno del 1828 in un paesino di mezza montagna di poco più di 900 abitanti. Luogo già fresco di pini che il diplomatico descrisse così in una delle sue opere della maturità sulle tradizioni popolari di quei luoghi, Il Natale in Canavese: A chi percorre la strada fra le valli dell’Orco e del Chiusella, se volge gli occhi in alto a sinistra, gli si presenta la magnifica collina. Vi spicca Villa Castelnuovo ove io nacqui e, più in alto la chiesa di Sale, in un largo semicerchio chiuso a ponente dal doppio vertice del monte Filia, a levante dalle colline di Muriaglio e a tramontana dalle Alpi.
La vita in quelle valli all’epoca era legata a una faticosa economia di sussistenza, basata su quel che dava la terra: patate, segale, castagne (la base dell’alimentazione dell’alto Piemonte), in aggiunta alla pa- storizia. Poi le donne andavano in pianura a fare le balie, gli uomini in altre vallate come sterratori e minatori. Costantino, pur non ricco, era, però, un privilegiato, apparteneva alla borghesia delle professioni e della cultura. Era il primogenito di una donna benestante (aveva portato una dote cospicua), bella e colta, Anna Caterina Revello, figlia di un notaio e nipote di un illu- stre studioso di lingue orientali, Gian Bernardo De Rossi, autore di diversi testi ed è lei che probabilmente trasmise al figlio l’amore per le lingue (il nostro, nel corso della vita, ne imparò cinque, compreso il sanscrito) e la passione per le materie umanistiche. Il padre era Ludovico Nigra, chirurgo maggiore dell’armata napoleonica (e si sa quanto Napoleone potenziò l’impiego del bisturi sul campo di battaglia e tenne in considerazione chi, amputando e suturando, salvava la vita ai suoi soldati) durante le campagne del 1813 e 1814 in Prussia, ma testa calda poi: partecipò ai moti insurrezionali di Ivrea del 1821, e pare che al processo si salvò solo grazie all’intervento di un certo conte Gloria, grato a Ludovico perché gli aveva salvato la figlia. Dopo tanta turbolenza, trascorse il resto della vita esercitan- do la professione di medico nel paese senza avere conseguito alcun titolo accademico, comunque, e dedicandosi all’educazione dei tre figli (dopo Costantino nacquero Virginia nel 1830 e Michelangelo nel 1833, altri due non sopravvissero).
L’infanzia del futuro ambasciatore trascorse a Villa Castelnuovo che ora, aggregata a Sale, in suo onore, si chiama Castelnuovo Nigra. Di quest’epoca della sua vita non si hanno molte informazioni, ma dai suoi scritti emerge un grande attaccamento al Canavese, povero ma ricco di tradizioni e di feste. Come le rappresentazioni religio- se in uso alla vigilia di Natale. Ai pronipoti di Costantino è stato tramandato il racconto del bisnonno trasformato in «angelo» nella rappresentazione del Natale a Villa Castelnuovo. Correva l’anno 1839 e il bambino, vestito di una tunica bianca e con due magnifiche ali di penne di pavone attaccate alle spalle, durante la messa di mezzanotte, aveva l’incarico di aprire la porta della chiesa ai pastori. Molti anni dopo Nigra rievoca così quelle manifestazioni: «Nella notte oscura, per i sentieri alpestri coperti di neve, gli abitanti dei più lontani ca- solari erano venuti in lunghe processioni al lume di favelle di paglia e scorze di ciliegio. Lo spettacolo era grandioso e commovente».
Una famiglia molto unita quella dei Nigra, segnata purtroppo da un grave incidente di cui fu responsabile Costantino: la perdita di un occhio del secondo figlio maschio Michelangelo. Andava molto in voga nel Canavese a quell’epoca il gioco della cirimella, o lippa, in cui due squadre (o semplicemente due ragazzi), munite di bastoni, picchiavano su una delle due estremità appuntite di un pezzo di le- gno per proiettarlo nel campo avverso, dove l’altra squadra cercava di colpirlo a volo con un bastone e respingerlo. Gioco estremamente pericoloso e antichissimo originario dell’alta Valle d’Aosta: non a caso Costantino prese in pieno il viso del fratello cavandogli un occhio. Questa vicenda ebbe una grande importanza nella vita dei due ragazzi, creando fra loro un legame speciale. Indubbiamente Costantino visse un enorme senso di colpa e fu protettivo nei confronti del fratello per tutta la vita. Oltre a coinvolgerlo, come vedremo in seguito, nella sua missione segreta a Parigi voluta da Cavour. Nonostante la menomazione, Michelangelo ricambiò l’af- fetto del fratello e, grazie anche al suo aiuto, riuscì a fare un percorso scolastico di tutto rispetto, laureandosi in medicina all’Università di Torino e specializzandosi in pediatria a Parigi. Il legame fra i due fu sempre strettissimo, e proprio a Michelangelo Costantino racconterà le pene per quel figlio scombinato e dilapidatore che fu Lionello, come testimoniano molte lettere accompagnate dall’invio di soldi («Pietroburgo 25 Aprile 1878: La ricomparsa del sole e d’un tempo più mite mi ha fatto bene, ora mi trovo in buona salute. Riceverai la somma di £. 1000 per la pensione di Lionello. Vorrei sperare che si conduca meglio»). Michelangelo però, forse anche a causa della menomazione, non si sposò mai e visse fra Castellamonte e Torino. Finite le elementari, Costantino frequentò una scuola privata retta da ecclesiastici a Cuorgnè, un paese vicino, e successivamente le scuole superiori a Ivrea, dove si diplomò a pieni voti nel 1845. In quegli anni strinse amicizia con il conte Pietro di Colleretto, con cui resterà in rapporti anche in seguito, e prese una «cotta» per una sartina di Torre Balfredo, a pochi chilometri da Ivrea, di cui non sarebbe rimasta traccia se il ragazzo, appena diciassettenne, non avesse scritto per lei, che lo lasciò all’improvviso, la sua prima composizione, Epitafio d’amore. Pubblicata sul giornale «La Dora», Questa prima opera gli dette una certa popolarità.
Lo studente montanaro va in guerra
Costantino nel 1845 va a Torino a studiare giurisprudenza gra- zie a una borsa del Collegio delle Province, istituzione creata da Vittorio Amedeo II di Savoia all’inizio del Settecento per favorire l’accesso all’università a 100 studenti meritevoli, garantendo loro vitto, alloggio, libri e quant’altro. Un’occasione da non perdere che il nostro accettò senza troppo entusiasmo perché la sua passione era la letteratura con un debole per la poesia e gli studi di filolo- gia; avrebbe voluto fare lettere classiche per andare poi a Bonn a specializzarsi in filologia. Un sogno impossibile; quelle erano materie con cui era più difficile trovare lavoro, bisognava optare per legge. Ciononostante, pur a malincuore, fu un bravo studente. Intanto emergeva la sua vocazione aristocratica; si vergognava degli scarponi imbullettati da montanaro che gli mandava il padre dal Canavese, prendeva lezioni di ballo e di scherma. Anzi, forse perché era mancino, divenne presto un ottimo tiratore di sciabola e di fioretto. Vittorio Bersezio, scrittore e giornalista, suo coetaneo e compagno di collegio lo ricorda così: "Spigliato, sottile, camminava dritto a capo levato; portava la ricca chio- ma bionda inanellata, cadente fin sul bavero del soprabito, gli occhi di un grigio azzurrognolo gli brillavano di vita, di allegria, di pensiero. Aveva qualcosa di femmineo nella composta gentilezza delle mosse, nell’abituale cortesia della parola, nella temperata dolcezza della voce; ma sotto quella morbidezza vellutata si sentiva pure una volontà virile, la cui forza metteva talvolta dei riflessi da lama d’acciaio nello sguardo di quelle pupille chiare e faceva avvertire una saldezza di proposito. Nato in povere fortune, egli pure portava dalla nascita un sentimento profondamente aristocratico; ma aristocratico nel senso eletto della parola, cioè di contrario, di repulsivo a tutto quanto sia basso, gros- solano, volgare [….].
La vocazione da damerino di Costantino era sotto gli occhi di tutti al Collegio delle Province: prendeva lezioni di equitazione per avere il pretesto di passeggiare sotto i portici con gli speroni e il frustino (peccato che non possedesse alcun cavallo), per non rinunciare al parrucchiere, si privava di molte cose, anche del necessario. Ma tant’è, la scena c’era tutta e il futuro gli avrebbe dato ragione.
La Torino universitaria di quegli anni era un focolaio di senti- menti patriottici, sulla scorta delle opere di Silvio Pellico e di Cesare Balbo. I ragazzi si trovavano nei caffè vicini al cuore del potere sa- baudo, intorno a Piazza Castello, Palazzo Reale, Palazzo Madama, sede, allora, del Senato subalpino. Tra questi il più noto era il Caffè Fiorio in via Po, ma andavano alla grande anche il Bicerìn che pia- ceva a Cavour e il Caffè di Londra, proprio davanti all’università, il preferito dagli studenti più infervorati. Fra questi, Costantino Nigra, descritto dai coetanei «come alto, distinto, un paggio medievale, con le chiome cadenti dietro le orecchie». Certo, doveva essere davvero un bel ragazzo questo Nigra, se anche il compagno di università Vittorio Bersezio racconta: «Nel 1848, quando si facevano dimostra- zioni e si cantavano inni, Costantino si era vestito, come si diceva allora, all’italiana e faceva la più bella figura del mondo col cappello piumato a larga tesa, la giubba serrata al tronco, e il mantelletto alla moda del Cinquecento sulla spalla….».
L’oppressione austriaca viene percepita sempre di più come il grande ostacolo all’unificazione dell’Italia. E il clima a Torino, co- me a Milano e a Venezia, si fa incandescente. Agli inizi del 1848 dalle aule universitarie si segue con grande partecipazione quanto sta avvenendo oltre il Ticino. Costantino non ne è immune, vuole combattere. Tanto che scrive poesie come questa: «Oh se una volta, lasciati i carmi / andrò alla pugna, stringerò l’armi / io pur difendere vo’ il suol natìo / nacqui in Italia, son forte anch’io». Finalmente, quando le Cinque giornate di Milano volgono al termine, il 23 marzo 1848, Carlo Alberto, a pochi giorni dalla con- cessione dello Statuto, dichiara guerra all’Austria: è la Prima guerra d’indipendenza.
Gli studenti universitari torinesi si arruolano volontari nel batta- glione dei bersaglieri e da Chivasso partono per il fronte sotto il co- mando di Francesco Cassinis, uno dei migliori allievi di Alessandro La Marmora (i due militari moriranno entrambi di colera nel 1855 nella Guerra di Crimea). Questa armata di 140 «ragazzini» (circa un universitario su dieci) fa un duro addestramento, dorme per terra, si prepara a combattere: quando avviene, i piccoli bersaglieri vanno allo scontro (a quanto si narra) valorosamente, a Peschiera, a Santa Lucia, a Calmasino, a Corona. Certo è una guerra dura anche per l’incapacità di coordinamento dei generali piemontesi, e ne muoio- no tanti. Così Nigra racconta la sua esperienza in guerra all’amico Gaudenzio Cairo, ansioso di raggiungerlo sui campi di battaglia, in una lettera dell’11 luglio: "Se tu sei pronto a rinnegare tutto il tuo amor proprio, a soffrire i duri trattamenti del semplice soldato (comprendi tutta l’estensione della pa- rola), a patire la fame, la sete, l’incomprensibile fatica di marce forzate di venti miglia al giorno all’ardore cocentissimo del sole, col sacco e la carabina; se nulla ti importa l’andar stracciato, senza calze e talora senza camicia, il vederti coperto di pidocchi e altra simile genìa (per- dona la sconcia espressione, ma è durissima realtà), se a tutto questo sei pronto per amore della patria, io ti darò pure del generoso […] Noi siamo stati al fuoco sotto Peschiera, a Santa Lucia, a Calmasino e a Corona. Io fui finora, benché sempre fra gli espostissimi al fuoco, sano e salvo. Saluta gli amici".
Non andò così a Rivoli Veronese il 22 luglio: Costantino fu ferito alla testa, al braccio e alla mano destri in un corpo a corpo con tre granatieri austriaci, ma ebbe la soddisfazione di essere proclamato caporale sul campo (all’epoca era ammesso). Di queste ferite, la più grave, quella all’avambraccio, trapassato da una pallottola, pareva mettere in pericolo la possibilità di scrivere. A questo punto l’avventura bellica di Nigra era conclusa: rientra- to a Torino, fu costretto a una lunga riabilitazione per riacquistare le funzioni dell’arto: imparò a scrivere correttamente con la mano sinistra, cosa abbastanza facile per lui che era mancino, e ricominciò a studiare. L’esperienza della guerra lo segnò profondamente anche perché su quei campi aveva visto cadere tanti compagni di università. Come ben esprime in questa poesia:
Chiuso in arma il giovino petto / del piumato elmo coperti (quello dei bersaglieri, N.d.R.) / nudo il suolo aveste a letto / vi fur tenda i cieli aperti / e cadeste il sen piagato / sul vessillo conservato./ Ah! Su voi si schiude il grembo / delle venete viole, / senza gelo e senza nembo / vi sien pie le stelle e il sole;/ e sull’ossa aride cada,/ come pianto, la rugiada.
Intanto dopo le sconfitte di Custoza e di Milano, il 19 agosto 1848 Carlo Alberto firma l’Armistizio di Salasco e quando vuole ripren- dere le ostilità va incontro alla disfatta di Novara; abdica il 23 marzo 1849 a favore del figlio Vittorio Emanuele e muore a Oporto, in Portogallo, pochi mesi dopo. Costantino, convalescente, si rimette sui libri in una Torino che sta tornando a una relativa tranquillità, ma non snobba i salotti, soprattutto quello della baronessa Olimpia Savio, donna di grande spicco nella Torino risorgimentale e poi capitale del Regno di Italia. Figlia del direttore del Collegio Reale delle Province, bel- la (grandi occhi castani, morbidi riccioli), bene educata e molto colta anche grazie alla madre che le aveva trasmesso l’amore per la lettura, ventenne sposò l’avvocato Andrea Savio. Fedele ai Savoia, ma di idee liberali nella sua casa di città e nella famosa villa di campagna, detta Millerose per la gran varietà di fiori e roseti del suo giardino (fu demolita per costruire uffici), alimentò un vero e proprio cenacolo dove erano ben accetti anche conservatori e liberali. Collaboratrice di giornali e autrice di un diario ricco di curiosità, accolse Nigra con grande calore e il giovane studente la ricambiò declamando i suoi versi patriottici da una cattedra dell’università. Costantino quasi ogni sera frequentava il salotto della baronessa dove poteva incontrare letterati, politici e artisti. Così lo descrive la scrittrice: "Colto, entusiasta, corretto di parola e di modi e già in vista per studiose ricerche sui nostri canti popolari, da lui splendidamente commentati […]. Cortese per abito, inappuntabile di modi, sereno, ma serio, ra- ramente espansivo, talora impenetrabile […] Idealista, e ad un tempo essenzialmente pratico, abile, sottile, con tutti i requisiti che ispirano simpatia agli uomini, amore alle donne […]."
E Nigra l’accompagna anche a passeggio col braccio al collo e tutti lo fermano per farsi raccontare da un volontario l’esperienza di un campo di battaglia che si era rivelato particolarmente duro anche per l’incapacità dei generali sabaudi. Intanto Costantino studia e il 3 luglio del 1849 si laurea in giurisprudenza con buoni voti: 41 su 50. Adesso bisogna cercare una strada che apra una possibilità di lavoro. Nel 1851 arriva il concorso bandito dal governo per entrare al Ministero degli Esteri.
ll borghese e l’aristocratica Emerenziana
Quella che sarà poi una travolgente carriera diplomatica comincia, prosaicamente, con un concorso pubblico: Costantino lo vince e accede al Ministero degli Esteri come applicato volontario in una condizione economica che ricorda, purtroppo, quella di tanti pra- ticanti di oggi, ovvero a stipendio zero. Stipendio che tale rimane per due anni. La vita nei gelidi stanzoni del Ministero degli Esteri non era certo gratificante: si trattava di copiare scartoffie, copiare, copiare all’infinito. Ma pochi mesi dopo il modestissimo ingresso in uno dei palazzi del potere sabaudo, ecco l’incontro con quello che si rivelerà il suo talent scout, il marchese Massimo D’Azeglio, allora Presidente del Consiglio. Nato nel 1798 a Torino, pittore, fine letterato amico di Alessandro Manzoni (di cui sposò la figlia Giu- lia che lo lasciò vedovo prestissimo), antiaustriaco e anticlericale, scrittore (di lui, più che Ettore Fieramosca, tutti ricordano la famosa frase tramandata sui banchi di scuola «purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani»), D’Azeglio cercava un giovane segretario svelto, con un’ottima calligrafia, capace di scrivere correttamente in italiano e non soltanto in francese, come era in uso all’epoca in Piemonte, per accompagnarlo a Cornigliano ligure, vicino a Genova, dove andava a fare i bagni di mare. Questa cura «marina» lo aiutava a sopportare i disturbi che gli aveva lasciato una brutta ferita riportata nel 1848 durante l’assedio di Vicenza nel corso della Prima guerra d’indipendenza. La scelta cadde sull’ultimo arrivato, il «biondino», e il rapporto fra i due funzionò a meraviglia: il giovane si rivelò un valido aiuto nel disbrigo della posta e di qualsiasi altra bega, tanto che D’Azeglio al ritorno a Torino lo volle con sé al gabinetto mi- nisteriale (ma lo stipendio, di mille lire all’anno, come applicato di quarta classe, arriverà soltanto il 1° agosto 1853).
Comunque il primo passo era fatto. Nel 1852 il Presidente del Consiglio era indaffaratissimo per il matrimonio della figlia Ales- sandrina con il nobile maceratese Matteo Ricci e Nigra, in onore dell’evento, ebbe l’idea, geniale, di comporre un carme che gli aprirà in seguito le porte dei salotti culturali di mezza Italia. I versi vengono lodati dal nonno della sposa, Alessandro Manzoni, testimone alla nozze, che ne legge uno stralcio.
Una consacrazione! Fra l’Alpi e la maggior Dora, e la sponda / del superbo per molte acque Eridano, / ove, mugghiando, le dorate arene / disdegnoso di ponti Orco rivolve, / bellissima fra quante il sol riscalda / è una terra, di pampini e di messi / e di greggi feconda. Ivi leggiadre / le donne, e amico ai pellegrini il tetto, / e la coppa ospitale, ed esultanti / di vendemmie, di caccie e di canzoni / le colline e le valli. Ivi severa / di studi e d’arme disciplina. Caro / l’onor più che la vita. Intemerata / lealtà. Fiero, indomito, operoso / amor di patria; e ne’ sicuri petti, / come l’Alpe natia, salda costanza. / A me fu patria e Canavese ha nome / la superba contrada. In su le rive / d’un queto lago, di ridenti ville / coronato e di selve, antiquo s’alza / un castello, di mura ardue e di fosse / un dì cerchiato; a tergo, alta gli sorge / folta d’ombra la Serra e di lontano / le sue merlate al ciel torri sospinge / la domatrice di cavalli Ivrea. / Qui, giovanetta delle Grazie alunna, / ebber culla i padri tuoi….
Da quel giorno Nigra (a un brillante poeta si poteva perdonare la mancanza di un titolo nobiliare) viene invitato a molti matrimoni della gente che conta. Anche perché ha la capacità di recitare i suoi versi, scritti in italiano, ma anche in francese e in latino, con un certo fascino. E Pier Alessandro Paravia, docente di eloquenza all’Univer- sità di Torino, figura chiave della Torino bene dell’epoca lo definisce «un giovane di molto ingegno che fa dei versi così splendidi e tersi che pochi di equali se ne leggono oggi tra noi». E saranno le sue capacità poetiche e la sua competenza come filologo a metterlo in contatto con intellettuali che ricoprono in- carichi importanti. Come il marchese Giovenale Vegezzi Ruscalla, alto funzionario ministeriale, apprezzato studioso di botanica e di glottologia slava e rumena, su posizioni politiche vicine alla destra cattolica. Costantino già a quell’epoca cominciava a mettere insieme con certosina pazienza i canti popolari del Piemonte (diverranno in seguito la sua opera più importante) e grazie a una rete di amici riusciva a raccoglierli direttamente sul territorio, rispettando nella trascrizione la melodia e la metrica. Il dotto Giovenale fa pubblicare a Nigra sulla rivista «Il Cimento», dopo attenta revisione, alcuni ar- ticoli come Il clima e il carattere delle nazioni e Le origini scandinave della Nazione inglese e, nel 1854, una prima anticipazione dei Canti popolari del Piemonte. Così lo introduce nella sua casa.
Qui comincia un’altra storia che condizionerà la vita di Costan- tino per sempre. La famiglia Vegezzi, oltre che ricchissima e molto in vista, era quantomeno singolare: Giovenale, rimasto vedovo della moglie Felicita nel ’43 con due bambine piccolissime, di cinque e tre anni, Emerenziana (per tutti Emma) e Ida, era andato a vivere sulla collina di San Vito, in una bella casa del Settecento (una «vigna» in torinese) che si affacciava sulla Val di Crava e godeva di una vista spettacolare sulla catena delle Alpi. Senza niente togliere ai dipinti e ai marmi – anche un bozzetto originale del Canova – che abbel- livano la casa, il pezzo forte era il giardino, un trionfo di fiori rari e di alberi da frutto con le serre dove il glottologo, esperto agronomo, coltivava 800 specie di piante, e alloggiavano una capanna detta il «romitaggio» e una grotta rivestita di conchiglie. In questo piccolo paradiso le due ragazzine crebbero vispe e liberaleggianti, colte e scapigliate: andavano a cavallo, avevano letto Il contratto sociale di Rousseau, sapevano le lingue, il latino, conoscevano la musica e la suonavano, addirittura Ida la componeva. La parentela, conformista e rigidamente cattolica, le guardava con sospetto anche perché le due ragazze non vivevano a San Vito come in un eremo: durante l’inverno abitavano nella casa di Torino, nella signorile Via dei Ri- pari, andavano a teatro, partecipavano a feste, frequentavano circoli letterari.
Emma ha 17 anni (era nata nel 1837) quando incontra Costan- tino che sale alla «vigna» per far vedere i suoi lavori al padre nelle sere d’estate, e non sa niente dell’amore. Graziosa, anche se non bellissima, con grandi occhi scuri, oltre al francese, conosce il te- desco a tal punto da poter tradurre uno scrittore molto popolare a quel tempo, Karl Gustav Nieritz, e vedere pubblicato il suo lavoro dall’editore Speirani e Tortone. Indubbiamente il clan Vegezzi, con la sua singolarità, la sua ricchezza, la sua cultura, gli ottimi rapporti sociali, affascina Costantino, che al confronto è un ragazzo borghese di campagna ricco soltanto di talento e di una grande ambizione.
Il giovane applicato continua a lavorare al Ministero degli Esteri agli ordini di Camillo Benso conte di Cavour subentrato alla fine del 1852 alla Presidenza del Consiglio dopo le dimissioni di Massi- mo D’Azeglio. L’incontro fra i due giovani – 24 anni lui, 17 lei – fu favorito dallo stesso Cavour e da lui caldeggiato, visto che aveva messo gli occhi sul ragazzo per farne il suo segretario particolare? Niente autorizza a pensarlo, né ci sono prove in tal senso: certo è che Cavour frequentava la villa di San Vito e la famiglia Benso era molto legata a quella dei Vegezzi da quando il prozio di Camillo, Bartolomeo, aveva creato con Pietro, padre di Giovenale, una società per l’allevamento delle pecore merinos nella tenuta della Mandria; un affare che mirava a rifornire di divise l’esercito di Napoleone. Anche se la disfatta di Bonaparte e del suo Impero fecero naufragare miseramente questa geniale start up, come si chiamerebbe oggi, le due famiglie rimasero legatissime. Ma, a quanto pare, ovvero stando alle testimonianze disponibili, fino al novembre 1855 il Conte non si accorse delle capacità di Costantino, pare che non lo avesse notato più di tanto.
Fu un incontro d’amore allora, senza pressioni e influenze ester- ne? Forse sì, visto che al bel Nigra non mancavano i favori femminili e che Emma più che di un matrimonio sembrava alla ricerca di una identità intellettuale. E forse fu proprio la personalità, il fascino della ragazzina cresciuta fuori da ogni frivolezza, così diversa dalle tante belle di cui erano pieni i salotti torinesi, ad attrarre il giovane appli- cato. Non dimentichiamo, però, che questo matrimonio costituiva per lui un salto sociale; gli permetteva di entrare a pieno titolo nel mondo dell’aristocrazia piemontese, un mondo che escludeva tutte le altre classi. La Corte di Torino, a differenza di quella francese aperta e cosmopolita, era una delle più conservatrici d’Europa, tanto che nessuno non nobile era ammesso ai ricevimenti e ai famosi balli al Teatro Carignano (poi, come sempre, c’erano gli imbucati). Unica occasione di incontro ufficiale fra aristocratici e borghesi era il ballo che ogni anno i primi offrivano ai secondi, ricambiati da quest’ultimi con una festa analoga.
Dunque una società chiusa quella che il 17 settembre 1855, nella Chiesa di San Vito sulla collina torinese, apre d’incanto le porte al bel Costantino, il quale, sposando Emerenziana, entra a farne parte senza se e senza ma. In dote dal padre la ragazza riceve la villa di Pecetto, a una decina di chilometri da Torino, famosa per il suo parco opera di Giovenale, che ospitava gli eucalipti più settentrio- nali d’ Italia, querce da sughero, alberi del falso pepe (Schinus) e una serra vetrata adibita a giardino d’inverno, popolata di felci e capelveneri. Una villa che sarà poi un luogo importante nel percorso professionale di Costantino, ma non di Emerenziana. Lì la coppia andrà ad abitare. Ma poco dopo avverrà qualcosa che cambierà la vita professionale e personale di Costantino radicalmente e lo por- terà lontano da Torino.
Cavour: un incontro che cambia la vita
C’è chi dice che l’incontro fra Camillo Benso conte di Cavour, allora Presidente del Consiglio, e Nigra fu un colpo di fulmine: una dome- nica pomeriggio del 1851 quando era ancora ministro dell’Agricol- tura, Cavour piombò affannato nella segreteria di D’Azeglio, allora Presidente del Consiglio, con una caterva di fogli da copiare, in tutta fretta, in bella calligrafia. C’era soltanto Nigra e si dovette rivolgere a lui; l’applicato di quarta classe si rivelò così capace da meravigliare il futuro padre dell’Unità di Italia per la splendida scrittura e l’abilità nel decifrare lo stentato italiano del Conte, che si esprimeva bene solo in francese o in piemontese, come tutta l’aristocrazia del Regno di Sardegna dell’epoca, del resto. C’è anche chi dice che fu D’Azeglio a segnalare Nigra a Cavour. Ma le cose, a quanto sembra, andarono diversamente.
Fino al novembre del 1855 non ci sono prove certe che Cavour avesse notato il «biondino»; ma in una lettera del 17 novembre il Conte scrive a Salvatore Pes di Villamarina, ministro degli Esteri a Parigi, che porterà con sé nella missione in Francia e in Inghilterra un giovane segretario, il signor Nigra, e che bisogna prenotargli una camera in albergo perché non è pensabile che un oscuro impiegato possa alloggiare alle Tuileries (il ragazzo, ahimè, continuava a gua- dagnare 2 lire e 70 centesimi al giorno, più o meno la paga di un operaio delle manifatture torinesi, visto che il suo stipendio annuo dal gennaio del 1854 era salito a 1.200 lire dalle 1.000 precedenti). Ma di quale missione si trattava? Era la visita ufficiale di Vittorio Emanuele II e Cavour a Na- poleone III e alla regina Vittoria, gli alleati della Turchia nella Guerra di Crimea contro la Russia e le sue mire espansionistiche nei Balcani (nel 1853 aveva occupato la Moldavia e la Valacchia, principati vassalli dell’ Impero Ottomano). La partecipazione del Regno di Sardegna al conflitto a fianco della Francia e dell’ Inghil- terra, fortemente voluta da Cavour in mezzo a mille contestazio- ni – pochi sapevano dove fosse la Crimea e perché il Piemonte si dovesse impegnare in un conflitto tra turchi e russi –, aveva preso il via nel maggio del 1855 con l’invio di 15mila bersaglieri. Guidati dal generale La Marmora, uscirono vittoriosi dalla Battaglia della Cernaia combattuta ad agosto, e con poche perdite (lasciarono sul terreno solo una ventina di morti, ma il vero nemico fu il co- lera che uccise 1.300 uomini, compreso il fratello del Generale). Pochi giorni dopo cadde Sebastopoli e il nuovo zar Alessandro II si affrettò a intavolare trattative di pace. A quel punto a Torino si capì che era necessario fare visita agli alleati, Francia e Inghilterra. Cosa che avvenne in novembre.
La cronaca di quel suo primo viaggio come «diplomatico» fu pubblicata da Nigra molti anni dopo, nel 1903, sulla «Gazzetta del popolo»: Il Re partì, con il suo seguito in carrozza da Torino a Lione e proseguì in ferrovia per Parigi […]. La comitiva si ritrovò riunita a Lione il 20 novembre e colà, prima di partire per Parigi, il conte di Cavour, energicamente appoggiato da Massimo D’Azeglio, ottenne dal Re il sacrificio di dieci centimetri dei suoi lunghi baffi che si temeva potes- sero produrre una certa stupefazione nella popolazione inglese non avvezza a un tale spettacolo.
A quanto racconta Costantino, il Re ebbe successo, conquistò la simpatia della giovane imperatrice Eugenia, piacque a Napoleone III, ma fu Cavour, con il suo spirito arguto e la sua ironia, a mandare in estasi i parigini. A lui si rivolge l’ Imperatore con la famosa frase, tramandata dai libri di scuola, che dischiuse la porta al successivo impegno dei francesi nella questione italiana: Que peut-onfaire pour l’Italie, cosa posso fare per l’Italia? Cui segue l’altrettanto famosa risposta di Camillo Benso: «La domanda è troppo impegnativa perché io le possa dare una risposta immediata, mi affretterò a sottoporla a sua Maestà al mio rientro a Torino».
Dopo quattro giorni di festeggiamenti, la «carovana» si sposta in terra inglese dove viene accolta nel Castello di Windsor dalla regina Vittoria che conferisce a Vittorio Emanuele II la Giarrettiera, il rico- noscimento più importante della monarchia inglese. Scrive ancora Costantino: «All’andata come al ritorno dalla City le vie percorse dal corteo reale, i balconi, le finestre e le tribune erano gremite da una folla enorme che plaudiva con entusiasmo al capo del piccolo ma valoroso esercito piemontese combattente in Crimea e al Re Liberale […]». Al rientro a Torino, Costantino fa il primo passo della sua ascesa nel mondo della diplomazia: come premio per il lavoro svolto nella «trasferta» riceve la croce di cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, la prima di una lunga serie di onorificenze. Contem- poraneamente arriva la notizia che diventerà padre: Emerenziana aspetta un bambino. La famiglia trascorre unita le feste di Natale. I due sembrano amarsi; anche sotto il profilo intellettuale hanno interessi comuni per la poesia e la filologia.
Ma bisogna rispondere alla domanda di Napoleone III: prende corpo la memoria, il memorandum che sarà poi spedito a Parigi il 21 gennaio 1856. Per scriverlo, Nigra viene «praticamente» segregato in casa di D’Azeglio, in via Accademia delle Scienze. Tuttavia, quando la memoria viene presentata a Cavour, intorno al 20 gennaio, Camillo ci rimette ampiamente le mani e la trasforma in un documento più stringato. Come racconta Costantino, ancora sulla «Gazzetta del popolo», nel 1903: Passai tutta una giornata e tutta la notte successiva nel gabinetto di studio di D’Azeglio per fare quella copia e la portai il mattino alle 7 a Cavour. Gli lessi ad alta voce il lungo documento. Non l’approvò, osservando con ragione che, malgrado l’eleganza della forma, avrebbe corso il rischio di non essere letto dall’Imperatore per la sua prolissità. Il mattino seguente, entrando nello studio di Cavour, lo trovai già se- duto a quella tavola (coperta di libri, fascicoli, riviste, atti parlamentari relativi a questioni politiche, economiche, morali) intorno alla quale si stava maturando il fato d’Italia. Stava egli scrivendo una nuova Memo- ria, diversa in più punti da quella di Massimo D’Azeglio e più concisa. Me la lesse il giorno dopo, guardandomi sovente in faccia, come se volesse spiare l’impressione fatta a me di quella lettura. Suppongo che in quel momento io facevo la parte della serva di Moliére […].
In questi mesi si va delineando quel rapporto di complementarietà, quasi di dipendenza fra i due, che, via via sempre più stretto, li ac- compagnerà fino alla morte del Conte. Costantino approva i testi, mette in bella forma la stentata sintassi del «capo», rimedia alle distrazioni; ad esempio, aggiunge nelle lettere la data mancante o la completa, sempre più spesso scrive al posto suo. Come nel caso della lettera inviata nel gennaio 1856, un mese prima del congresso di pace della Guerra di Crimea, al conte Florian Walewski, figlio naturale di Napoleone e della contessa polacca Maria Walewska, ministro degli Esteri francese, lettera delicata perché il signore in questione è ferocemente ostile alla «causa italiana» (tanto che nel 1860 l’Imperatore lo esonererà dall’incarico).
Il congresso, che ridimensionerà le ambizioni della Russia zarista in Europa e proietterà la Francia di nuovo in un ruolo da protago- nista dopo le umiliazioni subite a Vienna nel 1815, si apre a Parigi il 25 febbraio 1856 sotto la presidenza di Walewski. Una settimana prima, Costantino parte con Cavour alla volta di Parigi: è ancora applicato di quarta classe e svolge la funzione di segretario insieme al nipote del Conte, Ainardo di Cavour, che ha appena sostenuto l’esame di ammissione al servizio volontario al Ministero, lo stesso fatto da Nigra quattro anni prima. Il giovane applicato, che ha appena 27 anni, viene sommerso da compiti e incombenze e deve sostenere le tensioni del «capo», il cui scopo principale è vedere riconosciuta dalle grandi potenze, Francia e Inghilterra, la questione italiana. Ten- sioni più che giustificate: gli austriaci non ne vogliono sapere di far sedere il Regno di Sardegna al tavolo delle trattative con pari grado.
Alloggiano tutti all’Hotel de Londres e Costantino è costretto a un superlavoro: deve scrivere le note per una decina di persone della delegazione piemontese e copiare un’infinità di lettere. Messo alla prova sul campo, si rivela all’altezza di un mondo molto complesso, ma non ha ancora un ruolo attivo. Mosso da un attivismo frenetico è, invece, Cavour: il Conte riesce a partecipare alle conferenze di pace senza limitazioni pur con il tacito accordo di non intervenire nei dibattiti di carattere generale, non ottiene nulla sul fronte dell’ingrandimento territoriale (l’Austria è consapevole che qualsiasi pezzo di terra in più ai piemontesi sarebbe un boomerang contro di lei), ma segna un punto a suo favore sulla questione italiana. Nella seduta dell’8 aprile, dopo la firma del trattato di pace il 30 marzo, mentre si discute del malgoverno borbonico, della presenza di forze militari straniere nello Stato Pontificio, Cavour interviene associandosi alle critiche al Regno di Napoli e proponendo il Regno Sardo come l’u- nico interprete di una soluzione moderata della questione italiana, in grado di evitare un’Italia sommersa dalla rivoluzione. L’eco di queste dichiarazioni a livello internazionale è enorme: persino il giornale londinese «The Times» scrive che in Italia vi sono due sole potenze, il Piemonte e l’Austria, il primo circondato da molte simpatie, la seconda isolata in Europa.
Un successo personale di Cavour che quando torna a Torino, il 29 aprile, riceve dal Re il Collare dell’Annunziata, il massimo ri- conoscimento della monarchia sabauda, ma che premia anche gli accompagnatori: a Nigra va la Croce di cavaliere mauriziano e la promozione a viceconsole di prima classe con uno stipendio di tre- mila lire all’anno, a disposizione del Ministro degli Esteri come capo del gabinetto. È il riconoscimento formale del rapporto diretto con Cavour, che, come l’asso pigliatutto, oltre che Presidente del Consi- glio e ministro della Finanze, il 5 maggio ha ripreso anche la delega al Ministero degli Esteri. Nigra è ufficialmente entrato nella carriera diplomatica e il 17 luglio diviene padre: nasce a Torino quello che resterà il suo unico figlio (almeno ufficialmente), Lionello.
Nei mesi parigini è entrata nella sua vita una donna che avrà un certo rilievo anche nella sua carriera, la contessa Virginia Castiglio- ne. I due furono presentati da Cavour a casa di lord Holland che conosceva Nicchia fin dall’infanzia e nei suoi soggiorni fiorentini le aveva impartito lezioni di inglese.
La divina Contessa e l’inizio della missione segreta
Virginia Oldoini, quella che sarà poi per tutti la «divina Contes- sa», era arrivata a Parigi nel dicembre del 1855, assieme al marito e al figlio di dieci mesi, investita da Cavour di una missione non semplice: sedurre Napoleone III avvicinandolo alla causa italiana mentre si stava per aprire il Congresso di Parigi. Ma che cosa ha di speciale questa ragazza per aver conquistato la fiducia dello statista piemontese tanto da fargli dire: «Riuscite, cara cugina, con tutti i mezzi che vi parrà, ma riuscite!».
Quella che poi tutti chiameranno Nicchia (dal vezzeggiativo che aveva in famiglia, Virginicchia), nata a Firenze nel 1837, cresciuta in riva all’Arno e a La Spezia, era figlia del marchese Filippo Ol- doini, un diplomatico che apparteneva a una famiglia importante della nobiltà ligure, e della marchesa Isabella Lamporecchi. Ottima educazione, libera e spregiudicata, buona conoscenza dell’inglese e del francese, ma soprattutto grande bellezza, intelligenza, arguzia. Massimo D’Azeglio, amico di famiglia, le presenta Francesco Verasis, conte di Castiglione, discendente di una illustre famiglia piemontese, gentiluomo di palazzo della regina Maria Adelaide, nonché lontano cugino di Cavour. Nonostante la differenza di età, 11 anni, i due si sposano e vanno a vivere a Torino.
Alla Corte sabauda Virginia ha un grande successo, mette al mondo un figlio, colleziona amanti, fra questi anche il Re che nel novembre 1855, poco prima di partire per il viaggio a Parigi e a Lon- dra, le spiega, in un incontro riservatissimo (che lei diligentemente annota), le sue preoccupazioni per l’esito della Guerra di Crimea. Ma è Cavour a realizzare che quella ragazzina, appena diciottenne, può rivelarsi una grande seduttrice, ovvero un’ottima pedina da giocare sullo scacchiere della causa italiana. Orchestra e organizza la sua partenza per Parigi, fa sì che un funzionario del Ministero degli Esteri le insegni «a capire l’alfabeto» (così scrive Nicchia), cioè a mettere in cifra la futura corrispondenza d’affari con i corrieri diplomatici, fa crescere a Parigi, attraverso gli amici fidati, l’aspettativa per una giovane fiorentina di straordinaria bellezza.
Tant’è: il 9 gennaio 1856, a una festa, Virginia viene presentata all’ Imperatore e il 29 fa il suo ingresso al ballo da lui offerto alle Tuileries, dove si presenta seminuda, con una gemma infilata in ogni dito del piede e i capelli sciolti sulle spalle (stando a testimoni dell’epoca, quando entrò nel salone tutti si girarono e l’orchestra smise di suonare!). Napoleone III ne rimane folgorato; l’attrazione cresce di ballo in ballo, fino al 28 giugno quando, nel corso di una festa all’aperto al Castello di Saint Cloud (andato distrutto nel 1870 durante la Guerra franco-prussiana), l’ Imperatore si apparta con la Contessa italiana per due ore sull’isolotto in mezzo allo stagno della proprietà annessa al castello, Villeneuve-l’Etang. Sull’isolotto esisteva un minuscolo padiglione cinese con divani comodissimi; lì sarebbe iniziata la relazione fra i due, anche se Nicchia nel suo diario sostiene che il primo incontro amoroso avvenne in autun- no al Castello di Compiègne, mentre i ben informati all’epoca facevano girare la voce che lei fosse l’amante dell’ Imperatore già nella primavera.
Certo è che fra il 26 febbraio e il 17 marzo si tiene il Congresso di Parigi e la Contessa di Castiglione, come previsto da Cavour, ri- esce perfettamente a tenere vivo l’interesse dell’Imperatore nei suoi confronti, con un po’ di fantasia potremmo dire anche nei confronti della causa italiana, pur essendoci poche prove di questo (ma Nicchia ha una grande passione per gli intrighi della politica e, come intu- ito da Cavour, si sa muovere in questi scenari). La più importante è quanto scrive quest’ultimo il 21 febbraio 1856 al cavalier Luigi Cibrario, ministro degli Esteri: Sono nove giorni che ho lasciato Torino […] Lunedì andiamo in sce- na: se non piacevole la cosa sarà curiosa. Intanto sono cominciati i pranzi ufficiali e i nostri stomaci sono posti a dura prova. Vi avverto che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima contessa di Castiglione nvitandola a coqueter ed a sedurre, ove d’uopo, l’imperatore […] Essa ha cominciato discretamente la sua missione al concerto delle Tuileries d’ieri. Addio.
E in un’altra lettera a Rattazzi, datata 22 febbraio, Cavour scrive: «Faccio tutto ciò che posso. Ho anche tentato di stimolare il pa- triottismo della bellissima C… al fine ch’ella seduca l’Imperatore». E qui inizia anche la storia di amicizia con Costantino Nigra.
Amicizia o qualcosa di più o di diverso? Dai carteggi arrivati fino a noi emerge un rapporto che durò nel tempo (l’ultimo scambio di lettere «sopravvissuto» è del 1871), segnato da una «collaborazione professionale» che non sconfinò nell’amore, anche se non fu di sola amicizia. Come testimonia una lettera di quel periodo: «Mia cara, attendimi domani sera, un po’ sul tardi. Verrò ma a condizione che tu ti faccia trovare senza niente […] proprio nello stato in cui sei nata». D’altro canto, Costantino durante il Congresso di Parigi riceve da Cavour l’ingrato compito di stare alle calcagna della Contessina, di sorvegliarla, consigliarla, spingerla nella direzione giusta. A distanza di poco tempo dal loro incontro, le manda pizzini come questo: «Ri- cordatevi di tirare il verme dal naso del vecchio per il discorso…». Il vecchio è l’amico intimo di Napoleone III, il conte Francesco Arese, incaricato dall’Imperatore di scrivergli i discorsi, il verme è il testo che l’Imperatore avrebbe letto al Consiglio dei paesi partecipanti al congresso. Un compito abbastanza ingrato quello del guardiano che comunque Costantino riesce a svolgere con grande diploma- zia e una sostanziale freddezza; nonostante ne sia probabilmente l’amante, come tanti altri, non sembra soggiogato dal fascino di Nicchia, come accadeva invece alla maggior parte degli uomini che la incontravano (lo testimoniano i tanti racconti entusiasti rispetto al suo fascino e alla sua bellezza). Virginia si affida a Costantino: gli chiede, ad esempio, di fare avere a Vittorio Emanuele II un suo album di fotografie particolarmente eccitanti (la Contessa di Castiglione capì prima degli altri la potenza espressiva del nuovo mezzo e se ne avvalse più volte, allo stesso Nigra fece dono di un album tuttora conservato nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Torino) e diligentemente lui lo fa recapitare al Re. E quando lei si lamenta di non aver avuto risposta da Vittorio Emanuele II, il 7 marzo 1857, le scrive: «Non accusatemi di negligenza nell’adempiere ai servigi vostri. Se dipendesse da me, da lungo sarebbero soddisfatti […]. Le vostre commissioni non mi annoiano mai. Vi auguro ogni felicità e vi prego di credermi davvero vostro buon servitore». Sempre ga- lante comunque: «Siete adorabile come sempre, bella Contessa, da vicino o da lontano, presente o assente, a Passy come a Parigi […] Al primo momento di libertà verrò a bussare alla vostra porta e a dirvi a voce che questo biglietto, col profumo che emana, non sarà sufficiente per dirvi che ci siete mancata stasera infinitamente e che ci mettiamo ai vostri piedi. Mille cose amabili».
Intanto, si va delineando per Nigra quella missione segreta che tanto peso avrà nello spostare le posizioni della Francia in favore della causa italiana. Dopo il Congresso di Parigi, Cavour decide di assecondare la propensione di Napoleone III a muoversi su più livelli, svolgendo una politica personale al lato di quella ufficiale, e per quest’ultima quale uomo può essere più adatto del giovane diplomatico che a Parigi ha già riscosso un grande successo? Co- mincia così per Nigra la spola fra le rive del Po e quelle della Senna: Costantino ritorna nella capitale francese più volte fra il dicembre del 1856 e il giugno del 1857. E piace a tutti: è bello, distinto, ha una notevole cultura e ci sa fare. Lo stesso ambasciatore sardo a Parigi, il marchese Villamarina, anziché mostrarsi infastidito per l’intrusione, ne tesse gli elogi; scrive a Cavour: «Nigra possiede tutta la fiducia di V.E. e da quando è il di lei capogabinetto, ha sa- puto accattivarsi le simpatie di tutti gli impiegati […]». E ancora, il 16 dicembre 1856: «Voi potete servirvi di Nigra senza riserve; egli è al corrente di tutto quanto è accaduto e d’altronde voi sapete che merita la nostra fiducia».
Ma il successo non è soltanto diplomatico: quando compare nei salotti parigini, Costantino fa sensazione. Più bello della media, ma anche elegante ed estremamente raffinato (nonostante le origini borghesi) con quel pizzico di accento piemontese che divenne poi una delle sue attrattive. In realtà, in quanto emissario di Cavour, il giovane diplomatico era considerato un nemico dichiarato del potere temporale del Papa e nei primi tempi del suo soggiorno a Parigi, con una scaltrezza consumata, eccezionale in una persona così giovane, Nigra frequentò soltanto i funzionari del governo e le istituzioni collegate alle Tuileries.
Però i salotti gli aprono le porte volentieri, nonostante il Papa e l’avversione di gran parte dell’aristocrazia alla questione italiana. E Costantino, oltre ad avere già incarichi ufficiali, come quello, nel gennaio del 1857, di comunicare alla Legazione sarda le istruzioni per la Conferenza internazionale che avrebbe dovuto fissare i con- fini della Bessarabia, entra nelle simpatie del principe Gerolamo Bonaparte e del dottor Conneau, il potentissimo medico personale di Napoleone III. Il generale Fleury, aiutante di campo di Napoleone III, dà questo giudizio su di lui: Aveva l’aspetto di uno studente tedesco più che di un diplomatico; era certo un uomo molto fine, molto intelligente, ma aveva modi poco aristocratici […] tuttavia assunse una posizione importante e lo si vide spesso fra i favoriti della corte imperiale […] anche se difendeva una causa poco simpatica all’imperatrice [molto vicina al Papa, quindi poco propensa ad accettare un ridimensionamento dello Stato Pontificio, N.d.R.]. Malgrado ciò il suo spirito esercitò una seduzione[…].
E una signora della Corte lo ricorda così: «I suoi occhi avevano una forza magnetica, davano l’impressione che avessero tutto scrutato in un solo sguardo; erano occhi indimenticabili, con dei riflessi verdi e grigi nel loro azzurro». Costantino si trova improvvisamente coinvolto nell’affaire che porterà alla caduta in disgrazia della Contessa di Castiglione e al suo allontanamento da Parigi. Virginia in questi mesi è all’apoteosi del suo potere: l’Imperatore sembra completamente soggiogato da lei, regina di seduzione, anche se non sappiamo, come già detto, quando iniziò esattamente la loro relazione. In ottobre o prima? Così avrebbe raccontato Nicchia alla marchesa di Tisey-Chatenoy il primo incontro amoroso avvenuto al Castello di Compiègne, dove la coppia imperiale trascorreva di solito l’autunno: Nulla turbava il profondo silenzio […] udivo solo una banderuola di latta cigolare, spinta dal vento, su uno dei tetti del castello [...] At- tendevo, ma non dovetti aspettare troppo a lungo […] Un leggero rumore, indistinto, colpì le mie orecchie e la porta, la terribile porta, si aprì dolcemente. Nell’inquadratura, rischiarata dalla viva luce che proveniva dalla galleria, apparve l’imperatore […]. Senza i suoi lunghi baffi neri avrei esitato a riconoscerlo. S’avanzò con le braccia in avanti con un’andatura indecisa e vidi la sua ombra avvicinarsi al letto; si abbassò […] chiusi gli occhi e il mio destino si compì […] Era bastata una sola mezz’ora a fare di me un’imperatrice.
La camicia verde che Nicchia indossò quella famosa notte era costata l’equivalente di 35mila euro (!) e nonostante la Contessa avesse dato disposizione di essere sepolta con quella indosso, il prezioso indu- mento finirà nelle mani del famoso dandy Robert de Montesquiou, autore della prima biografia della signora, La Divine Countesse, che la conserverà in un’urna di cristallo e oro (ora si trova al Museo Cavouriano di Santena).
La relazione va avanti intensamente e all’inizio del 1857 Virgi- nia lascia l’appartamento di rue Castiglione (solo un’omonimia!), dove abitava fin dall’arrivo col marito nella capitale francese, per trasferirsi in una villa in Avenue Montaigne (intanto il malcapitato coniuge, quasi rovinato per le spese pazze della moglie e in preda alla vergogna, ritorna a Torino con il figlio). Si tratta di una resi- denza lussuosa all’estremità degli Champs-Elysées che dispone di un secondo ingresso sul retro del giardino: sembra fatto apposta per un visitatore che non vuole farsi notare e che per questo privilegio sborsa a Nicchia un assegno mensile di 50mila franchi.
Sono i mesi in cui Nicchia brilla a Corte con i suoi vestiti e i suoi travestimenti. Si presenta in abiti di mussola trasparenti, coi capelli sciolti, talvolta senza i lunghi guanti previsti dall’etichetta, o senza la crinolina (d’obbligo a quell’epoca), si dice addirittura che indossi biancheria intima nera! Come casa di moda, Virginia lancia la Mai- son Roger. Lo scrittore Prosper Mérimée, intimo dell’imperatrice Eugenia che conosce fin da bambina, scrive alla madre di lei che la Castiglione viene accolta dai ciambellani di Corte come en princesse: le aprono la porta tra la Galleria della Pace e la Sala dei Marescialli e la fanno entrare nello spazio riservato ai Sovrani. Non a caso l’amba- sciatore austriaco Hübner pronuncia una battuta maliziosa relativa alla «pericolosa passione» che Napoleone III nutre per l’Italia. La Contessa di Castiglione nel corso di quell’anno è la protago- nista indiscussa della «dolce vita» del Secondo Impero che, grazie a un fiume di denaro (più importante dei titoli nobiliari), si consuma fra balli in maschera, quadri animati, sciarade, giochi di società sullo sfondo delle residenze imperiali: nei primi mesi dell’anno e per le ricorrenze il Palazzo delle Tuileries (incendiato dai comunar- di nel 1871) e quello di Saint Cloud, il Castello di Fontainbleau in primavera, quello di Compiègne da ottobre a Natale, il «villone» di Biarritz da metà agosto e per tutto settembre. I balli sono sfarzosi con cinquemila invitati che devono superare un lungo percorso fra ciambellani in marsina rossa, maestri di cerimonia, ufficiali di ordi- nanza in uniforme azzurra orlata d’argento, per arrivare al cospetto dell’Imperatore e dell’Imperatrice. Fatte le presentazioni, i Sovrani aprono le danze e poi siedono in un palco. Alle 23 viene servita la cena e un’ora dopo Eugenia e Napoleone si ritirano nelle loro stan- ze (ma pare che quest’ultimo abbia l’abitudine di scomparire poi in incognito nelle strade di Parigi per gustarsi la vita di un uomo qualsiasi).
Le signore si cambiano d’abito due volte nella stessa serata e c’è la rincorsa ai travestimenti più fantasiosi. Nicchia resta alla storia con alcuni di questi: a un ballo in costume il 17 febbraio 1857 si presenta vestita da «dama di cuori», con un abito di mussola bianca in cui sono largamente sparsi cuori rossi, specialmente nelle vicinanze della cintura. Quel costume, che ebbe all’epoca una celebrità europea, voleva alludere al legame d’amore che incatenava Napoleone III alla bellissima fiorentina, o almeno così lo lessero i contemporanei. Ma l’astro della divina Contessa, e con questo il suo ruolo nelle vicende che portarono all’Unità d’Italia, si spegne bruscamente il 2 aprile del 1857 quando, nel corso della notte, Napoleone III rimane vittima di un attentato mentre esce dalla casa della Castiglione. È salvo, ma già si possono immaginare le conseguenze. Nigra manda subito a Cavour un messaggio cifrato e lo statista esclama: «Speriamo in Dio che non siano italiani!», gli attentatori, ovviamente.
L’attentato fu attribuito a tre italiani, Tibaldi, Grilli e Bartoloz- zi, il primo condannato all’ergastolo perché ritenuto un agente di Mazzini, gli altri due a 15 anni di carcere. La realtà però era diversa e ancora oggi non completamente chiarita. Fra gli agenti che com- parvero sul luogo c’era un certo Zampo che guidava un gruppo di uomini: caricarono il cadavere del presunto attentatore su una carrozza e si dileguarono. Si seppe poi che si trattava di un fede- lissimo dell’imperatrice Eugenia che guidava una squadra speciale della polizia agli ordini della Sovrana. E a confondere ulteriormente le cose, al seguito dell’Imperatore quella sera c’era un agente dalla brutta reputazione, spregiudicato e sanguinario, Giacomo Griscelli; fu lui a uccidere il presunto attentatore che poi si scoprì essere un agente di polizia, un certo Cappellani, lì per proteggere l’Imperatore, non certo per pugnalarlo. L’ipotesi più verosimile è che tutto fosse stato architettato da Eugenia per sbarazzarsi dalla rivale, diventata troppo pericolosa. Virginia intuisce subito la macchinazione tanto da esplodere in una rabbia incontenibile di cui solo Nigra riuscirà ad arginare le conseguenze.
Il Segretario di Cavour, ufficialmente funzionario della Lega- zione sarda a Parigi, la raggiunge nel vicino posto di polizia dove è stata portata nella notte; accusata di aver organizzato il complotto, è stata sottoposta a un interrogatorio brutale. Riesce a farla liberare, ma il giorno dopo, temendo le reazioni della donna, le piomba in casa di prima mattina: la trova scarmigliata e urlante con due pistole cariche sul tavolo (che lui, ovviamente, fa subito sparire). Nicchia urla, accusa Costantino di essere complice di Eugenia, ma poi si calma, come racconterà lei stessa molti anni dopo: Mi parlò [Nigra] come si parla ad una bambina di tre anni, con la bocca a due centimetri dalla mia e non mi baciò, no […] l’avrei strozzato se avesse osato farlo. Sapeva tutto, quel demonio, tutto! Aveva indovinato che alle cinque avrei bruciato le cervella alla spagnola. Mi disse che la mia casa era sorvegliata, che la polizia avrebbe seguito la mia carrozza e mi avrebbe arrestata. Non avrei fatto in tempo ad entrare alle Tui- leries. Bisognava saper perdere la prima partita per vincere l’ultima […]. E mi carezzava i capelli come mia madre quel giorno che stavo per cadere nel pozzo, a tre anni, a Pietrasanta […]. Disse che Cavour sarebbe venuto anche all’inferno per stritolarmi se facevo questo […]. E mi teneva le mani strette, strette, ma io vedevo non i suoi occhi, bensì quelli dell’altro, di Cavour, dell’uomo con gli occhiali, il solo al mondo che mi abbia fatto paura […], posso ben dirlo ora che sono passati tanti anni. Mi disse che se volevo, rimaneva finché sarebbe venuto Fleury. Sapeva. Fleury mi avrebbe portato l’ordine di partire.
La polizia, per comando della spagnola, aveva fatto tre dossier, tutto a… tutto contro di me. Accusata di tradimento […]. E mi carezzava i capelli, sempre diceva: partite in silenzio, ritornerete, penso io a tutto […] E infine la Nicchia è una gran carogna, quando le si fanno le coccole lei non può resistere […]. Dissi a Ni. Tenesse le rivoltelle per mio ricordo, sarei partita […]. Così fu; la Contessa di Castiglione sparì da Parigi (andò a Londra ospite di lord e lady Holland, che la conoscevano fin da bambina) per un bel po’ e poi tornò a Torino. Ricomparirà a Corte solo nel 1863, guarda caso, al braccio di Nigra e tornerà in auge come ani- matrice della «dolce vita» del Secondo Impero, ma la sua storia con Napoleone III si concluse e con questa anche il suo ruolo nell’Unità d’Italia. La relazione con l’Imperatore è durata dall’aprile (oppure ottobre?) del 1856 all’aprile del 1857 e non riprenderà più (almeno per quanto se ne sa finora dai documenti disponibili).
Se Nicchia fa le valigie, Nigra è, invece, più che presente a Pa- rigi ed è questo il momento in cui si consolida il suo incarico di segretario e agente segreto di Cavour. Si apre un periodo decisivo per la «causa» italiana e Costantino interpreta un ruolo da prota- gonista nell’intensa attività diplomatica che porterà agli Accordi di Plombières. Oggetto di tutte le attenzioni e preda delle ambizioni di Cavour: Napoleone III.
Verso gli Accordi di Plombières
Costantino rientra a Torino, ma la sua storia sentimentale con Eme- renziana è in piena crisi. Il loro matrimonio dà segni di affanno: lei non vuole seguirlo nella capitale francese, non sembra affatto orgogliosa dei «successi» diplomatici del marito e non è disposta a fargli da spalla. Lo è molto di più di quelli letterari cui ha contribuito con passione; proprio nell’autunno del 1857 prendono forma Le Canzoni popolari del Piemonte (alla cui ricerca Emma ha partecipato attivamente), che verranno poi pubblicate a puntate sulla «Rivista Contemporanea», grazie all’appoggio del suocero, a partire dal gen- naio 1858. Emerenziana non è attratta dalla vita parigina, non ne è incuriosita ed è rimasta sempre ostinatamente a Torino, giustificata dalla tenera età del bambino: Lionello ha un anno. Le sono giunte voci su una relazione fra il marito e la Contessa di Castiglione e que- sto ha contribuito al suo irrigidimento? Chissà, ma non ne abbiamo alcuna prova. Come niente supporta l’altra ipotesi secondo la quale Emma dopo il parto sarebbe andata incontro a una forma grave di depressione (post partum, si chiama adesso) che spiegherebbe la sua progressiva indifferenza nei confronti del marito. Ma, anche qui, si tratta soltanto di illazioni.
Sta di fatto che Costantino va avanti da solo, inviato più volte a Parigi da Cavour, rincorre le sue ambizioni diplomatiche, ma è anche profondamente convinto che esista una «causa» italiana o almeno dell’Alta Italia, che va liberata dalla dominazione austriaca (con una completa adesione al punto di vista del suo Maestro sulla questione). Deve avvicinare Henri Conneau, medico personale dell’Imperatore, entrare nelle sue grazie e, di conversazione in conversazione, prepa- rare un incontro fra Cavour e Napoleone III che porti la Francia a impegnarsi in una guerra contro l’Austria. La scaltrezza del giovane Segretario di Cavour sta nel cogliere subito e assecondare la propen- sione di Napoleone III per le trattative segrete, condotte in parallelo e spesso in contrasto con quanto faceva in contemporanea la diplomazia ufficiale. Il ministro degli Esteri, il conte Walewski (ostile all’Italia) e l’ambasciatore sardo a Parigi, Villamarina, da questo momento in poi, vengono scavalcati completamente dai veri interlocutori, il dottor Conneau, un uomo dall’età indefinibile, modesto nella sua palandrana nera, medico personale di Napoleone, e Nigra. Ma chi è questo ometto con una barba rada che sembra svolgere un compito che va ben al di là di quello del dottore di fiducia?
In realtà tra Conneau e l’Imperatore c’è un legame speciale, nato nel corso della vicenda umana, decisamente travagliata, di quest’ul- timo: figlio di Luigi, il fratello di Napoleone Bonaparte divenuto re di Olanda, e di Ortensia, la figlia di Giuseppina Beauharnais, era nato a Parigi nel 1808. Dopo Waterloo e la Restaurazione, aveva seguito la madre in Turgovia, successivamente aveva frequentato la Scuola Militare di Thun. Nel 1831 prese parte all’insurrezione carbonara dell’Italia centrale, nel 1832 divenne l’erede dei Bonaparte e tentò una sollevazione popolare per rovesciare la monarchia di Luigi Filippo a Strasburgo nel 1836, successivamente, nel ’40, a Boulogne. Falliti entrambi i tentativi, fu condannato alla prigionia a vita nel Forte di Ham in Piccardia. Henri Conneau, di qualche anno più anziano di Napoleone III, era stato segretario di suo padre e seguì il futuro Im- peratore in prigione, ne condivise la reclusione e l’aiutò nella rocam- bolesca fuga, travestito da muratore, del 1846, dopo sei anni di galera. Entrambi ripararono in Inghilterra e nel 1848 tornarono a Parigi, dove Napoleone riuscì a farsi eleggere presidente nel 1851 e poi, con il colpo di Stato dell’anno dopo, divenne imperatore. Con Conneau, sempre al suo fianco, grande amico dell’Italia dove si era laureato in medicina, a Firenze. In sostanza, il medico fu una specie di fedelissimo alter ego che non abbandonò mai il suo Sovrano, neanche negli anni dell’esilio. Mentre il «dottore» e Nigra tessono alacremente la trama filoi- taliana, all’inizio del 1858, un avvenimento rischia di far saltare la rete di consensi che si va costruendo a Parigi intorno al piccolo Stato sabaudo. La sera del 14 gennaio, mentre il Duca di Sasso- nia-Coburgo attende ai piedi della grande scalinata dell’Opéra la coppia imperiale, una terribile esplosione scuote l’aria, manda in frantumi la tettoia dell’ingresso, conficca una scheggia nel cappel- lo di Napoleone, fa spegnere le luci a gas. I due Reali sono illesi, ma il bilancio è pesante: otto morti e 150 feriti. Sotto la carrozza reale sono scoppiate le bombe tirate da un gruppo di cospiratori capeggiati, ahimé, da due italiani, Giuseppe Andrea Pieri e Felice Orsini, un carbonaro romagnolo, prima seguace, poi antagonista di Mazzini (la notizia getta Cavour nella più nera disperazione). La tesi che subito fa propria Nigra e che, riferita, l’ Imperatore trova convincente, è che l’attentato sia stato commissionato dalla Carboneria. Mazzini ne L’ Italia del popolo scrive una lettera aperta a Napoleone III – il diplomatico italiano la fa recapitare subito a Sua Maestà – in cui scrive: «Noi rappresentiamo l’ Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo l’U- nità nazionale, voi la temete e vi rifugiate nelle diplomazie e nel consenso dei governi europei».
L’Imperatore ne è turbato, certo non dimentica i suoi trascorsi carbonari e rivoluzionari quando lui, ateo e mangiapreti, aveva co- spirato per abbattere il potere temporale del Papa, di cui diventerà poi grande protettore. Il 6 febbraio Villamarina e Nigra scrivevano a Cavour: «Egli [Napoleone III, N.d.R.] vive sotto il peso dell’attentato, la sua fisionomia come il suo corpo lo rivelano chiaramente. Tutte le sue parole tradiscono il sentimento che le anima; si vede che l’idea dell’assassinio lo perseguita senza requie […]».
Poi la morte di Orsini, che non perse dignità nemmeno davanti alla ghigliottina, e, soprattutto, una lettera da lui inviata all’Imperato- re finirono per giocare a favore della causa italiana. Scrive l’anarchico romagnolo: «Io subirò la morte senza chiedere clemenza […]. Ma la sicurezza d’Europa e quella di Vostra Maestà saranno sempre in forse fin quando gli Italiani saranno schiavi». Quando re Vittorio Emanuele lesse quelle parole esordì: «La lettera di Orsini è un af- fare che va bene. Una volta si diceva che i morti non cantano più, tutto cambia!». Fu buon profeta. Non fu difficile per Nigra, intanto diventato ufficialmente responsabile della Legazione sarda a Pari- gi, convincere, attraverso Conneau, l’Imperatore che l’unificazione italiana, se non fosse stato lui a farsene carico, si sarebbe realizzata attraverso una rivoluzione che avrebbe potuto propagarsi in terra francese con conseguenze imprevedibili.
Un paziente e sottile lavoro, contrassegnato da un febbrile e segre- tissimo carteggio tra Costantino e il conte Benso, in linguaggio cifrato (tutto si giocava in sei frasi convenzionali) ma anche in francese. Il 7 maggio del 1858 Costantino viene inviato da Cavour a Parigi per por- tare una lettera riservata a Conneau in cui si fa giungere all’Imperatore la richiesta di un incontro. Il 9 maggio arriva la risposta di quest’ulti- mo sui contenuti dell’incontro, così indicati nel dispaccio cifrato che Nigra invia subito a Torino: «Mariage, guerre à l’Autriche, Royaume de Haute Italie», matrimonio, guerra all’Austria, Regno dell’Alta Italia. L’influente dottore specifica che l’idea del Sovrano è quella di dividere il bel Paese in tre parti: il Regno di Napoli, che inizialmen- te sarebbe rimasto ai Borboni, forti della protezione russa, ma che poi avrebbe potuto vedere il ritorno di uno dei Murat (Gioacchino Murat era stato il generale più fidato e valoroso di Napoleone, aveva sposato sua sorella Carolina e, nel 1808, era stato nominato da lui re di Napoli), la Toscana e le regioni vicine avrebbero formato il Regno dell’Italia Centrale da assegnare a un Napoleonide, per esempio il principe Gerolamo. E il Regno di Sardegna, annettendo il Lombardo-Veneto, sarebbe diventato il Regno dell’Alta Italia.
A questo punto della vicenda, si impone un legame stretto con la Casa sabauda e il matrimonio di Gerolamo con la principessa Clo- tilde, appena quindicenne, pare una soluzione perfetta, se non si va troppo per il sottile. La ragazza è ancora una bambina e il candidato sposo ha quasi 40 anni, è un uomo navigato e – si dice – vizioso. Ma all’epoca sembravano difficoltà superabili. Il signore in questione, figlio di Girolamo, il fratello più piccolo di Napoleone da lui fatto re di Vestfalia, era cugino dell’Imperatore e forse quello che più assomigliava al celeberrimo zio, una sorta di sua caricatura. Spalle e testa enormi, naso aquilino, gran pancia, era soprannominato Plonplon per il suo curioso modo di camminare. La scarsa avvenenza era, però, compensata da un notevole fascino frutto di un’intelligenza brillante. Alla fine, un fidanzato plausibile, difficile da far digerire, però, a Vittorio Emanuele II, poco disposto a sacrificare la figlia amatissima sull’altare della causa italiana, dandola in sposa a un vecchio, per di più depravato.
Intanto Conneau alla fine di maggio arriva nella capitale sabauda per incontrare Cavour che viene avvisato da un messaggio cifrato di Nigra: «L’Imperatore manderà il Dottore a Torino alla fine del mese per trattare […] è indispensabile il segreto assoluto». In effetti, tutto avviene in grande segretezza (anche l’incontro con re Vittorio) e all’o- scuro della diplomazia ufficiale, tanto che il Conte, scrivendo all’am- basciatore Villamarina per approvare la sua condotta nella conferenza parigina sui Principati danubiani, precisa: «Quanto alla questione italiana, è essenziale che non sia toccata; se qualcuno ve ne parlerà, dite che siete privo di istruzioni e che non siete disposto a chiederne. Io credo che agendo in questo modo, rispetteremo il punto di vista dell’Imperatore». A Torino, invece, Conneau e Cavour programmano l’appuntamento di Plombières, a quel tempo nota località termale dei Vosgi, dove Napoleone trascorrerà circa un mese a luglio.
L’8 luglio a Nigra arriva il telegramma, perentorio, di Cavour: «Parta subito per Torino». Il Conte non vuole mettersi in viaggio senza che il suo Segretario fidatissimo faccia la guardia nella capitale sabauda. L’11 luglio il Conte è in partenza: il Re e La Marmora (in quel momento generale di corpo d’armata) sono al corrente della sua vera destinazione, ma ufficialmente Benso (questo l’unico cogno- me sul suo passaporto) è diretto in Svizzera, e, in effetti, dopo aver visitato i lavori del traforo del Fréjus, la sera del 13 Cavour arriva a Ginevra. Tesissimo, scrive a La Marmora: «Prego il cielo di ispirarmi onde non faccia minchionerie in questo supremo momento. Ad onta della mia petulanza e dell’ordinaria mia fiducia in me medesimo, non sono senza gravi inquietudini». Il 20 luglio, dopo un lungo giro, il primo Ministro in incognito è a Plombières dove, vista l’alta stagione della località, molto di moda, si deve accontentare di un alloggio modesto. Il giorno dopo, l’incontro con Napoleone: i due parlano per quattro ore al tavolino e altre quattro le passano passeggiando nei boschi seduti in un phaéton, una carrozza scoperta in voga all’epoca. In sostanza, l’accordo è vicino a quanto ipotizzato in precedenza nei contatti segreti fra Torino e Parigi: nasce il Regno dell’Alta Italia che arriva fino all’Isonzo, con i ducati, le legazioni e la Romagna sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II, si costituisce il Regno dell’Italia Centrale che comprende la Toscana e gli Stati del Papa, al quale rimane soltanto Roma con i suoi dintorni, mentre resta inalterato il Regno di Napoli. Ma se è sospesa la designazione del futuro Sovrano dell’ Italia Centrale, Napoleone III non nasconde il suo desiderio di vedere sul trono delle Due Sicilie un discendente di Gioacchino Murat, ad esempio il figlio Luciano. Al Papa va la presidenza della cosiddetta Confederazione italiana immaginata dall’ Imperatore, ma con un carattere soltanto onorario. Un contentino di facciata. Cavour è soddisfatto: così come si delinea, il Regno dell’Alta Italia ha una funzione egemone nella penisola. E il quadro internazionale in cui si inserisce l’intervento francese a fianco dello Stato sabaudo prevede, secondo Napoleone III, la neutralità inglese, l’astensione prussiana e l’assenso della Russia ai progetti francesi in Italia.
Restano da risolvere due spinose questioni: la cessione della Savoia e di Nizza alla Francia e il matrimonio fra il principe Gerolamo e la principessa Clotilde. In nome del principio di nazionalità, che sembra in quel momento il motivo trainante sotto il profilo ideologico della guerra all’Austria, Paese che occupa ingiustamente l’Italia, Cavour ac- consente alla cessione della Savoia, nonostante sia la culla storica della dinastia sabauda, mentre sull’italianissima Nizza ottiene da Napoleone III, sulla scorta dello stesso principio, un rinvio della decisione. Per quanto riguarda il matrimonio, prendere o lasciare: l’Imperatore lo vuole ad ogni costo. E il Conte si deve impegnare a realizzarlo; non ha scelta. Da Plombières scrive a La Marmora chiedendogli di aiutarlo a convincere il Re «a non porre a cimento la più bella impresa dei tempi moderni per alcuni scrupoli di rancida aristocrazia […] sarebbe un errore, un errore gravissimo, unirsi all’Imperatore e nello stesso tempo fargli un’offesa che egli non dimenticherebbe mai […]».
Il 22 luglio Cavour parte da Plombières per Strasburgo e da lì prosegue per Baden Baden. Poi, passando dal Canton Ticino, è di ritorno a Torino alla fine di luglio.
Costantino nel frattempo si è preso un periodo di tregua ed è finalmente riuscito a trascorrere qualche settimana al fresco della Vigna, la villa del suocero sulle colline torinesi, insieme a Emma e al piccolo Lionello. Una pausa breve: Cavour spedisce a Napoleone III un elenco dei punti chiave discussi a Plombières e concorda con lui che d’ora in poi sarà Nigra il tramite diretto e segreto delle trattative. Il giovane diplomatico fa le valigie e riparte per Parigi, dove svolgerà la parte più importante (e appassionante, tuttora poco nota) della sua mis- sione segreta. E lascia di nuovo sola Emma con il piccolo Lionello.
Ci si prepara (segretamente) alla guerra
Alle sei del mattino del 25 agosto 1858 Nigra arriva a Parigi all’Hotel du Louvre, dove prende alloggio. Racconta lui stesso: Alle otto battevo alla porta di casa Conneau [Henri Conneau, medico personale di Napoleone III, N.d.R.] e apprendevo che il dottore non era ancora tornato a Parigi dalle sue vacanze in Corsica. Alle nove ero alla stazione di Versailles, rue Saint Lazare, e un’ora più tardi mi presentavo all’ingresso principale del Castello di Saint Cloud, residenza estiva dell’Imperatore. Il Generale de Beville, aiutante di campo di Napole- one III, non era né a Saint Cloud né a Parigi. La porta del castello era sbarrata a tutti gli individui estranei alla Corte, non muniti di lettera d’udienza. Impossibile parlare con il primo Valletto di Camera e con le altre persone al servizio dell’Imperatore; impossibile entrare senza una lettera di udienza e neppure raggiungere l’Aiutante di Campo in servizio. Di fronte a questa situazione, che rendeva difficilissimo il compimento della mia missione e che mi poneva in una posizione di grande imbarazzo, mi presi la libertà di indirizzarmi per iscritto all’Aiutante di Campo in servizio. Domandai il suo nome all’ingresso, dove appresi che si trattava del Generale Conte di Goyon. Con queste indicazioni, entrai in un caffè ristorante, chiesi una saletta riservata, carta e penna, e poiché erano le dieci del mattino, ordinai la colazione. Cominciai a mettere la lettera di Cavour e il mio biglietto da visita, con nome e indirizzo, dentro a una busta che chiusi senza sigillare e su cui scrissi questa frase: a S.M. l’Imperatore – Personale. Poi indirizzai al Conte di Goyon una lettera concepita così: «Signor Conte, mi prendo la libertà di inviarvi in allegato un plico contenente una lettera personale per l’Imperatore che ho avuto l’incarico di consegnare a Sua Maestà Imperiale. Affido questa lettera a Vostro Onore, signor Conte, e alla vostra discrezione, e Vi prego di farla pervenire senza indugio alla sua alta destinazione […]».
Che cosa diceva la lettera di Cavour? «Sire, dopo l’invito che V.M. ha voluto inviarmi, spedisco immediatamente a Parigi il signor Nigra, mio segretario particolare, con questa lettera. Il signor Nigra merita una fiducia illimitata, io sono sicuro di lui come di me stesso. Egli attenderà a Parigi gli ordini di V.M.». L’intraprendenza di Nigra ha successo (non era facile per chi non ricopriva una carica di ambasciatore superare i filtri che pro- teggevano il Sovrano), gli viene comunicato che l’ Imperatore al momento è impegnato con il Consiglio dei Ministri, ma che prima di mezzogiorno la lettera sarà nelle sue mani. Il primo passo è fatto. E il 30 agosto arriva all’Hotel du Louvre una lettera del segreta- rio particolare di Napoleone III, signor Thélin: «L’ Imperatore mi incarica di pregarvi di recarvi a Saint Cloud domani, 31 agosto, 9,30 del mattino».
Come fu questo incontro con l’ Imperatore? Così lo racconta Costantino a Cavour: Alle 9,30 venni introdotto da S.M.I. che mi prese la mano e mi fece sedere accanto a sé accogliendomi con molta benevolenza e con que- ste parole: «Il conte di Cavour mi ha scritto che lei merita illimitata fiducia: non posso che essere lieto di parlare a Lei come se Lei fosse Cavour». Poi iniziò immediatamente la conversazione, tenuta in tutta franchezza per servirmi delle parole dell’Imperatore.
Questo primo incontro fu dedicato in primo luogo alla ricerca di un casus belli plausibile e convincente (soprattutto per l’opinione pubblica inglese) per dichiarare guerra all’Austria. Napoleone scartò subito l’ipotesi di creare una fortezza sarda contrapposta a quella di Piacenza per suscitare l’ostilità austriaca perché il progetto avrebbe richiesto troppo tempo, mentre pareva vedere di buon occhio una sollevazione della popolazione di Massa contro gli austriaci (all’e- poca sotto il Ducato di Modena e Reggio retto da re Francesco V, discendente di Maria Teresa d’Austria), ben disposta a un’annessio- ne al Regno di Sardegna. La sollevazione popolare avrebbe portato all’invasione di Massa da parte delle truppe sabaude, scatenando il conflitto. Sull’inizio della guerra Napoleone sembrava indeciso fra l’estate del ’59 e la primavera del 1860. Comunque verso la fine di ottobre sarebbe stato inviato a Torino il generale Adolphe Niel, comandante in capo dell’esercito francese, e successivamente il ge- nerale Alfonso La Marmora, ministro della Guerra del Piemonte, avrebbe concordato a Parigi il piano definitivo.
Scrive ancora Nigra a Cavour il 2 settembre: Sull’assetto dell’Italia S.M. confermava la proposta di Plombières ag- giungendo che, essendo suo desiderio di farla accettare al popolo di Francia e d’Europa, questa guerra doveva rispettare il principio della sovranità nazionale e che i popoli, liberati dal giogo straniero, dove- vano poi decidere delle loro sorti liberamente, con un plebiscito. Sul ruolo del Papa, l’Imperatore voleva la garanzia che avrebbe continuato ad essere il Capo della Cristianità Cattolica. S.M. ritornò anche sulla questione di Nizza chiedendomi se gli abitanti della Contea parlavano il francese, domanda a cui risposi dicendo che il loro dialetto era metà italiano e metà francese. Alla fine, il punto più spinoso, la visita del principe Gerolamo Na- poleone a Torino per incontrare la principessa Clotilde. Conclude così Costantino: Mi misi a disposizione dell’Imperatore per concordare con il Re la data; S.M. si fece ripetere il mio indirizzo, m’indicò il modo con cui fargli pervenire le missive di Cavour e tutte le comunicazioni che dovevo fargli e mi informò che avrebbe trascorso alcuni giorni a Biarritz. L’in- tera conversazione durò circa tre quarti d’ora e al termine l’Imperatore mi incaricò di inviare i suoi saluti al Re e a Lei. Cavour è soddisfatto del lavoro in corso, tanto che scrive a Nigra il 4 settembre, elogiandolo, mentre lo informa che andrà a trovare il Re per fissare l’incontro di Gerolamo con Clotilde. In realtà questo matrimonio a Torino viene osteggiato da tutti, dalla Principessa, ov- viamente, ma anche dal Re, dalla Corte e dalla nobiltà. C’è il rischio che arrivi un «no» deciso.
Costantino ha un secondo colloquio con Napoleone III al Ca- stello di Saint Cloud il 30 settembre in cui dà prova di tutta la sua abilità diplomatica: riesce a concordare con l’ Imperatore la data dell’inizio delle ostilità, la fine della primavera o al massimo l’inizio dell’estate del 1859. Sulla questione matrimoniale Nigra si arram- pica sugli specchi per preparare il Sovrano a un possibile rifiuto di Clotilde: sottolinea la giovanissima età della Principessa, appena quindicenne, e il fatto che Vittorio Emanuele, da buon re «costitu- zionale» e moderno non vuole fare il despota nemmeno in casa sua.
«L’imperatore – scrive Nigra a Cavour il primo ottobre – mi ascoltava tranquillo, gli occhi fissi e tristi […] mi sembrò di scoprire sotto quell’apparenza calma e fredda i segni di un profondo turbamento […]. Se il matrimonio non si fa, bisogna rinunciare alla questione italiana».
Cavour mette la lettera di Nigra sotto gli occhi del Re che escla- ma, in piemontese: «Bravo, bravo, a l’ha propi dit lon chi l’avria dit mi si fussa stait là…». Ma Vittorio, sotto sotto, rema contro: quel matrimonio non gli va giù, come ben sottolinea il conte Bernardo di Villamarina, marito di Nona Pes, la governante di Clotilde: «Si scorge nel suo operato una doppia condotta, quella di farsi credere favorevole al matrimonio con te e quella di distorcere la figlia dall’ac- cettarlo». «Se il Re è debole, io sono duro come un macigno e per raggiungere il santo scopo che ci siamo proposti, incontrerei ben altri pericoli che non l’odio di una ragazzina e le ire dei cortigiani» gli risponde Cavour. Nella spinosa questione, si mette di traverso perfino la Contessa di Castiglione, a Torino in esilio dalla Corte del Secondo Impero; scrive a Vittorio Emanuele II una lettera che le costerà l’ostracismo di lui per tre anni: «Stimo mio dovere di suddita fedele avvisare la Reale Famiglia che il Principe Napoleone è un don- naiolo, ateo e gozzovigliatore». Ci mancava lei a turbare la digestione del Re che questo boccone proprio non riesciva a mandarlo giù!
Dopo il secondo colloquio con Napoleone III, Costantino torna a Torino a metà di ottobre, lasciando a Parigi il fratello Michelan- gelo che, presa la laurea in medicina, vuole perfezionarsi in Fran- cia. Questa è la versione «ufficiale»: la motivazione nascosta è che il giovane è un tramite perfetto, assolutamente insospettabile, per dispacci fra l’Imperatore e Cavour. Tanto che quest’ultimo mette in carico al Ministero degli Esteri 600 lire per il soggiorno di Miche- langelo a Parigi per due mesi. All’oscuro dei canali ufficiali, sia da parte francese sia da parte piemontese; la Legazione sarda ignora il vero incarico affidato a Nigra. Il rapporto di Cavour con il suo Segretario fedele si fa sempre più stretto e in qualche modo confidenziale: «Non le do ulteriori istruzioni giacché a quest’ora ella sa condurre la barca al pari, per non dire molto meglio, di me» e un mese dopo, il 28 novembre, ad- dirittura, gli scrive: «Quand’ella è lontano da me, mi sento mancare il più valido mio appoggio, ma lo faccio senza esitazione qualunque ne siano le conseguenze per me. Dal suo canto sacrifichi la modestia e le considerazioni personali al supremo interesse del Paese». Ancora: «Con un interprete come voi dei miei pensieri, io non ho timori». Anche con il principe Gerolamo i rapporti si fanno sempre più stret- ti, improntati a una grande fiducia, tanto che quest’ultimo scrive a Cavour ai primi di novembre: «Gli affari che noi trattiamo sono di tale importanza che io credo sarebbe utile che il signor Nigra venisse spesso a Parigi, che egli fosse il nostro trait d’union permanente […] L’imperatore, voi, Nigra, ed io sappiamo tutto senza eccezione»; In realtà, proprio a partire da novembre le cose si complicano, soprattutto nello scenario internazionale. In Prussia, il nuovo go- verno dà segni di riavvicinamento a Vienna, la Russia esclude ogni possibilità di conflitto con l’Austria, il Papa minaccia di scatenare il partito cattolico nel Parlamento francese, l’Inghilterra non vuole «grane» in Europa perché è impegnata a sedare le rivolte in India. E sul fronte degli accordi fra Francia e Piemonte, scoppia il finimondo quando il generale Niel propone che il Piemonte si accolli interamen- te le spese della spedizione, ovvero che se ne faccia carico il futuro Regno dell’Alta Italia liberata dagli austriaci, tanto da impegnare nel pagamento del debito un decimo delle proprie entrate.
Un colpo durissimo per Cavour, che Nigra riesce a parare grazie a una intensa attività diplomatica. Fa presente al principe Gerolamo che se la Francia viene in Piemonte a offrire un aiuto mercenario non può pretendere che il comando supremo venga affidato all’Im- peratore e di giocare un ruolo egemone nel futuro assetto della pe- nisola. Come spiegare poi ai soldati che sono pagati con i soldi degli stranieri? Su consiglio di Gerolamo, il Piemonte potrebbe risolvere la questione cedendo temporaneamente le sue ferrovie a una com- pagnia francese in cambio di un prestito dei banchieri parigini, in particolare della casa Perèire, legata all’Imperatore.
Il 13 dicembre Costantino viene ricevuto da Napoleone III e, come riferisce in una lettera a Cavour del giorno seguente, gli di- ce: «Non sarà una questione di denaro ad impedirci di concludere. L’indipendenza di una nazione non costa mai troppo cara. Non mercanteggeremo; ma sua Maestà pensi che dietro alla Francia dei banchieri c’è quella delle campagne e delle bandiere […]». Nigra sot- tolinea che il Piemonte non chiede l’elemosina, ma, nonostante tanta enfasi, non riesce a spostare la posizione dell’Imperatore che finisce col rinviare la questione a successivi approfondimenti. Nemmeno ottiene una risposta precisa alla richiesta di dilazionare la cessione di Nizza. «Porta a casa», alla fine, soltanto rassicurazioni su un ruolo di maggior rilievo per Vittorio Emanuele II nello scenario di guerra (e non soltanto di «spalla» al Sovrano francese che vorrebbe avere il comando supremo delle operazioni). Un magro bottino.
Nigra e Cavour passano notti insonni, anche perché sanno che ormai i propositi piemontesi hanno acceso le speranze patriottiche di buona parte dell’opinione pubblica italiana, soprattutto di quella che conta. La guerra non è più dilazionabile; il consenso intorno a Cavour è altissimo e coinvolge personaggi della sinistra, come Giu- seppe Garibaldi e Nino Bixio. Unico nemico irriducibile, Giuseppe Mazzini, convinto che la politica piemontese sia assolutamente ste- rile, la monarchia sabauda del tutto priva di iniziativa, e la guerra ispirata dalla Francia, interessata a installarsi attraverso un Murat nel Mezzogiorno e a mantenere il Papa a Roma.
Cavour si rende conto che bisogna assecondare l’ Imperatore sull’ipotesi del matrimonio fra Gerolamo e Clotilde, stringendo sulle date del loro incontro e cercando di convincere Vittorio Emanuele II a spingere la figlia al sacrificio. Gli viene incontro la Principessa, dichiarando al padre che, per il bene suo (per contribuire al bene del mio Paese e alla gloria di papà… scrive a Cavour), potrebbe sposare il Principe, ma scioglierà ogni riserva solo dopo averlo incontrato. Così riassume gli eventi Costantino all’Imperatore: «Le qualità per- sonali di un Principe non si possono conoscere e apprezzare se non con i propri occhi. Ecco perché il Re chiede al Principe di venire in Piemonte. Se da un lato la principessa vuole, prima di esprimer- si, incontrare il promesso sposo, d’altro lato il Re ci tiene a che il Principe possa conoscere anticipatamente la sua augusta figliola, esaminarne le aspirazioni, il carattere, il cuore e lo spirito […]». Un sacco di chiacchiere, ma, sostanzialmente, è fatta. Intanto si pone anche un’altra urgenza: il discorso della Corona che il Re deve leggere alla riapertura del Parlamento ai primi di gennaio. A metà dicembre Cavour chiede a Nigra un abbozzo del discorso e gli scrive: «Se lo facciamo troppo insipido, il Re sarà furioso e gli italiani scoraggiati. Se conterrà qualche frase troppo ardita, corriamo il rischio di dare fuoco alle polveri prima del tempo […] Consultate l’Imperatore e ditemi la sua e la vostra opinione […]». Costantino propone a Napoleone III un testo nel quale Vittorio Emanuele dà rassicurazione «del suo fermo proposito di compiere, camminando, sulle orme segnate dal Magnanimo mio Genitore, la grande missione che la Divina Provvidenza ci ha affidata». L’espres- sione parve trop fort all’Imperatore che suggerì un testo diverso che è poi quello passato alla Storia: «Non possiamo restare insensibili alle grida di dolore che vengono fino a noi da tante parti d’Italia». A Cavour l’espressione sembrò 100 fois plus fort, ma Vittorio ne colse l’audacia e non volle essere da meno del francese: avrebbe pronunciato quel discorso.
Napoleone III ormai è lanciato: nel ricevimento di Capodanno si rivolge così all’ambasciatore austriaco, il conte Alexander Hübner: «Mi dispiace che i nostri rapporti non siano buoni quanto vorrei….». Parole che hanno un’eco immensa in tutta Europa; è il segnale di una dichiarazione di guerra. Si arriva al 10 gennaio alla riapertu- ra dell’attività parlamentare e con il pieno assenso dell’Imperatore (grazie al lavoro di Nigra anche sui minimi dettagli) il discorso viene pronunciato davanti a un Parlamento strapieno, dove si affollano anche i lombardi venuti d’oltre Ticino.
La situazione, però, a Parigi non è semplice: Napoleone è ber- sagliato da quanti vogliono dissuaderlo dallo scendere in campo: l’imperatrice Eugenia, preoccupata per il futuro del Papa, Wa- lewski, da sempre ostile alla causa italiana, il mondo della finan- za, lo stesso Ministro della Guerra. Cavour capisce che bisogna stringere i tempi e sollecitare la visita del principe Girolamo a Torino. E Costantino non ha fatto in tempo a rientrare a casa che già il futuro marito di Clotilde lo invoca: «Ritornate più presto che potete […] quando resta ancora qualcosa da fare, nulla è finito». Ma il giovane diplomatico, dopo una così estenuante galoppata fra Parigi e la capitale sabauda, è stanco, vorrebbe un po’ di tregua. Emma si sente abbandonata, la lontananza è stata troppo lunga, accusa Cavour di essere l’«oscuro padrone dell’anima di Costanti- no». E, come se non bastassero i guai in famiglia, ci si mette anche Villamarina, furioso perché Cavour si è servito di Nigra e non di lui per presentare alle Tuileries il testo del discorso della Corona. Cavour, però, va poco per il sottile e scrive al suo fidato pupillo: «Se non comprende la sua posizione (Villamarina, N.d.R.), preferisco che se ne vada. Ella sa che nessuna considerazione personale mi può fermare quando si tratta dell’interesse del Paese […] Se fa tanto di brontolare, lo richiamo immediatamente». Nigra difende il vecchio Marchese: «L’unico suo torto è quello di non essere un uomo di spirito. A quest’ora egli avrebbe già dovuto farsi al modo di agire dell’ Imperatore e alle sue abitudini di cospiratore […]. Dopo tutto penso che la questione possa aggiustarsi; da parte mia farò del mio meglio». O Villamarina si calmò da sé o fu Costan- tino a quietarlo con la sua abilità diplomatica: sta di fatto che il Ministro degli Esteri italiano smise di mettersi di traverso in un momento tanto cruciale.
Chi si mette di traverso davvero è l’austriacante Walewski, inca- ricato da Napoleone III di scrivere il trattato segreto di alleanza con il Piemonte che il principe Gerolamo porterà a Torino in occasione della sua visita fissata per il 16 gennaio, accompagnato dal generale Niel. Costantino corre di nuovo a Parigi e, dopo aver incontrato Na- poleone III, scrive a Cavour: «Non bisogna dare troppa importanza alle divagazioni e ai sogni dell’Imperatore, ad essi bisogna abituarsi se si vuole trattare con lui […]. È difficilissimo penetrare il pensiero di quell’uomo la cui volubilità e incostanza può essere paragonata solo alla nostra tenacia e perseveranza […]. Non c’è che un mezzo per riuscirci. Consiste nel ritornare sempre senza paura sulla stessa idea». E Cavour, sollevato, gli scrive: «Non ho preoccupazioni di sorta finché ella sarà a Parigi saprà tenere testa a Walewski, ma quando non ci sarà più, che farà quel povero Villamarina?». Tutto sembra incerto, poi, finalmente, il sospirato telegramma di Nigra:
«Sua Altezza partirà di qui giovedì…».
La sera del 13 gennaio Gerolamo e Costantino partono in con- temporanea da Parigi, il Principe diretto a Marsiglia, dove lo aspetta il panfilo imperiale Reine Hortense, pronto a far vela verso Genova, l’altro, via terra, a Torino, dove Cavour lo attende con ansia. La sera prima Nigra ha scritto al suo Maestro:
Qui termina la mia missione a Parigi. Non è stata né facile né gradevole. Ma sono stato gratificato dalla fiducia del Re e di V.E. che mi aveva dato, con il sostegno della mia più profonda devozione alla causa italiana, la forza necessaria per compierla degnamente e coraggiosamente. Ho la coscienza d’aver fatto tutto il mio dovere, di aver comunicato tutte le informazioni acquisite, e tutto ciò che avevo creduto poter intuire. Ho tenuto, io umile e sconosciuto impiegato, con l’Imperatore e con il Principe, un linguaggio che neppure un ambasciatore avrebbe avuto il coraggio di sostenere.
Il 30 gennaio Gerolamo e Clotilde si sposano a Torino (il Comune conferisce alla sposa una dote di 500mila lire). Nei giorni precedenti, viene firmato da ambo le parti il trattato di alleanza che accoglie le richieste già espresse da Napoleone III: le spese di guerra addossate al futuro Regno dell’Alta Italia, la Savoia e Nizza cedute alla Francia, il comando delle forze armate affidato all’Imperatore. Si chiude così la fase delle trattative. La guerra ormai è vicina.
Francia e Piemonte in guerra
Clotilde non viene accolta con entusiasmo a Parigi: tutti sanno che la Principessa bambina (per una clausola voluta da Vittorio Emanuele il suo matrimonio verrà consumato un anno dopo, al compimento dei 16 anni, e su questo veglierà la dama di compagnia, la Contessa di Villamarina) è la preda di una guerra che nessuno vuole. Il clima politico in Francia, come nel resto d’Europa, sembra più orientato al mantenimento della pace. Il ministro degli Esteri, il conte Walewsky, filoaustriaco, dà filo da torcere, e la Russia propone un congresso dedicato alla questione italiana, una soluzione diplomatica in alter- nativa al conflitto. La maggior parte delle potenze europee condivide l’idea e Napoleone III non si tira indietro. Sono in pericolo tutti gli accordi presi.
Nigra torna di gran carriera a Parigi alla fine di febbraio inviato da Cavour (vi resterà fino agli inizi di aprile) dove ha incontri fre- quentissimi con il principe Gerolamo e all’Imperatore scrive: Il Re desidera ardentemente continuare a marciare in perfetto ac- cordo con V.M.. Tutto quello che chiede è di non essere messo in condizione di dover sanzionare la rovina del proprio Paese e il trionfo in Italia dell’Austria e della Rivoluzione […]. Mettendo la mano sulla coscienza, credo doveroso dichiarare che la linea del conte Walewski, facendo perdere la Sardegna, non salverà neppure la Francia. Cosa guadagnerà la Francia dalla caduta della Sardegna, dalla disorga- nizzazione completa del partito nazionale nella penisola, che oggi è interamente devoto a V.M.? Vale molto di più una guerra nei pros- simi mesi, con il concorso devoto degli italiani, che una pace o una tregua che possono diminuire l’immenso prestigio legato al vostro nome […]».
A marzo Costantino incontra più volte Napoleone e alla fine del mese, il 26, insieme a Cavour. Incontro insoddisfacente: lo statista torna a Torino il 30 marzo con «la disperazione nel cuore» perché l’Imperatore sembra deciso a sposare la linea del suo Ministro degli Esteri, che fa marcia indietro su tutto e chiede l’immediato disarmo della Sardegna. In questa fase concitata e inevitabilmente convulsa, il lavoro del giovane diplomatico è reso faticoso dalla doppia vita cui è costretto per camuffare la sua missione segreta e non far trapelare niente alla Legazione sarda di Parigi. I dispacci inviati quotidia- namente a Cavour si intrecciano con un’intensa vita mondana di «copertura», immersa in ricevimenti e balli. Alla fine la situazione di Nigra rischia di diventare insostenibile.
Scrive al suo Maestro: È ormai impossibile che la mia frequente comparsa a Saint Cloud, alle Tuileries, al Palais Royal, e all’Avenue Montaigne non sia notata e commentata dagli ufficiali della casa dell’Imperatore e del Principe, dinanzi ai quali passo e ripasso come un’ombra misteriosa. Sia però certa l’E.V. che per parte mia fu posta e si pone ogni cura per evitare gli sguardi altrui. Non una sola volta io posi piede nelle auguste anti- camere senza espresso invito. Del resto la mia completa oscurità mi rende tranquillo fino ad un certo punto.
Sta di fatto che sia l’ Imperatore sia il principe Gerolamo sono con- sapevoli che il timido rappresentante ufficiale del Piemonte, Pes di Villamarina, non è all’altezza del momento che si sta vivendo, e non mancano di farlo notare a Vittorio Emanuele e a Cavour, assolutamente convinti, anche loro, della necessità di elevare la posizione di Costantino. Il 21 marzo il Conte propone a Nigra la nomina a consigliere di Legazione a Parigi, ma la risposta del giovane diplomatico è un no deciso, ben motivato. Il passaggio dalla carriera consolare a quella diplomatica significherebbe ri- nunciare alla nomina a console di prima classe, cui lui può aspirare per anzianità, perdendo un aumento di 1.000 lire (attualmente è viceconsole con uno stipendio di 3.000 lire) e, come scrive a Cavour, «la differenza non è da poco perché io non sono ricco». Il messaggio viene recepito in pieno e il 1° aprile a Costantino Intanto la situazione si fa più complicata: in Piemonte i volontari arrivano da tutte le parti, dal Lombardo-Veneto ma anche dalla Toscana, e gli arruolati già inquadrati nei corpi sardi in aprile sfio- rano i 12mila. A Torino il 14 aprile giunge da Londra l’ordine di disarmare, ma Cavour non se ne preoccupa più di tanto. Cambia atteggiamento il 19 quando il barone Aimè d’Aquin, segretario della Legazione di Francia, si presenta alle due del pomeriggio con lo stesso ordine siglato da tutte le potenze; cade sul letto e, piangendo, dice: «Non mi resta che farmi saltare le cervella…». Il Re, invece, sdrammatizza e anche Nigra sostiene che non si arriverà mai a quel maledetto congresso.
Cavour risponde che il Piemonte è disposto a disarmare, ma il conte Karl Buol, Primo Ministro austriaco, la sera del 20, respin- ge la richiesta inglese, aggiungendo che qualsiasi proposta di far partecipare il Piemonte al congresso sarà rimandata al mittente. Il pomeriggio dopo piomba a Torino l’ultimatum austriaco, fortemente voluto dall’imperatore Francesco Giuseppe: o disarmo immediato (entro tre giorni la messa sul piede di pace dell’esercito piemontese e il licenziamento dei 12mila volontari già accorsi in Piemonte da altre parti d’ Italia e inquadrati nei corpi sardi) o guerra. L’amba- sciatore austriaco a Parigi Von Hübner scrive nel suo diario: «Dopo tutto quello che hanno fatto per sostenere la guerra, i Piemontesi riescono ancora a passare per vittime». A Londra la regina Vittoria definisce la decisione austriaca «pazza e brutale», a Pietroburgo lo zar Alessandro II commenta: «Questa volta non ci saranno i cosacchi a tirare fuori dai guai gli austriaci…».
Ma tant’è. Il 27 aprile inizia, ufficialmente, la Seconda guerra di indipendenza e Giuseppe Garibaldi, con i suoi Cacciatori delle Alpi, viene inquadrato nell’esercito piemontese con il rango di generale (pur fervente repubblicano aveva capito che l’Italia o si faceva con i Savoia o non si faceva per niente). Gli austriaci sotto il comando del maresciallo Ferencz Gyulai varcano la frontiera, che si identifica con le rive del Ticino. Costantino corre a Parigi inviato da Cavour e, quando arriva, l’Imperatore ha già dato ordine di mettere l’intera armata sul piede di guerra (200mila uomini, ma poi quelli che effettivamente parte- ciperanno al conflitto non supereranno i 140 mila). Nigra, al seguito dei francesi, lascia Parigi per Alessandria, piazzaforte dei piemonte- si, e «cervello» dell’approvvigionamento dell’esercito, compito cui, secondo gli accordi siglati in gennaio, deve far fronte il Regno di Sardegna e che Napoleone caldeggia per essere sicuro che almeno all’inizio ci sia cibo per tutti. A Costantino viene affidato il compito di procurare ogni giorno 50mila razioni di pane per i soldati e 20mila razioni di fieno per i cavalli. Se per gli uomini tutto fila liscio, per gli animali mantenere la promessa si rivela arduo perché i macchinari per compattare le balle in modo da poterle trasportare non sono in numero sufficiente. Ma scarseggiano anche i quadrupedi, un bel problema, visto che devono farsi carico dell’artiglieria pesante. Senza dimenticare altre carenze vistose, come la mancanza di carte geo- grafiche della Lombardia indispensabili ai francesi: non si è fatto in tempo a stamparne abbastanza.
Nigra incontra più volte l’Imperatore, il generale Mac-Mahon e il principe Gerolamo. Napoleone III gli chiede una nuova missione: andare a Firenze a preparare il terreno per l’arrivo del Principe che, con un distaccamento armato, sbarcherà a Livorno (la sua idea è un Regno d’ Etruria satellite dell’ Impero che governi su un milione e mezzo di sudditi). Ma Cavour vuole che all’insaputa dei francesi Costantino, invece, aiuti e spinga il partito annessionista al Regno di Sardegna, del quale la personalità di spicco è Bettino Ricasoli. Evidentemente il Maestro pensa che le missioni segrete siano la specialità di Nigra, un campo in cui il giovane diplomatico non ha rivali.
La Toscana è in fermento: l’insurrezione è scoppiata il 27 apri- le, lo stesso giorno dell’inizio della guerra, e il granduca Leopoldo II se n’è andato sommessamente e con grande dignità. A Firenze, se non tutti sono favorevoli all’annessione al Piemonte, certo sono la maggioranza. D’altro canto Gerolamo non vuole imporsi su un popolo con le baionette, né affidarsi a un plebiscito da cui rischia di uscire battuto. Nigra, abilmente, gli fa notare che un Regno Centro- Settentrionale retto da una dinastia ormai imparentata con quella imperiale non è in antitesi all’idea di un’egemonia francese sull’I- talia. Gerolamo accoglie la tesi, ma Napoleone III, quando lo sa, va su tutte le furie; rischia di sfumare il suo progetto di piccoli Stati satelliti dell’Impero.
Cavour, cogliendo l’irritazione, lascerà per un bel po’ Ricasoli a «bagnomaria» e ai primi di giugno spedirà Nigra nelle Legazioni pontificie (Bologna, Forlì, Ferrara, Ravenna) a coordinare un mo- vimento di annessione che, per quanto si diffonda a macchia d’olio, sembra fragile, nonostante il Papa sia ormai rassegnato a perdere quei territori e l’Imperatore, di conseguenza, non abbia motivo di opporsi. Perché possa svolgere con autorevolezza questo ruolo lo nominerà segretario capo dell’Ufficio delle Province insorte chie- dendo l’annessione al Regno Sabaudo. Intanto sta per crollare il vecchio ordine delle cose sulla destra del Po: la duchessa Luisa Maria Borbone lascerà Parma il 9 giugno, due giorni dopo Francesco V abbandonerà Modena.
Ma nel mezzo c’è la guerra: Napoleone III parte da Parigi in pompa magna il 10 maggio salutato da una folla di operai che lo acclamano perché va a combattere contro l’Austria reazionaria. Si susseguono le battaglie, vittoriose, di Palestro e Magenta; l’8 giugno l’Imperatore e Vittorio Emanuele entrano trionfalmente a Milano. Ma poi arriva il bagno di sangue di Solferino: oltre diecimila morti, anche se le cifre si discostano non poco fra la versione dei fatti fran- cese e quella austriaca, tanto da rendere difficile appurare la verità. Perdite da ambo le parti, comunque, e spaventose, che indussero l’imprenditore svizzero Henry Dunant, testimone di quella battaglia e colpito dalla disorganizzazione dei soccorsi, complice una pioggia torrenziale, a ideare la Croce Rossa (per questo riceverà nel 1901 il primo Premio Nobel per la pace).
Napoleone rimane colpito dalla carneficina, gli sembra improv- visamente un prezzo troppo alto per la Francia, e, mentre si prospetta una logorante guerra di assedio alle inespugnabili fortezze austriache del Quadrilatero (Peschiera, Mantova, Legnago, Verona), Prussia e Russia fanno sapere che, se il conflitto andrà avanti, saranno co- strette a venire in aiuto di Francesco Giuseppe. Bisogna uscire dal pasticcio italiano.
Costantino così riassume il colloquio che ebbe con l’Imperatore: «Mi dice che per continuare la guerra avrebbe avuto bisogno di far venire dalla Francia centomila uomini e cento milioni di franchi». L’11 luglio a Villafranca, sede del quartiere generale austriaco, Na- poleone III incontra Francesco Giuseppe ed è l’armistizio, accet- tato subito da Vittorio Emanuele: al Regno di Sardegna va solo la Lombardia (a eccezione di Mantova che fa parte del Quadrilatero), mentre il Veneto resta austriaco. Quella giornata fu frenetica e piena dell’ira di Cavour che vide naufragare tutti i suoi progetti. Così la racconta Nigra in una lettera scritta molti anni dopo, il 23 ottobre del 1899:
Il giorno 11, poco prima delle dieci di sera, il Re andò in carrozza a trovare Napoleone a Valeggio [sul Mincio, N.d.R.]. Io accompagnai il Re in altra vettura nella quale ero solo. Arrivato a Valeggio, il Re salì al primo piano dove era Napoleone. Io e gli ufficiali di servizio rimanemmo a pian terreno. Il Principe Napoleone arrivò da Verona verso le dieci e un quarto; portava i preliminari di pace già firmati dall’Imperatore d’Austria. Salì dai due sovrani. Verso le 11 e mezzo il Re discese insieme al Principe e mi fece fare una copia dei preliminari. Partì dopo per Monzambano, accompagnato dal suo aiutante e seguito da me. Vi arrivammo a mezzanotte. Cavour attendeva nervoso, ecci- tatissimo. Il Re lo fece entrare insieme a me nel salone e mi ordinò di dare al Conte la copia che avevo fatto dei preliminari. Cavour prese il foglio e cominciò a leggere ma, prima di aver finito, buttò il foglio sulla tavola. Avvenne una scena tragica che racconterò un giorno, se così piace a Dio [sembra che Cavour perse completamente la testa, urlando che il Re era lui! N.d.R.]. Il Conte dette le dimissioni e io lo accompagnai a letto. In realtà Vittorio Emanuele si rivolse a Costantino in piemontese, furioso, in tono dispregiativo: «A-ié ‘l cont ëd Cavour ch’a veul andé a cogesse, ch’a lo compagna». Cavour si dimise e fu sostituito da La Marmora che formò il nuovo governo. La Seconda guerra di indi- pendenza era finita. Nigra, che era capogabinetto, scelse di farsi da parte e chiese un congedo straordinario di due mesi.
L’Italia di Garibaldi
I negoziati di pace si svolsero a Zurigo agli inizi di agosto e Nigra, no- nostante il congedo (ottenuto), venne inserito fra i partecipanti come collaboratore del rappresentante piemontese, Luigi Des Ambrois de Nevâche. Francesco de Sanctis, grande storico della letteratura italiana, all’epoca docente di letteratura italiana nella città svizzera, lo incontra in quella occasione e ne traccia un profilo interessante e malizioso, un po’ cattivello:
Ho conosciuto qui il Cavalier Nigra, l’amico di Cavour. L’avevo già veduto a Torino, giovinetto, timido, riservato come una donnina. La diplomazia lo ha cambiato. È divenuto un bel giovane con un cap- pellino all’Orsini e due mustacchietti biondi appuntati in giù, da dar sveltezza e rilievo alla faccia un po’ magrolina. Ha un’aria risoluta e un po’ da protettore, ed era bello sentirlo […]. Danza con grazia, schermisce con destrezza, cavalca egregiamente, sa il latino, il san- scrito, un po’ il francese, non so se anche il tedesco, ha molto teatro, pensa che l’uditore acquisti una buona opinione della sua intelligenza parlando di ornitologia, entomologia, ecc; e i buoni zurighesi sono ri- masti con tanto di naso ad ammirarlo; del resto, intelligenza chiara ma volgare, molta finezza negli affari, gran tatto nel conversare, adulatore sopraffino, tenero dell’abile e dell’utile, nato per fare son chemin nel mondo con l’Italia, o per mezzo dell’Italia, o contro l’Italia. Questa è la mia impressione: ti prevengo però che ci ho conversato una sola sera. Quanto a me, gli ho dovuto lasciare l’impressione di un buono a nulla, eccetto forse a insegnare la lingua.
Il rapporto con Cavour è ormai di grande confidenza e Costantino raccoglie tutto lo scoraggiamento del Maestro, che, dopo le dimissioni, si è rifugiato nella tenuta di Leri, un’area di ben 900 ettari nella campagna di Vercelli. Da lì scrive il 21 agosto: «Carissimo Nigra, se Villafranca mi ha separato da voi, non ha affievolito né la mia affezione, né la mia stima, né la mia fiducia illimitata nel vostro talento e nella vostra devozione alla causa dell’indipendenza della nostra Patria. Ridiventato soldato semplice di questa causa sacra, sono sicuro che vi troverò sempre in prima fila pronto a sacrificarvi per farla trionfare».
La situazione è, in effetti, complicata: le trattative di Zurigo si concludono il 10 novembre con l’annessione della Lombardia al Piemonte, a eccezione di Mantova e Peschiera (due delle fortezze del Quadrilatero), e con l’accordo, poi vanificato dagli avvenimen- ti, di operare una «restaurazione»: Modena, Parma, la Toscana, le Legazioni pontificie devono tornare ai «legittimi» Sovrani e tutti gli Stati, incluso il Veneto austriaco, essere riuniti in una confederazione presieduta dal Papa. Nessun accenno, invece, all’annessione di Nizza e della Savoia, concordata nell’alleanza franco-sarda, ma come po- teva esigerla Napoleone III dopo la mancata liberazione del Veneto? Tuttavia niente di quanto stabilito a Zurigo viene rispettato nei mesi successivi perché ormai l’unificazione della penisola è un pro- cesso inarrestabile che nella fase iniziale il governo piemontese non riesce a gestire: La Marmora, in una situazione così instabile, rivela tutta la sua inadeguatezza. Vittorio Emanuele capisce che soltan- to Cavour può discutere la pace con l’Austria all’interno di questo ginepraio; lo richiama nominandolo primo plenipotenziario alla Conferenza di pace che si terrà da lì a poco a Parigi (che in realtà non avvenne mai). Il Conte pone una sola condizione per tornare:
Nigra come capogabinetto. Così Costantino il 1° dicembre salta il Rubicone passando dalla carriera consolare a quella diplomatica: «incaricato d’affari» con uno stipendio di 6.000 lire annue. Così gli viene comunicata la nomina da Giuseppe Dabormida, ministro degli Esteri:
La molta e distinta parte da lei presa ai negoziati cui diede luogo la questione Italiana, l’utilissima opera ch’Ella prestò alla conferenza di Zurigo, la sua capacità e le sue cognizioni politiche, mi hanno consi- gliato di destinare la Sua S. Ill.ma al servizio delle Eccellenze il conte di Cavour e il cav. Des Ambrois de Nevâche nominati da Sua Maestà il Re a suoi plenipotenziari al congresso che sta per radunarsi a Parigi per prendere atto dei trattati di pace di Zurigo e regolare la questione Italiana.
Un’altra vita, sulla ribalta internazionale, e finalmente un ricono- scimento economico adeguato. Ma, nel privato, Costantino sta pa- gando un prezzo molto alto per la sua totale dedizione a un mo- mento storico esaltante, sostenuta da un’ambizione sfrenata e da un grande controllo delle proprie emozioni. L’allontanamento da Emerenziana è un dato di fatto, anche se apparentemente tutto fila liscio e i rapporti con il suocero Giovenale e la sorella di lei, Ida, si mantengono buoni (e tali rimarranno per tutta la vita). Ma i due si vedono pochissimo; Emerenziana si estrania sempre di più dal- la vita del marito e si dedica ai suoi studi, intrattenendo una fitta corrispondenza con il canonico Giovanni Spano, grande studioso di glottologia e archeologia, al quale, in una lettera, esprime «la sua riconoscenza perché lui ha saputo con tanta cortesia animarla allo studio». Sempre più si scava il solco fra due personalità lontane, due visioni diverse della vita, due mondi di valori inconciliabili. D’altro canto, Costantino, di origini borghesi e campagnole, ha ancora tutto da dimostrare, Emma, aristocratica, ricca, e piena di talento, non può capire il desiderio di ascesa sociale di un parvenu, e da «ragazzo emancipato» qual è grazie all’educazione paterna, vuole dare corso ai suoi interessi intellettuali e poco le importa di fare da spalla a un marito in carriera.
Nigra, di nuovo a Parigi, interpreta in questa fase un ruolo de- licato e importante: dagli amici vicini alla Corte, viene a sapere che l’Imperatore è l’ispiratore di un libretto intitolato Il Papa e il con- gresso, apparso la sera del 22 dicembre, in cui si sostiene la tesi che il Pontefice, per esercitare al meglio il suo potere spirituale, abbia bisogno anche di quello temporale, ma solo su un piccolo Stato, dove non ci siano guerra ai briganti, repressione di rivolte, questioni troppo «terrene». In pratica, Roma e un po’ di campagna intorno.
Sta di fatto che la Francia pare aver deciso il ritiro dei soldati da Roma non appena il Papa sarà in grado di difendersi con le proprie forze, un gesto filopiemontese, caldeggiato dall’onnipresente dottor Conneau. Ma Napoleone, in cambio, vuole Nizza e la Savoia; Nigra capisce che è l’unica cosa da fare se si vuole la piena accettazio- ne francese dell’annessione della Toscana, di Modena, di Parma e Piacenza, dell’Emilia-Romagna (i plebisciti si svolgeranno poi fra marzo e maggio – votavano soltanto gli uomini – con una vittoria schiacciante dei sì). Cavour, richiamato al governo il 20 gennaio 1860, approva la sua strategia e il 5 febbraio lo nomina reggente della Legazione del Regno di Sardegna a Parigi. Qui Costantino svolge al meglio il suo compito: è coinvolto in prima persona nell’organizzazione dei plebisciti a Nizza e in Savoia, proclamati da Vittorio Emanuele II il 24 marzo del 1860. Pochi giorni dopo Cavour scrive a Nigra: Vi ho inviato ieri copia del trattato firmato con il sig. Benedetti [nego- ziatore per la Francia della questione, N.d.R.] e vi ho trasmesso anche copia del memorandum segreto che contiene gli accordi per l’esecu- zione del trattato […]. Sono convinto che la maggioranza dei Savoiardi finirà per essere contenta della riunione alla Francia e che anche a Nizza si rassegneranno facilmente, purché si usi qualche attenzione. Credete Nigra alla mia sincera amicizia.
I plebisciti si svolsero poi senza problemi ad aprile.
Poco prima, il 26 marzo, Costantino è stato nominato da Cavour ministro e capolegazione a Parigi al posto del marchese Pes di Villa- marina. Per un uomo di soli 32 anni e non di nascita aristocratica, è un traguardo straordinario. Se ne rende ben conto il giovane di- plomatico che scrive al suo Maestro (ma viene da pensare che tutta questa modestia sia eccessiva…):
Signor Conte, non posso ancora abituarmi all’idea di diventare Mini- stro Residente a Parigi. La posta è talmente importante, la posizione è così pesante e difficile, io misuro bene le mie forze e le difficoltà immense del mio incarico, che questa idea mi spaventa. Penso che la mia nomina sia provvisoria […] La legazione del Re a Parigi deve essere convertita in ambasciata avente per titolare uno dei più grandi personaggi del nostro Paese. Ci vorrebbe un Ambasciatore di una certa età, avente una grande autorità, molto ricco, con una casa importante. V.E. mi lascerà sperare, penso, che una volta ristabilita la normalità, potrò venir sostituito da un titolare come lo si esige qui. Nell’attesa penso che la mia posizione non cambierà, continuerò a riportare le mie spese su note che mi verranno rimborsate dal Ministero […].
Lo stipendio di Costantino con il nuovo incarico passa da seimila a novemila lire annue, ma il diplomatico è «figlio di un Dio minore», non ha il supporto dei privilegi tipici degli aristocratici che facevano all’epoca quel tipo di carriera: relazioni, beni e rendite personali tali da permettere un tenore di vita alto indipendentemente dallo stipendio. Logico, perciò, che il parvenu approdato a quell’incarico solo per doti personali, si preoccupi di chi paga.
Ma di lì a poco, grazie alla presentazione di Cavour e all’influente Anastasia, contessa di Circourt, amica fidata della causa italiana, animatrice di un famoso «salotto», Nigra entrerà in relazione con il bel mondo e con il ramo francese della famiglia Rothschild tanto che scrive al suo Maestro: «Il barone James de Rothschild [a capo della potentissima casa bancaria di Parigi, N.d.R], che vedo sovente mi dimostra molto affetto e mi rivolge spesso domande alle quali non posso rispondere […]». Diventa amico dei due figli del barone, Gu- stave e Alphonse, e, nel suo nuovo ruolo, comincia a brillare a Corte: già la sera del 6 maggio Nigra apre il ballo alle Tuileries offrendo il braccio alla principessa Clotilde e alle domande su Garibaldi, e sulla sua spedizione di cui tanto si mormora, risponde, diplomaticamente e con una bella faccia tosta, di non sapere nulla.
In realtà proprio quel giorno è partita da Quarto l’Impresa dei mille. Impresa che avrà toni tumultuosi: Garibaldi il pomeriggio del 9 è già a Marsala e da lì conquista la Sicilia nel giro di due mesi e mezzo grazie alla determinazione delle sue «camicie rosse» e all’ap- poggio della popolazione insorta contro i Borboni. L’Italia sembra prendere forma, ma a Parigi inizialmente tutto questo viene accolto con una grande ilarità, mentre Cavour da Torino pressa Nigra per capire come si sta ponendo Napoleone III di fronte a una situazione in rapidissima evoluzione, ma che si rivela maledettamente seria quando Garibaldi, il 18 agosto, passa lo Stretto di Messina, approda in Calabria e il 7 settembre entra trionfante a Napoli. Il re Francesco II e la regina Sofia si rifugiano a Gaeta (dove l’assedio, iniziato in novembre si concluderà con la vittoria dei piemontesi nel febbraio 1861 e la fuga dei Sovrani a Roma).
Intanto la Corte del Secondo Impero se la spassa al Castello di Fontainebleau, suo luogo di villeggiatura estiva; nelle ore più calde l’imperatrice Eugenia organizza sciarade. In questo momento, ov- viamente, va di moda Garibaldi, come racconta Nigra a Cavour in una lettera del 19 giugno:
Si voleva sceneggiare una sciarada su Garibaldi ma il nome non si prestava e si ripiegò su Gargantua; si è divisa la parola in tre parti, gare, gant, tua. La prima è stata figurata con l’inaugurazione di una stazione ferroviaria […] Per la seconda parte l’Imperatrice ha getta- to in lizza un proprio guanto, e i cavalieri, a cavallo delle seggiole e con stecche per biliardo come lance, hanno disputato il torneo; per la terza parte si uccise in effige un personaggio mitologico qualunque […]. Rimaneva l’intero […]. L’imperatrice ebbe una trovata sublime: fece mettere gli occhiali a un invitato e gli disse: «Voi sarete il conte di Cavour che è il Gargantua dei tempi moderni». Mi si domandò il permesso. Acconsentii […].
Lo scherzo ebbe eco, oltre che sulla stampa parigina, su quella tori- nese: il giornale «L’Armonia» poco dopo dedicava un articoletto al Gargantua dell’Italia. Ma pare che il Conte non se ne ebbe a male. Altre erano le sue preoccupazioni in quel momento: Garibaldi, vitto- rioso a Napoli, si era pronunciato a favore di una possibile marcia su Roma. Napoleone III, il 9 settembre, manda a re Vittorio da Marsiglia un dispaccio minaccioso: V.M. sa quanto io sia devoto alla causa dell’indipendenza italiana, ma non saprei approvare i mezzi che sono stati impiegati oggi perché questi mezzi vanno contro l’obiettivo che ci si propone. Se è vero che senza ragioni legittime le truppe di V.M. entrano negli Stati di San Pietro, io sarò costretto ad oppormi. Dò l’ordine oggi stesso di aumentare la guarnigione su Roma. La prego di credere comunque ai miei senti- menti di amicizia. Napoleòn.
Pochi giorni dopo Cavour scrive a Nigra: Voi sapete tutto quello che ho fatto per prevenire Garibaldi a Napoli […] Ma allorché Garibaldi, già padrone della Sicilia, era avanzato trionfal- mente sino a Salerno senza trovare ostacoli, è stato impossibile sbaraz- zarlo da Napoli, derubargli in un colpo solo il frutto delle sue vittorie. Allora ho scelto la conciliazione […] Ma qualunque cosa sia, vedo con riconoscenza che l’Imperatore aumenta la guarnigione di Roma. Rassi- curando il mondo cattolico sui presunti pericoli di San Pietro, il Governo francese ci rende un gran servigio. Allo stesso tempo ci rinforza la difesa contro Garibaldi che, spero, finirà per darci ragione. Queste spiegazioni sono per Voi soltanto. Vi invierò domani un Memorandum che contiene l’esposizione dei motivi che ci obbligano ad adottare questa politica. Ne farete comunicazione al signor Thouvenel [ministro degli Esteri francese dopo le dimissioni di Walewski, N.d.R] e vi impegnerete a spiegargli che la nostra condotta, poco abile forse, è sempre ispirata dal desiderio sincero di non creare imbarazzi alla Francia. Vogliate gradire […].
La crisi entra nel vivo con il richiamo dell’Ambasciatore francese a Torino e la richiesta da parte del governo che il Regno di Sardegna faccia la stessa cosa. Segue una fitta corrispondenza tra Cavour e Nigra, al termine della quale il diplomatico chiede udienza a Napo- leone per prendere congedo. Di questo incontro, che avviene il 26 settembre, così relaziona al Presidente del Consiglio: Fui ricevuto oggi in udienza di congedo a Saint Cloud dall’Imperatore. Dissi a S.M. che il Re era dolente che gli ultimi eventi d’Italia avessero messo l’Imperatore nella necessità di interrompere le regolari relazioni diplomatiche tra i due Governi pur ora alleati; che il mio richiamo non aveva nel pensiero del Regio Governo alcun carattere ostile […] che questa interruzione non diminuiva in noi la fiducia nelle buone intenzioni dell’Imperatore verso l’Italia e verso il Governo del Re […]. Rispose S.M. manifestando pur esso vivo dispiacere […] espresse pur egli il desiderio di potere nel più breve termine possibile rannodare le relazioni diplomatiche, raccomandò moderazione e prudenza […]. Riservandomi di esporre a V.E. di viva voce alcune altre cose che non possono trovar luogo nella corrispondenza d’ufficio e prevenendola che partirò lunedì 1° ottobre, dopo fatte le visite d’obbligo, Le offro etc. […].
Un gioco di fioretto in cui Costantino è abilissimo, ma appare evi- dente che l’alzata di scudi di Napoleone III è solo un espediente per nascondere la sostanziale complicità della Francia rispetto a quanto sta avvenendo: la strategia dell’Imperatore va verso il progressivo disimpegno da Roma perché il legame col Papato lo ha esposto alle critiche dei movimenti liberali di tutto il continente e ai continui ricatti dei cattolici in Patria. Intanto le truppe piemontesi sono en- trate nello Stato Pontificio e alla fine di settembre Ancona si è arresa. D’altro canto, a difendere Roma dai 20mila garibaldini o andavano i Piemontesi o avrebbe dovuto provvedere Napoleone stesso, sbar- cando uomini e mezzi a Civitavecchia, un bel disastro. Meglio così. Quando tutto può ancora capitare con l’impresa garibaldina, Nigra scrive a Cavour, con un realismo (o cinismo?) che rivela an- che la sua poca simpatia per Garibaldi, forse dovuta all’affinità con il Maestro che dal Generale veniva accusato di servilismo verso la Francia, di pusillanimità, e d’altro ancora: Il movimento italiano inclina verso l’unificazione, è incontestabile. Nessuna forza umana, ne sono convinto, potrà arrestarlo […]. Garibal- di è lo strumento cieco che lavora inconsciamente a questo fine. Non ne tema l’influenza, egli si logorerà nel compimento della sua opera e non sarà lui a raccogliere il frutto delle sue azioni. Garibaldi non è capace che di distruggere. Quando si tratterrà di edificare, sarà verso il Maestro che si rivolgeranno gli sguardi.
Parole profetiche: il 26 ottobre il Generale e re Vittorio si incontrano a Teano: Garibaldi cede, nessuna marcia su Roma e il Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Finisce l’Impresa dei mille: Garibaldi, do- po aver ottenuto che i suoi soldati entrino nell’esercito piemontese mantenendo il grado ottenuto come «camicie rosse», esce di scena. Andrà a Caprera. Il proseguimento della guerra rivoluzionaria fino alla liberazione di Roma e la convocazione di un’assemblea costi- tuente nazionale resta per ora un sogno irrealizzato. Il 4 novembre 1860 il plebiscito siciliano conferma l’annessione ai Savoia.
Verso l’Unità d’Italia
Costantino con l’interruzione dei rapporti diplomatici è rientrato a Torino e da lì intrattiene una fitta corrispondenza con il principe Girolamo che in una lettera, con grande acutezza, gli scrive: «Evitate di piemontesizzare l’Italia, cosa che abbiamo visto fare con qualche ragione. Andate a Firenze sino a che non potrete entrare in Roma». Dovrebbe essere finalmente arrivato per lui un momento di pausa da dedicare alla famiglia, ma il suo matrimonio è ormai compro- messo in modo irrimediabile. È di questo periodo l’ultima fotografia in cui Emma e Nigra sono ritratti insieme, con il piccolo Lionello e il padre di lei. Ormai le loro esistenze corrono su binari separati; da lì a poco Emerenziana lascerà la bella villa di Pecetto, portata in dote a Costantino, a 10 chilometri da Torino, famosa per le sue piante e la sua serra, e tornerà, con il piccolo Lionello, dal padre alla Vigna di San Vito, ponendo fine al suo matrimonio. Costantino rimarrà a Pecetto, che diventerà negli anni la sua residenza a Torino (per quel poco tempo che trascorrerà in Piemonte negli anni successivi). Una separazione che avviene in un clima di grande riserbo, tipico dei due, e, a quanto pare, senza drammi. Costantino, alla fine dell’anno, ha da Cavour un’ulteriore promozione: diventa inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Parigi, raggiungendo l’apice della car- riera a soli 32 anni, con uno stipendio di 15mila lire annue.
Ma l’inizio del 1861 anziché a Parigi lo vede a Napoli, nominato quasi all’improvviso segretario generale della luogotenenza. D’altro canto, la «questione meridionale» era spinosa e Cavour, non potendo andare di persona, aveva ben pochi fedelissimi su cui contare per una missione tanto delicata. Dopo il fallimento di Luigi Carlo Farini, ministro dell’Interno, che aveva operato molto bene nell’annessione dell’Emilia-Romagna, ma che a Napoli era riuscito a farsi nemici e creare malcontento nell’arco di meno di un mese, bisognava an- dare sul sicuro. Il Conte scelse il suo protetto, cui andava il titolo di governatore delle Province meridionali, mentre il cugino del Re, Eugenio di Carignano, diventava luogotenente. Il compito era ar- duo: si trattava di andare in un Regno che, visto con gli occhi dei piemontesi, doveva essere completamente riorganizzato o, meglio, rigirato come un calzino.
Cavour indora la pillola a Costantino in una lettera del 31 di- cembre: «Non sono delle belle strenne che vi offro. Ma è una nuova occasione di rendere immensi servigi al nostro Paese e di contri- buire con vigore al trionfo della causa per la quale la nostra vita è consacrata […]». E precisa che si tratta di una missione a breve termine, destinata a cessare il giorno in cui le relazioni ufficiali con la Francia gli avrebbero permesso di tornare a Parigi a svolgere il suo ruolo di ministro plenipotenziario. Costantino mette subito le cose in chiaro, quando vuole, non ha molti peli sulla lingua; precisa che è sua intenzione riservarsi un ruolo limitato. D’altro canto, non gli è stato dato il tempo per prepararsi in modo ragionevole a una missione così impegnativa.
Nella prima settimana di gennaio del 1861 Nigra si avvia, per mare, insieme al principe Eugenio, verso Napoli. Quasi una terra da conquistare, come scrive il conte lombardo Guido Borromeo, uomo vicino a Cavour e molto conservatore: «Tutta la questione italiana è ora a Napoli. Riuscire costì è fare l’Italia. Ci vorranno due generazioni prima che il rubare, il mentire, il truffare siano costì considerate azioni non proibite soltanto dal Codice […]». Un’inte- grazione difficile quella del Mezzogiorno nel nascente Regno d’Italia perché non c’era stata la spinta pacifica all’annessione, come in To- scana, ma una battaglia a campo aperto fra Borboni (che non erano ancora capitolati a Gaeta, accadrà solo nel febbraio) e piemontesi e garibaldini, con una classe dirigente restia a schierarsi a favore del nuovo ordine delle cose.
Il 12 gennaio Nigra è già a Napoli, ma l’incontro con la città non è dei migliori, come racconta lui stesso: «Il primo giorno, o meglio la prima notte, che i miei cavalli, giunti da Torino, passarono nelle scuderie di Palazzo Reale, furono sferrati da mano ignota, che ha venduto i ferri per cavarne i pochi soldi che valgono […]». Nella sua valigia c’è un memorandum di provvedimenti suggeriti da Cavour e lui, diligentemente come sempre, si dà da fare per metterli in atto. Anzitutto devono essere estesi al Mezzogiorno il codice penale, il codice di procedura penale e l’ordinamento giudiziario del Regno Sabaudo, approvati nel 1859, dopo l’annessione della Lombardia. Poi deve diventare legge anche nel Mezzogiorno la normativa pie- montese del 1855 con cui erano stati soppressi gli ordini religiosi. Già alla fine di gennaio Costantino ha messo in cantiere un bel po’ di cose come scrive a Cavour:
Mi occupo dei lavori pubblici. Posdomani vado a Capua a sollecitare i lavori della ferrovia […]. Le province sono in una vera anarchia governativa: comincio a mettervi riparo. Poste e telegrafi sono pure in cima ai miei pensieri. Farò mettere due fili telegrafici invece d’uno. Apro fra due giorni il liceo di Napoli. Stabilisco scuole serali e scuole normali per fare dei maestri che non esistono. Le difficoltà sono inau- dite: incapacità, corruzione, inerzia, tutto vi si rompe in mano […].
Cavour incalza Nigra di continuo, lui che ignora quel che c’è a sud di Firenze (non mi attira affatto, confessò una volta!) e non si rende conto che i tentativi maldestri di piemontizzazione rischiano di pro- durre danni insanabili. Ma, oltre a non conoscere il tessuto sociale del Mezzogiorno, Cavour e quasi tutti i suoi uomini sono pieni di pregiudizi, leghisti, visti con gli occhi di oggi; il ravennate Farini scrive: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civile». Per lo stesso Massimo D’Azeglio, uomo di grande cultura e respiro etico, fondersi con i napoletani è come «mettersi a letto con un vaioloso». Mentre il bolognese Minghetti, neoministro dell’Interno, è convinto che «un po’ di metodo soldatesco sia medicina salutare a codesto popolo». Ma la perla è Cavour, restio ad assorbire i soldati ex borbonici nelle file dell’esercito regolare per non ammorbare la suprema garanzia del Regno Sabaudo «con quella peste […] accozzaglia di gente piena di vizi fisici e morali». Mentre il suo Maestro, ottusamente, continua a pensare che, una volta costituita una buona amministrazione, il sud si avvierà verso gli standard del Piemonte, Costantino capisce, già pochi giorni dopo il suo arrivo a Napoli, che a nulla serviranno le maniere forti e le leggi imposte dall’alto. Bisogna farsi accettare, crearsi degli amici, por- tare dalla propria parte quell’aristocrazia «nostalgica» dei Borboni, ancora speranzosa che re Francesco possa partire alla riconquista delle Due Sicilie.
Ma Cavour ha un chiodo fisso, quello dei soldi: «Una volta presa Gaeta, non transiga più con coloro che rubano e con quelli che non vogliono pagare». Peccato che i Borboni quanto a tasse fossero sempre stati di manica larga: era quasi impossibile imporre improv- visamente un carico fiscale senza dare niente in cambio. Costantino si rende conto che non si può pretendere che il Mezzogiorno ami una Patria che non ha mai vissuto come protettrice. Di fatto, vede un Paese profondamente diverso dal Piemonte: la medicina salutare per Torino, buona amministrazione, ordine, tasse eque, rischia di aggravare un malato già cronico.
Certo, manca il lavoro, ma Nigra, a differenza di Cavour, si rende conto che all’origine c’è il vuoto di una borghesia operosa, perché non cedono le vecchie strutture feudali. Scrive il diplomatico: «[…] Industrie e commerci non si fondano che con l’azione lenta delle libere istituzioni, con l’iniziativa privata; non si muta in un istante un popolo soggetto da lunghissimo tempo alla schiavitù [...]; l’opinione pubblica non si crea che con l’esercizio della libertà; non si cancel- lano d’un tratto le vestigia profonde di una secolare oppressione». Costantino – e qui Cavour lo appoggia – programma la nascita di scuole tecniche «per crescere una generazione di abili e capaci pro- duttori, per aiutare l’agricoltura, l’industria, il commercio».
In mezzo a enormi difficoltà, non ultima l’ira del Principe di Carignano che si risente perché il Re e Cavour gli impediscono di andare a Gaeta dove Francesco II è asserragliato nella fortezza e infuria la battaglia, il diplomatico svolge un gran lavoro. Soprattutto nell’accelerare la costruzione di ferrovie, fiore all’occhiello dell’idea piemontese di Stato, come testimonia questa lettera al Presidente del Consiglio del 30 gennaio: «Comincerò i lavori stradali per conto del Governo sulla linea del Tronto a Pescara […]» e, ancora, il 5 feb- braio: «Ho visitato ieri il tratto di ferrovia tra Sarno e San Severino. Fra quindici giorni l’aprirò al pubblico. Fra un mese andremo sino a Salerno». Il clero dà non pochi problemi a Nigra che scrive al ministro della Giustizia Giovanni Battista Cassinis:
Il Clero napoletano può considerarsi diviso in due: una parte assai numerosa è composta di preti e di frati, i quali furono vittima sotto al passato Governo del loro amore alle istituzioni liberali; e soffrirono atroci condanne seguite da lunghe e dure prigionie. Costoro acclamano e benedicono il nuovo Governo ma implorano, per le passate sciagure, rimborsi e compensi. L’altra parte del Clero, legata alla passata dinastia, è portata ad avversare il Governo dalle istruzioni mandate dalla Casta di Roma. Pochi sono i Vescovi che hanno mostrato animo liberale e propizio al nuovo ordine delle cose […].
Il cardinale di Napoli Riario Sforza insieme ad altri 70 vescovi, è, addirittura, sospettato di essere favorevole ai briganti e di alimentare, perciò, la rivolta armata. Ma Nigra non vuole le maniere forti, pensa che l’unico argine al fenomeno, sempre più preoccupante, sia una politica di distensione, legare più gente possibile alla politica del nuovo governo. Tuttavia si ritrova solo su questa linea; Cavour non l’approva, anzi continua a tuonare sulle tasse. Gli scrive il 4 marzo: Ella ha operato molti miracoli e ha pienamente corrisposto alla mia aspettativa. Sopra un punto solo non sono soddisfatto. Ed è l’articolo delle Finanze. Ho visto una serie di decreti che mi addolorano. Milioni assegnati non so a quali martiri; nuovi impieghi creati […] insomma l’applicazione del sistema che consiste nel conciliarsi gli animi a spese del Tesoro dello Stato. La supplico quindi di non consentire a nessuna nuova larghezza […].
Immediata la reazione di Costantino: Quando venimmo qui, trovammo il Paese irritato e malcontento. Farini [suo predecessore, N.d.R] e i suoi consiglieri impopolarissimi. Il nome di V.E. impopolare anch’esso. Di me si diffidava. Ora si va dileguando l’impopolarità del Re e il Principe comincia a guadagnare nella sim- patia del pubblico. Io pure comincio a ispirare una certa fiducia. Ma tutto questo è il risultato esclusivo della dura prova sostenuta; gli errori commessi han servito a questo scopo. Essi però non sono gravissimi né irrimediabili. E poi, finalmente, si sfoga: Abbiamo infiniti soldati borbonici sbandati, senza occupazione, sen- za vitto. Abbiamo i briganti che in primavera occuperanno i monti. Abbiamo il clero nemico, i Garibaldini malcontenti, irritati, affamati. L’aristocrazia avversa fa il lutto dei Borbonici a Portici. I devoti sono in soqquadro per l’abolizione dei conventi […]. Ecco in qual bolgia mi ha mandato. E per sopramercato, pochi carabinieri e poca forza nelle provincie. Pessima stampa. Popolo docile sì, ma instabile, ozio- so e ignorante. Viveri relativamente cari. E in capo a questo quadro la figura gigantesca di Garibaldi, che grandeggia dal suo scoglio di Caprera, e getta fin qui la sua ombra. Lei mi chiede miracoli. E sarà miracolo davvero se non naufrago. Si tratta sostanzialmente di un dialogo fra sordi, uno vuole il pugno di ferro, l’altro cerca una politica di distensione.
In realtà, Nigra, pur intuendo che le direttive del governo per la piemontizzazione erano pericolose, non si rivelò capace di ela- borare una politica sociale per il Mezzogiorno, ad esempio una riforma agraria che legasse i contadini alla terra e li sfamasse, né di imporre con maggiore forza certe misure indispensabili, come un riassetto delle finanze. Anzi, in quattro mesi il capitolo «spese» del Napoletano aumentò di cinque milioni. Era un diplomatico, un mediatore e quel che capì della questione meridionale non trovò l’appoggio di Cavour.
Il 17 marzo 1861 nasce il Regno di Italia e re Vittorio si rende di nuovo impopolare agli occhi dei napoletani perché non vuole diventare Vittorio Emanuele I, ma resta II di Savoia. A maggio il principe Eugenio di Carignano dichiara finita la sua missione e ri- entra a Torino. Nigra lo segue e, per la prima volta, sperimenta sul campo che la ricetta di Cavour per fare l’Italia non è infallibile, ma vive questa perdita di sintonia con il Maestro come un suo personale fallimento. Torna a Torino accompagnato da molte critiche e la sua relazione finale sulla luogotenenza napoletana del 20 maggio, resa pubblica dalla stampa, pare un tentativo di autoassoluzione perché è una dura requisitoria sui mali del sud.
Proprio in quei giorni Cavour accusa una delle sue solite indi- sposizioni. Questa volta, però, il disturbo si aggrava e diviene serio nell’arco di poco tempo con accessi febbrili intermittenti e delirio. Il 6 giugno alle 7 di mattina lo statista muore improvvisamente, ri- fiutando il chinino, a soli 51 anni. E forse quella medicina, anziché i salassi cui si sottopose più volte, avrebbe potuto salvarlo, visto che oggi si ritiene che il Conte fosse un malarico cronico (avrebbe contratto la malattia nelle risaie del Vercellese) e che quelle febbri ne fossero l’espressione. Pare che le sue ultime parole furono: «L’Italia è fatta, tutto è salvo».
Costantino rimase come tramortito: fu un grande dolore e la fine di un’epoca della vita; il suo legame con il Maestro lo spinse a dare ospitalità (uno scandalo all’epoca) al sacerdote che aveva somministrato a Cavour, nonostante fosse scomunicato, l’estrema unzione sul letto di morte, padre Giacomo da Poirino. Sacerdote del- la Chiesa di Madonna degli Angeli a Torino, fu punito dal Vaticano per questa assoluzione «non gradita» con una sospensione a divinis e l’allontanamento dalla Chiesa, ovvero niente più casa né vitto. Ci pensò Nigra (insieme a re Vittorio che gli concesse una rendita) si- stemando per lui parte delle arancere erette dal suocero nella sua villa di Pecetto e provvedendo al suo sostentamento, in mezzo a molte polemiche. Il parroco del paese, non tollerando la vicinanza di un prete scomunicato, negli anni successivi portò avanti una campagna violenta contro il diplomatico, riuscendo a dividere la popolazione in due fazioni, una favorevole, l’altra avversa al povero sacerdote.
Oltre al dolore per la perdita del Maestro, Costantino a Torino si trovò investito da un’ondata di polemiche per la sua improvvisa elezione, alla fine di agosto, a gran maestro del Grande Oriente ita- liano. In realtà la sua adesione alla Massoneria risaliva al 1860 – fu tra i primi iscritti alla loggia Ausonia di Torino – ma la nomina parve frutto del legame di Nigra con la Francia di Napoleone III. La loggia era nata, infatti, sotto la spinta del Grande Oriente francese e vi avevano aderito tutti gli uomini del conte Benso. La circolare di Livio Zambeccari (personaggio chiave della rifondazione della Massoneria italiana) del 12 giugno 1861 non ne faceva mistero: La morte avendo prematuramente rapito all’Italia S.E. il conte di Ca- vour, al quale senza dubbio avremmo offerto il martello di Gran Mae- stro, noi e molte Logge abbiamo intenzione di offrirlo al suo discepolo, S.E. il Commendatore Costantino Nigra; egli è molto benvisto a S.M. l’Imperatore Napoleone III ed è l’amico del principe Napoleone. Nigra dichiarò di accettare la carica solo per dovere di obbedienza (si dimise pochi mesi dopo), ma cercò di favorire anche in questo settore una mentalità dinastico-unitaria con la creazione di logge nelle terre appena entrate a far parte del Regno d’ Italia. Strana e abbastanza incomprensibile risulta poi la negazione che fece di que- sta esperienza nel 1899 quando gli fu chiesto di concedere una sua fotografia da esporre nel salone di Palazzo Giustiniani fra quelle dei Gran Maestri del passato: «Io non ebbi mai l’onore di aver diretto in qualsiasi momento la Massoneria italiana, né feci mai la professione di massone […]». Tante polemiche e amarezze, ma Nigra se le lascerà presto alle spalle; è in partenza per Parigi dove lo aspetta una brillante carriera diplomatica. Rimarrà nella capitale francese per molti anni, vedrà il trionfo, i fasti, e il crollo del Secondo Impero.
Ambasciatore a Parigi
Siamo alla fine di luglio del 1861: Cavour è morto da poco più di un mese, non si è ancora spenta l’enorme eco che la sua scomparsa ha suscitato in tutta Europa, ma Costantino è già a Parigi a occu- pare quel posto di ministro plenipotenziario del Re d’Italia, cui è stato destinato. Tutto gli appare improvvisamente diverso: la città grigia ed estranea, il compito pesante. In lui qualcosa di profondo è cambiato: la perdita dello statista, così inaspettata, dopo il gran- de dolore dell’immediato, gli ha lasciato un senso di vuoto, quasi che, mancando il Maestro, l’allievo si senta un albero senza radici. Ricorda la frase che lui gli disse, già in preda alla febbre, due giorni prima di morire quando Costantino lo invitava a riposarsi: «I l’hai ancora doe còse da fé, Venessia e Roma. Ël rest a lo faran peui lor». E questo compito Costantino lo sente sulle spalle, gravoso perché manca la scintilla e la guida del Conte. «Nigra dalla morte di Cavour non è più il Nigra di prima» commentava Ottaviano Vimercati, uf- ficiale e diplomatico milanese, dopo averlo incontrato all’Opéra al suo rientro nella capitale francese.
Costantino non ha una particolare sintonia con Bettino Ricasoli, il nuovo Presidente del Consiglio. Il Barone di ferro (così veniva soprannominato per l’intransigenza etica l’aristocratico toscano) ha su Roma una posizione molto lontana dalla sua; ritiene che si tratti di una questione squisitamente italiana, alla quale la Francia potrebbe tutt’al più dare il benestare. In aggiunta, re Vittorio non ha mai avuto Nigra in gran simpatia perché era l’uomo di Cavour e ora teme che, visti i suoi legami con Napoleone III, sia troppo filofrancese. E nella nomina a Parigi, dicono le malelingue, non è estranea la Massoneria, cui appartengono sia Napoleone III sia il principe Gerolamo, tanto che la stampa clericale velenosamente scrive: «Il Nigra non ha niente di straordinario, ci sono migliaia di giovani che valgono in Piemonte quanto egli può valere. Ma egli era buono e caldo e zelantissimo framassone e la Framassoneria italiana e francese lo portò ai primi onori». Insomma, un ritorno sulla scena parigina complicato e in so- litudine; il legame con Emerenziana è chiuso e sta emergendo il problema di Lionello, bambino difficile, forse anche per il carattere introverso e sempre più sospettoso di sua madre. Stretto, invece, e affettuosissimo è il rapporto con il fratello Mi- chelangelo, medico e pediatra, al quale scrive in settembre: Carissimo fratello, ti mando il forcipe oggi stesso e il Caseau [un tratta- to di pediatria, N.d.R.], edizione del 1862; vedi se è recente! Ti mando inoltre il più bel fucile che sia uscito dalla Manifattura imperiale di Saint Honoré. Fu fatto appositamente per me con molta cura dal signor Escoffier, direttore dello stabilimento. È un’arma di tutta precisione e di lavoro finito di cui non si può avere il simile per 1000 franchi in tutta Francia e Navarra. Domenica scorsa nel parco dei Rothschild, a La Ferriére, uccisi, nella giornata, 55 tra pernici e lepri. Vero che ce n’era come l’arena del lido, e alcuni dei miei compagni ne uccisero fino a ottanta in cinque ore di caccia. Troverai forcipe e fucile alla Maternità insieme a questa mia. Tuo affezionatissimo fratello […].
Con la famiglia della moglie i rapporti sono comunque ottimi, so- prattutto con il suocero Giovenale con cui mantiene un intenso scambio intellettuale; certo è che Costantino a Parigi è solo e talmen- te riservato sul suo matrimonio fallito che molti lo credono celibe. Il dialogo con Emma è inesistente e per quanto riguarda l’educazione del bambino (che fino al 1865 vedrà pochissimo) è mediato dalla sorella minore, Ida, donna vivace e piena di interessi. Appassionata di musica, si cimentò anche con la composizione per pianoforte – La tradita, una romanza in chiave di sol –, scrisse diversi racconti e fiabe per bambini e si dedicò a raccogliere la bibliografia delle scrittrici italiane dell’Ottocento. A lei il poeta Aleardo Aleardi dedicò una delle sue Poesie Volanti, pubblicate nel 1864. Ida sposò un nobile napoletano, Nicola Melisurgo, funzionario delle ferrovie, dal quale ebbe un figlio, ma vegliò sempre su Emma e, alla morte del marito, tornò a vivere con lei nella Vigna di San Vito, la casa paterna sulle colline torinesi. Le cose private non vanno bene al giovane diplomatico, Parigi è Parigi, centro internazionale di mondanità, di cultura e di arte. La sua nuova posizione gli permette di accedere a Corte (basta con gli incontri segreti!) e di entrare in relazione con ricercatori e glottologi di tutta Europa. Può così approfondire gli studi sui Canti popolari del Piemonte, sua passione da sempre, opera che, come abbiamo già detto, venne pubblicata con successo a puntate dal 1858 al 1862 sulla «Rivista Contemporanea» di Luigi Chiala, scrittore e politico. Questo tipo di studi era estremamente in voga nella cultura romantica dell’epoca: proprio in quegli anni vennero date alle stampe grandi raccolte di canti, poesie e racconti popolari in vari Paesi, in Russia a partire dal 1855, in Danimarca dal 1853, in Francia dal 1860, in Bulgaria dal 1861. E Parigi era un crocevia fondamentale per gli scambi fra studiosi. Per Nigra è l’occasione di una grande crescita culturale, anche se la politica gli riserverà qualche amarezza.
Poi c’è il bel mondo del Secondo Impero. Un mondo straordi- nariamente moderno con l’ascesa dei grandi chef, dei primi nomi dell’alta moda, delle donne immagine dell’epoca, le «veline», direm- mo oggi, la contessa Walewska (fiorentina, nata Ricci, moglie del Ministro degli Esteri, amante dell’Imperatore dopo la Castiglione), la Principessa di Metternich, la Contessa di Castiglione che riap- parirà a Corte nel 1863 dopo il lungo esilio. Queste signore fanno gruppo in una sorta di franco-massoneria, tanto da prendere il no- me di Canaillettes. La vita si dipana fra teatri, salotti, balli, tableaux vivants, corse di cavalli e stazioni termali. Sono i tempi delle feste a Compiégne, a Vichy, a Fontainebleau, a Biarritz. A Corte vige un cerimoniale complicatissimo, etichetta che contrasta con la «manica larga» degli ammessi: non soltanto signori di sangue blu e di alto lignaggio e ambasciatori, ma anche gente che ha fatto soldi con l’industria e le banche, letterati e artisti. Una Corte al passo con i tempi che cambiano, una specie di anticipazione del Principato di Monaco. L’Impero è una festa continua che propaga i suoi costumi dall’alto verso il basso: i borghesi imitano gli aristocratici; il popolo, a sua volta, fa di tutto per imitare i borghesi. In questo contesto il corpo diplomatico straniero è ricercato e festeggiato. Pare che i governi dei vari Paesi facciano a gara nell’in- viare a Parigi ambasciatori eleganti, colti, brillanti. I più «corteggia- ti» sono gli austriaci, poi i prussiani e gli italiani, meno gli inglesi, abbastanza trascurati i russi.
Intanto, anche la città ha cambiato aspetto. Napoleone III, fin dai suoi primi anni di regno, si è dato da fare per creare grandi viali, costruire parchi, restaurare gli antichi edifici, realizzare il suntuoso quartiere dell’ Ètoile, unire il Louvre alle Tuileries, spazzando via i vecchi fabbricati popolari. Una grande, fastosa capitale che cor- risponda all’idea di solidità del Secondo Impero, sgargiante con i suoi riti e le grandi feste. Alle Tuilieres, palazzo simmetrico al corpo centrale del Louvre, hanno luogo i ricevimenti per Capodanno, Car- nevale, l’apertura dell’attività legislativa, Ferragosto (data di nascita del grande Napoleone), con migliaia di invitati, un’etichetta rigida e danze nel Salone dei Marescialli. Le signore arrivano scortate dal loro personale carico di bauli perché si cambiano d’abito più volte nel corso della serata (l’Imperatrice ha il vezzo di non mettere più di un volta un abito, donando quelli già usati alle cameriere che alimentano un prevedibile e fiorente mercato di vestiti «da regina») e per Capodanno devono indossare il mantello di Corte, un lungo strascico della stessa stoffa del vestito. Meno irrigiditi dal protocollo i balli del «lunedì dell’Imperatrice» per 500 persone, che si tengo- no nel salone blu. Molto in voga i balli in costume. Al Castello di Compiégne, dove la Corte passa buona parte dell’autunno, le per- sone vengono ospitate per categoria: diplomatica, militare, artistica, mondana, aristocratica. Ogni gruppo è composto da 80 persone che si trattengono per quattro giorni, dedicandosi a balli al suono della pianola, a giochi di società, sciarade, quadri viventi. Di queste serate i giornali parigini danno ampio resoconto e la borghesia cerca di imitare i divertimenti reali; i quadri viventi sono una passione collettiva, anche fra le famiglie modeste, e si fanno spesso a scopo di beneficenza.
La cucina diventa spettacolo: compaiono i grandi chef (il più importante, Urban Dubois, che nel 1868 pubblica Cuisine de tous le pays, études cosmopolites, libro base della cucina francese), si scelgo- no fantasiose definizioni per i piatti (capretto dei boulevard, coniglio di grondaia) e decollano le riviste di gastronomia. Il piatto forte è la carne: come entrée sotto forma di arrosti, come relevé de potage (il bollito servito subito dopo la minestra), come entremets (piatti intermedi leggeri) accompagnati da verdure, uova, terrine varie. Poi un trionfo di dessert: dolci, formaggi, frutta, soufflé, gelati, cassata, pasticcini. A Corte per una cena si mettono in tavola 20 portate e sette dessert, con i relativi vini.
Nigra in questo ambiente accumula consensi, sa ballare, conver- sare, è elegante, colto, appropriato. Con Napoleone III i rapporti con- tinuano a essere di grande cordialità, quasi d’intimità: i due fumano lunghi sigari nelle stanze riservate dell’Imperatore, cosa che scatena non poche invidie. Nel contempo nasce il rapporto con Eugenia. Pare che la loro conoscenza sia avvenuta nell’aprile del 1860, quan- do Costantino, divenuto ministro residente a Parigi, ha finalmente accesso in modo ufficiale alle Tuileries (durante la sua missione segreta gli incontri con l’Imperatore avvenivano in una sorta di se- miclandestinità, come abbiamo detto). L’Imperatrice, convinta che Cavour sia un mascalzone pericoloso e gli italiani tutti cospiratori, lo accoglie con grande freddezza. Ma cambia presto atteggiamento: sembra che già alla festa da ballo del 6 maggio la bella spagnola gli rivolga smaglianti sorrisi. Mutamento che disorienta Costantino, tanto da indurlo pochi giorni dopo a scrivere al Conte chiedendo consigli su come comportarsi. Cavour, lapidario, gli risponde: «Per il bene d’Italia, non fate il casto Giuseppe». Ma da dove veniva questa donna bellissima, con gli occhi blu e i capelli biondo-rossi, volitiva e irruente, tanto che di lei da piccola in casa si diceva: «Che volete? È nata un giorno di terremoto!»?
Maria Eugenia di Montijo viene alla luce nel 1826 a Granada, mentre è in corso un terremoto, da Cipriano di Portocarrero conte di Montijo, un grande di Spagna entusiasta di Napoleone (ha parte- cipato a varie battaglie, vi ha perso un occhio e nel 1814 ha avuto il titolo di conte di Teba), e dalla borghese Maria Manuela Kirkpatrick, figlia di un ricco commerciante di vini scozzese stabilitosi a Malaga. La madre è una donna colta e brillante, e quando si trasferisce col marito a Madrid nel 1834, fra le amicizie che coltiva nel suo salotto ci sono letterati come Stendhal e Prosper Mérimée, che poi seguirà passo passo la figlia diventata regina trasformandosi in una sorta di guida spirituale. Nel 1837 Eugenia, insieme alla sorella Paca, viene messa in collegio a Parigi al Sacro Cuore, nel sontuoso Hotel Biron, in Via di Varrennes (oggi sede del Museo Rodin). Tornate a Madrid, le due ragazze entrano in società e sono ammirate: ci si chiede quale sia la più bella. Paca, di un anno più grande di Eugenia, sposa il ricchissimo e blasonato Duca d’Alba, il miglior partito d’Europa; la madre e la secondogenita vanno a vivere insieme alla coppia a Madrid nel fastoso palazzo di Liria, ricco di collezioni di quadri (lo è tuttora e appartiene ancora ai Duchi d’Alba). Qui la futura Impe- ratrice studia con passione letteratura e storia, comincia a seguire l’ascesa del futuro Napoleone III e ne è affascinata (d’altro canto, fin da piccola le hanno riempito la testa con l’epopea napoleonica). Quando lui diventa Presidente, madre e figlia partono per Parigi.
Qui le due signore vengono ben accolte dal fior fiore della so- cietà letteraria: Balzac, Victor Hugo (che disprezza Napoleone III: lo chiamerà sempre Napoleòn le petit), Lamartine, George Sand. Lo scrittore Eugene Sue, impressionato dalla bellezza della ragazza, ne descrive gli occhi grandi, di un azzurro vellutato, e nota la sua as- soluta indipendenza, la sua ribellione alla mancanza di libertà della donna nella società del tempo. Napoleone incontra per la prima volta Eugenia a casa della cugina e sua ex fidanzata, la principessa Matilde Bonaparte, e ne rimane colpito. Da quel momento la señorita è sempre nella lista degli invitati agli eventi nei castelli reali e già si mormora di quanto l’Imperatore ne sia invaghito. Diciotto anni di differenza di età e la colpa di essere onorevolmente nobile, ma non di sangue reale: i collaboratori dell’Imperatore disapprovano la candidatura della spagnola, ma lui ne è innamorato e, d’altro canto, i tentativi «matrimoniali» fatti con le grandi dinastie europee hanno trovato un muro: è pur sempre un «figlio della Rivoluzione» e nessu- na Corte ritiene stabile il suo trono. Il 30 gennaio in una Notre Dame splendidamente addobbata dall’architetto Viollet-le-Duc, illuminata da 15mila candele, ma senza la consacrazione di Pio IX che non si è mosso da Roma, viene celebrato il matrimonio.
Per Eugenia fu amore o ambizione? Lui non era bello, anche se fascinoso, e aveva molti anni più di lei, ma agli occhi della Contes- sa di Teba rappresentava il riproporsi della vicenda napoleonica, il suo mito d’infanzia, e diventare regina di una Francia che stava riconquistando in Europa il ruolo di grande potenza solleticava il suo desiderio di potere. Lo amò forse sinceramente, anche se Napo- leone le fu infedele, addirittura con una delle sue amiche predilette, la contessa Walewska, e, prima di lei, con la Castiglione e, dopo di lei, con molte altre. Entrambi amarono appassionatamente il loro unico figlio, Luigi Eugenio, soprannominato Loulou, nato nel 1856. Fervente cattolica fino al fanatismo, conservatrice, di carattere irruente e collerico, l’Imperatrice, dotata di una forte personalità più che di una vasta cultura, seppe imprimere un suo passo al Secondo Impero, perfino nella moda. Eugenia ammirava infinitamente Ma- ria Antonietta, aveva raccolto gli oggetti che le erano appartenuti (teneva come una reliquia il Livre d’Heures, il libro di preghiere che l’imperatrice Maria Teresa aveva dato alla figlia prima della sua partenza da Vienna) e le piaceva l’idea di imitare le gonne gonfie, i celebri panier, della Regina dall’infelice destino. La crinolina, di crine di cavallo intessuto con lino o seta capace di sostenere nume- rose sottogonne, era in voga già dal 1840, ma l’Imperatrice la volle più grande e il geniale Charles Worth, sarto inglese «lanciato» dalla Principessa di Metternich, la trasformò in una vera e propria gabbia composta di cerchi di osso di balena e vimini, capace di sostenere quelle gonne amplissime che fecero per parecchi anni la gioia delle seterie di Lione (si arriverà al punto che per confezionarne una saranno necessari 30 metri di stoffa). Su questi abiti mongolfiera c’era poi una profusione di scialli, fiocchi, drappeggi, volant (l’Im- peratrice arrivò ad averne 150 su un vestito solo). Donna frivola dunque, dedita al lusso e alle feste (ma da bigotta non dimenticava le opere di carità e le funzioni religiose), soprattutto nei primi anni, ma poi sempre più interessata alla politica: appoggiava l’assolutismo di Napoleone (anzi, lo voleva ancora più ferreo), temeva il risorgere del parlamentarismo ed era contraria alla guerra in Italia, strenua paladina del potere temporale del Papa. Per lei Cavour e tutti i suoi «uomini» erano dei pericolosi anticlericali.
Ma al ritorno di Nigra a Parigi a Unità d’Italia dichiarata, il suo atteggiamento nei confronti del diplomatico italiano muta; nel giro di pochi mesi tutta Parigi parla del fatto che il bel Costantino è nelle grazie dell’Imperatrice, ne contende i favori con un altro «presunto» spasimante, il principe Richard de Metternich, ambasciatore austriaco a Parigi, legato a Eugenia, ma anche a Nigra. I due uomini si frequentano assiduamente, cosa ben strana in un momento politico in cui non esistono rapporti fra i due Paesi che rappresentano. E a complicare l’intreccio delle relazioni c’è l’ingombrante Pauline, la moglie dell’Ambasciatore austriaco, molto amata sia da Eugenia sia dall’Imperatore. Nigra la definisce una donna straordinaria per le sue doti artistiche: sapeva suonare, ballare e cantare divinamente (oltre a conoscere perfettamente l’inglese e il francese).
I coniugi Metternich, approdati a Parigi nel 1859, rappresenta- no una specie di saga familiare. Lui è figlio del Cancelliere di Stato protagonista del Congresso di Vienna del 1815, il principe Clemente de Metternich (noto a tutti per la storica frase: «L’Italia è solo un’e- spressione geografica»), Pauline ne è la nipote, figlia di Leontine, nata dal primo matrimonio dello statista. Insomma, Richard è suo zio e c’è una differenza d’età di sette anni. Ciononostante, i due si sposano e l’unione si rivela affiatata: Richard gran signore e abile diplomatico, lei un piccolo genio che da bambina suonava le ouver- ture di Rossini al pianoforte con grande gioia del nonno, brillante e indimenticabile (raccontano i suoi contemporanei) anche se stando alla sua definizione, non era carina, era peggio. Pauline aveva una bella voce e introdusse a Corte le canzonette oltre a promuovere Wagner in tutti i modi: nel 1861 riuscì a far rappresentare il Tann- haüser all’Opéra, ma fu un fiasco e lei per la rabbia ruppe un pre- zioso ventaglio. La simpatia con Eugenia fu immediata e duratura: entrambe erano contrarie alla causa italiana, amavano la moda e la mondanità, erano appassionate di politica e cercavano di influenzare i rispettivi mariti. L’Imperatrice rimproverava alla principessa sol- tanto il vizio di fumare grossi sigari, mentre lei non tollerava l’odore del tabacco. Si deve a Pauline la scoperta di un sarto inglese fino ad allora sconosciuto, Charles Worth, che sarà poi il fornitore ufficiale dell’Imperatrice per gli abiti da ballo, da sera e di rappresentanza, diventando ricchissimo e famoso in tutto il mondo. Fu il primo a creare un «atelier» dove le signore andavano a scegliere stoffe e fogge degli abiti dopo averli visti addosso a modelle che sfilavano davanti a loro (la prima fu la stessa moglie di Worth, Marie Vernet). Fra i tanti successi del sarto inglese, il disegno della gonna a tastiera di piano- forte, che verrà adottato da tante donne famose dell’epoca, compresa la Bela Rosin. A Milano il «Corriere delle dame» scriveva: «A Parigi in via della Pace risiede un certo inglese di una reputazione molto estesa nel mondo dei crinolini. Egli ha creato un’arte, cioè quella di serrare la cintura delle signore con una precisione incomparabile e sconosciuta fin ad ora».
La Principessa di Metternich, arrivata a Parigi in coincidenza con il ritorno dei reduci dell’esercito francese dalla Battaglia di Solferino, accusa gli italiani di «parlare ad alta voce e di non fare nulla» e di «chiedere ai francesi di cavare per loro le castagne dal fuoco», ma l’incontro con Nigra la addolcisce anche nei confronti del nostro Paese; si crea un legame molto forte che non andrà mai, però, al di là dell’amicizia, vista anche la grande frequentazione di suo marito con Costantino. Alle Tuileries li chiamano «gli inseparabili», anche se i due uomini hanno idee politiche lontanissime: Richard ha osteggiato l’unificazione italiana, sostiene l’integrità del potere temporale del Papa e auspica un’alleanza della Francia con l’Austria. Nigra, come sappiamo, punta a obiettivi opposti e vuole, piuttosto, che venga ridotto il potere dell’Austria sull’Adriatico, vista la questione aperta di Venezia.
Ciononostante, a parte un furibondo litigio quando Vittorio Emanuele entrò con l’esercito in territorio pontificio, i due filarono per molti anni d’amore e d’accordo (avrà influito il sangue della nonna palermitana che scorreva nelle vene di Richard?). Addirit- tura Alexandre Dumas padre, quando ai due si aggiunse nel 1863 il Conte di Goltz, ambasciatore della Prussia, anche lui amatissimo da Eugenia, li definì «i tre moschettieri», Nigra-D’Artagnan, Met- ternich-Aramis, Goltz-Porthos. Certo è che i tre diplomatici furono protagonisti indiscussi della vita mondana a Corte di quegli anni. Alla caduta del Secondo Impero nel 1870, i Metternich tornarono a Vienna, ma quando Nigra nel 1885 divenne ambasciatore nella città austriaca, il legame si ricreò immediatamente e i tre si frequentarono ancora. Pauline visse fino a tarda età (morì nel 1921) e incontrò spesso Nigra negli ultimi anni della vita del diplomatico.
Il lavoro diplomatico per la questione romana
Costantino tornando a Parigi come ambasciatore sa di dover lavorare ai due grandi problemi rimasti irrisolti con la scomparsa di Cavour: Roma e Venezia. Ma capisce subito che il vuoto lasciato dal Maestro rende instabile il governo e arduo il suo compito. I Presidenti del Consiglio si susseguono a una velocità impressionante. Ricasoli dura meno di un anno, dopo aver cercato, senza successo, di risolvere la questione romana con un accordo diretto fra Torino e il Papa, cui Napoleone III avrebbe, al massimo, dato il suo benestare; Urbano Rattazzi regge nove mesi, Luigi Carlo Farini non più di quattro; sol- tanto con Marco Minghetti il governo arriverà a un anno e mezzo, fino al dicembre del 1864. Con il Re i rapporti non sono cordiali perché Costantino, agli occhi di Vittorio Emanuele, è sempre un’e- manazione, quasi una filiazione, dell’ingombrante Cavour e troppo legato e subordinato a Napoleone III. Nigra, da parte sua, è convin- to che la questione romana sia strettamente connessa alla politica interna della Francia e chiede insistentemente che non si cerchi di forzare la mano dell’Imperatore, sostenendo che la questione non sarà sciolta «se non il giorno in cui vi sarà in Francia una rivoluzione radicale e violenta», acuta previsione di quanto, in effetti, accadrà nel 1870. D’altro canto, Costantino diffida dell’italofilia inglese e di tutte le altre grandi potenze, dell’Austria come della Russia. Ma le sue raccomandazioni non fanno che alimentare l’antipatia di Urbano Rattazzi nei suoi confronti.
A questo astio contribuisce non poco madame Rattazzi, Maria Letizia Bonaparte-Wyse, scrittrice e giornalista, nipote di Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone I, donna bella, colta, e chiacchie- ratissima, che il cugino Napoleone III tiene alla larga per gli attacchi al suo regime e all’Imperatrice. Letizia promuove una denigrazione continua del giovane diplomatico (sembra volesse per il marito l’incarico di Nigra a Parigi), appoggiata da un giornalista in voga all’epoca, Ferdinando Petrucelli Della Gattina, che definisce la po- litica italiana a Parigi una «politica da ciambellani». Una frase di Rattazzi circola sulla bocca di molti: «Nigra non rappresenta l’Italia in Francia, rappresenta la Francia in Italia». Mentre le caricature di Camillo Marietti, noto vignettista torinese, lo dipingono come un equilibrista «che sa fare il diplomatico/ e meglio il ballerino / cono- scitor del secolo/ coltiva il crinolino».
Alle critiche politiche si aggiungono quelle personali: Nigra viene accusato di essere un donnaiolo, preoccupato soprattutto di figurare nel bel mondo, avaro e dedito alle speculazioni in Borsa per arricchirsi, grazie alla sua amicizia con la famiglia Rothschild. Vittorio Emanuele tratta Costantino con crescente freddezza, ma lui imperturbabile afferma: «Questo può affliggermi, ma non può né turbarmi, né mutare la mia condotta la quale obbedisce a regole di dovere e di coscienza, e chi fa il dovere suo non deve temere di- sapprovazioni». Sta di fatto che le trattative su Roma procedono al rallentatore, tanto che Vimercati, uomo di fiducia del Re, scrive da Parigi all’amico Castelli: «Sono scoraggiato e Nigra lo è più di me: vediamo il bene, si vorrebbe e si potrebbe farlo, ma da Torino non sappiamo niente e ogni lettera del Presidente del Consiglio è sempre un passo retrogrado sulla questione». Intanto il neonato Regno d’I- talia, contro ogni aspettativa degli osservatori stranieri, regge (pochi all’epoca avrebbero scommesso sulla sua sopravvivenza), ma è in grandi difficoltà: non c’è un mercato comune, manca la rete ferro- viaria (sviluppata solo in Piemonte), il debito pubblico è enorme, la produttività agricola modesta, non esiste una lingua nazionale (maestri del nord, mandati in Sicilia, furono presi per francesi), il 75 per cento della popolazione è analfabeta, la lotta al brigantaggio nel Meridione si sta trasformando in una vera e propria guerra con troppi morti sul campo (se ne conteranno più di novemila). E nes- sun Paese europeo, tranne la Repubblica di San Marino, ha finora riconosciuto il nuovo Regno. In questo contesto, il Papa, che scaglia anatemi da Roma e ospita i Borbone detronizzati, costituisce un pe- ricolosissimo elemento di destabilizzazione. Rattazzi, vagheggiando una soluzione simile all’Impresa dei mille, dà un ambiguo (e tacito) mezzo consenso alla spedizione di Giuseppe Garibaldi che, dalla Sicilia al grido «o Roma o Morte», sbarca in Calabria il 25 agosto 1862 con tremila uomini, deciso ad arrivare nella città eterna. Il governo di Torino fa subito marcia indietro: il Generale viene fermato e ferito dalle truppe regie in Aspromonte il 29 agosto. L’e- vento suscita un gran clamore in tutta Italia e in Europa; Garibaldi è un eroe nazionale e internazionale e, oltretutto, l’estrazione della maledetta pallottola dal piede destro richiederà non pochi consulti e sofferenze.
Costantino, quello stesso giorno, da Parigi scrive a Rattazzi: Caro Signor Presidente, il contegno della nostra flotta a Catania fu deploratissimo [non impedì la partenza di Garibaldi e dei suoi alla volta della Calabria, N.d.R.] e produsse qui un effetto disastroso. Io sento di ridurre i fatti alla loro vera proporzione. Ma purtroppo il giudizio che si porta, ho questo convincimento, è molto severo e i nostri nemici ne tirano naturalmente il loro partito. Malgrado ciò, se il Governo riesce a battere prontamente Garibaldi, io spero che riusciremo o coi mezzi diplomatici o con altri mezzi se i primi non riescono, a far risolvere la questione romana. Adunque, abbia fiducia e agisca con energia e soprattutto dia qualche grave lezione perché gli ordini del Governo non corrano più il rischio d’essere o sprezzati o debolmente eseguiti. È questione di vita o di morte per la monarchia, quindi per l’unità del nostro Paese. Le ripeto che tutti i nostri amici di qui, e fra questi conto la maggioranza del Consiglio dell’Imperatore, non attendono che la notizia d’un nostro successo vigoroso, per cominciare una campagna egualmente decisiva presso l’Imperatore. Ci prepariamo a impegnare la lotta e questa volta perdio, s’avrà a riuscire ad ogni modo. Ma è in- dispensabile un pronto e decisivo successo che ci sbarazzi di Garibaldi. Mi voglia bene, suo devotissimo Nigra.
In questa lettera ci sono tutti gli elementi che caratterizzano la stra- tegia di Costantino: la convinzione che l’unità del Paese sia stretta- mente ed esclusivamente legata alla monarchia e ai Savoia, la subal- ternità indiscussa alla Francia in nome di un dovere di riconoscenza, l’idea che sia necessario neutralizzare Garibaldi, acerrimo nemico della soluzione diplomatica alla questione romana, vista come unica strada percorribile. In questo momento difficile delle relazioni tra Francia e Italia, Costantino viene coinvolto anche nei negoziati che sfociano nel matrimonio di Maria Pia di Savoia, secondogenita di re Vittorio, con il re del Portogallo, Luigi I, celebrato il 6 ottobre del 1862 a Lisbona (per questo incarico gli fu conferita la Gran Croce dell’Ordine portoghese di Gesù Cristo).
Travolto dalla crisi scatenata dall’incidente dell’Aspromonte, Rattazzi nel dicembre 1862 è costretto a dimettersi, viene sostituito da Luigi Carlo Farini e, pochi mesi dopo, da Minghetti. Con quest’ul- timo, il più in sintonia con le idee di Cavour fra i vari Presidenti del Consiglio, Nigra riuscirà finalmente ad avere un buon rapporto e ad avviare una lunga azione diplomatica che placherà Napoleone III e la «papista» Eugenia e porterà alla Convenzione di settembre del 1864, compromesso sulla questione romana sulla scia di quanto aveva vagheggiato Cavour, ovvero la cessazione dell’occupazione francese e l’accettazione del principio del non intervento.
Nigra in questo lungo periodo di trattative, che percorre tutto il 1863 e buona parte del 1864, ha fretta perché avverte gli scricchiolii del Secondo Impero: le elezioni per il rinnovo del Corpo legislativo nel maggio del 1863 portano a un forte ridimensionamento dei voti filogovernativi, l’opinione pubblica sembra stanca del dirigismo di Na- poleone III e serpeggia il desiderio di liberalizzazione della vita politica. Di grande aiuto per la strategia del diplomatico si rivela la nomina a ministro degli Esteri il 4 marzo 1863 del milanese Emilio Visconti Venosta, suo amico da tempo perché ha sposato una nipote di Cavour, Maria Luisa Alfieri di Sostegno. Il 9 aprile Costantino scrive al neo Ministro che gli ha chiesto il suo punto di vista sulla questione romana:
Sarebbe bene che i membri della Commissione, quelli della Camera, e ogni italiano, non dimenticassero che al principio del non intervento, proclamato e mantenuto dalla Francia, siamo debitori di quanto si è fatto da Villafranca in poi; che se abbiamo bisogno di armi ricorria- mo alla Francia; che se ci occorrono denari ricorriamo egualmente al mercato francese, che l’esistenza dell’Imperatore Napoleone è ancora per noi la più sicura guarentigia. Non bisognerebbe dimenticare che sin da quando si trattò la guerra d’Italia, l’Imperatore dichiarò costan- temente che non poteva e non voleva darci né Roma né il patrimonio. E questa dichiarazione ci fu sempre ripetuta in seguito. Creda alla sincera amicizia […]. Nigra rivela così in questa missiva, se ce ne fosse ancora bisogno, la sua posizione «quasi» ciecamente filofrancese: senza il placet di Napoleone III nessuna soluzione è possibile.
In questo momento cruciale Costantino si industria con qualsiasi mezzo per una distensione dei rapporti fra Francia e Italia, perfino declamando canzoni patriottiche sul lago di Fontainebleau e giocando col palato della Corte. Dal 1862 l’Imperatore aveva scoperto una passione per le im- prese navali di Giulio Cesare e aveva raccolto sul lago del castello rinascimentale imbarcazioni a remi di ogni tipo e genere e di ogni Paese, perfino un’autentica gondola a sei posti che, esaudendo un desiderio di Eugenia, la legazione italiana a Parigi aveva fatto arrivare da Venezia. Con la barca arrivò anche un gondoliere «autentico», tal Luigi Zenatello. Una sera di giugno del 1863 Costantino è in gondola con l’Im- peratrice e altri ospiti e quest’ultima chiede al barcaiolo di cantare, ma lui non ne è capace. Vedendola delusa, Nigra si offre di comporre una «barcarola». Nel giro di due giorni è pronta. Poi, racconta: La lessi, per averne un parere, a Prosper Mérimée, che era il confidente dell’Imperatrice e ne conosceva i più intimi pensieri. Era un uomo colto, scrittore di drammi, di romanzi e di storia; conosceva ben cinque lingue tra cui il russo. Malgrado le allusioni alla povera Venezia, la canzone gli piacque e l’approvò. Alla sera, il 23 giugno, fui invitato alla passeggiata sul lago […]. La notte era bellissima e il lago, illuminato da uno splendido chiaro di luna, appariva delizioso. Lessi la mia poesia e ne ebbi vivi complimenti. L’imperatore, che seguiva a breve distanza su una lancia, quando finii, fece il solito e ambiguo gesto della mano, che poteva voler dire tanto benissimo quanto basta così. La poesia era audace:
Me battezzò dell’Adria / l’irata onda marina / me la fatal Regina / dei Dogi a te inviò. / Ire, speranze e lacrime / d’un popolo infelice, / o bionda Imperatrice / innanzi a te porrò: / Il fiero leone aligero / d’aspre catene è carco / la terra di San Marco / calpesta lo stranier: / L’infido mar le mistiche / nozze e l’anello ha infranto, / più non risuona il canto / sul labbro al gondolier. / Lenta su l’auree cupole / passa la mesta luna;
/ è muta la laguna / e senza vele il mar. / Sopra il suo letto d’alighe / posa il leone e aspetta / che il dì della vendetta / lo venga a ridestar. / Donna, se a caso il placido / tuo lago, a quando a quando / teco verrà solcando / il muto Imperator, / digli che in riva all’Adria / povera ignuda esangue / geme Venezia e langue./ Ma è viva …. e aspetta ancor. La canzone fece il giro della stampa italiana e francese e nonostante alcuni la giudicassero un’imprudenza, visto che alla «recita» di Nigra era presente l’Ambasciatore d’Austria, venne largamente distribuita dal comitato segreto veneto. Il principe Antonio Santacroce la mu- sicò e fu tradotta in diverse lingue. Un successone!
Pochi mesi dopo al Castello di Compiégne, luogo di splendide cacce per la vicina foresta e di banchetti autunnali, nell’ottobre del 1863 la famiglia imperiale offre un pranzo agli ambasciatori stranieri, presente Nigra con l’inseparabile Richard Metternich. Costantino ha l’idea di far gustare prodotti italiani rinomati, ma ancora poco conosciuti oltralpe: fa arrivare nelle cucine del castello dei tartufi d’Alba corredati da istruzioni precise su come tagliarli. Serviti sul risotto, mandano in estasi l’Imperatore, che è un noto buongustaio, ma anche Eugenia pare gradirli. Non contento, una settimana dopo, Costantino fa recapitare all’Imperatrice un cesto con una trentina di tartufi bianchi, accompagnato da questo biglietto: «Sapendo che vostra Maestà apprezza i tartufi bianchi del Piemonte, mi prendo la libertà di offrirgliene un cestino, che mi è appena arrivato tramite un corriere di legazione. Lo chef delle cucine imperiali sa perfettamente come utilizzarli. Debbo però far notare che a Compiégne la scorsa settimana non erano stati tagliati secondo le regole; mi permetto quindi di unire ai tartufi anche una piccola macchinetta da usare per affettare i preziosi tuberi in foglie molto sottili. Prima di servirli su di una insalata è buona norma di esporre il piatto che li contiene al calore di un fuoco; debbono venir serviti leggermente tiepidi, il loro profumo sarà così esaltato e il loro sapore ancor più piacevo- le». E, visto il gradimento, il diplomatico continua la sua carrellata di prelibatezze nostrane offrendo a Eugenia in serate successive lo stracchino, l’Aleatico e altro ancora.
Mentre lavora per la causa di Roma e Venezia con tutti i mez- zi possibili, Costantino partecipa come ministro plenipotenziario dell’Italia a eventi di rilievo, il Trattato di Commercio e la Conven- zione di navigazione fra Italia e Francia e l’Accordo per stabilire un cordone telegrafico transatlantico; il 4 febbraio viene nominato cavaliere di Gran Croce, decorato del Gran cordone dell’ordine mau- riziano dei santi Maurizio e Lazzaro.
Le trattative per Roma furono lunghe e complesse, ma alla fine prese corpo una soluzione che rappresentava senz’altro un’umiliante, ma temporanea, rinuncia a Roma capitale: trasferire nell’arco di due anni la capitale da Torino a Firenze in cambio dello smantellamento della guarnigione francese a Civitavecchia. Veniva anche dichiarato che il nuovo Regno avrebbe rispettato i territori dello Stato Pontificio e si sarebbe fatto carico del suo debito pubblico per quanto concer- neva i beni e i territori annessi all’Italia dal 1859 in poi.
La Convenzione, firmata il 15 settembre 1864 a Parigi, rappre- sentanti per l’Italia Nigra e il marchese Gioacchino Pepoli, precisava che l’accordo non avrebbe avuto valore finché il Re non avesse decre- tato il trasferimento della capitale. Cosa che regolarmente avvenne suscitando un vespaio di critiche a Torino: il compromesso sembrò un atto di sottomissione alla Francia e la perdita del ruolo di capitale un brutto colpo per una città in grande ascesa, illuminata a gas in modo sfarzoso, imponente con i suoi palazzi maestosi e i grandi viali. Per di più, avendo accolto negli anni precedenti all’Unità d’Italia tanti esuli dalla Lombardia e dalla Romagna, Torino si era anche guadagnata la fama (e tale si sentiva) di faro culturale del Paese. Si scatenarono sommosse e tumulti violenti. La protesta venne sedata con scariche di fucileria senza preavviso, assalti con le baionette, cariche di cavalleria e quattro cannoni posizionati in pieno centro. Un bagno di sangue con più di 50 morti e oltre 130 feriti. Per nulla turbato, lucido e calcolatore, Nigra il 6 ottobre pensa già a come potrebbe riaprirsi la questione romana:
Per quanta abilità di frasi si possa impiegare da una parte e dall’altra, è evidente che l’interpretazione che sarà data dalla Francia tenderà ad assicurare il partito cattolico contro l’eventualità che l’Italia vada a Roma, mentre l’interpretazione che sarà data da noi, tenderà necessariamente a non escludere questa eventualità. L’Italia prese l’impegno di rinun- ciare ad ogni mezzo violento, ma le combinazioni future, l’influenza delle idee nel loro corso progressivo sono cose sulle quali la Francia non poteva domandarci di rinunziare a speranze e aspirazioni […].
Costantino pensa già al passo successivo, convinto che quanto ottenuto sia il massimo possibile; poi si potrà anche scendere dal carro di Napoleone! E in una nota al nuovo Presidente del Con- siglio, Alfonso La Marmora, ironizza, anticlericale come sempre: «Se il Papa, malgrado l’osservanza della Convenzione, non potesse governare, sarebbe segno che la Provvidenza lo abbandona». Ma il popolo romano era molto più pigro e pacifico di quanto Nigra potesse immaginare.
A Parigi fra affetti e amori (vecchi e nuovi)
Nell’aprile del 1864, una scultrice, nota con lo pseudonimo di Mar- cello, scrive a Nigra: «Voi dovreste, mia cara Eccellenza, far gradire alla bella e bionda Imperatrice questa piccola Madonna cominciata sotto i suoi occhi a Fontainebleau, e nata come la vostra Barcarola, dal sogno di una notte d’estate. Una stessa ispirazione animava, al- lora, tutti noi artisti e poeti, tutti affascinati dalla stessa grazia […]. Come eravamo sereni! Oggi qualcosa di anormale, di oscuro, pesa sulla Francia. Vedremo ancora giorni così felici?». È Adele d’Affry, duchessa di Castiglione Colonna, presenza importante nella vita dell’ormai «quasi» celibe Costantino.
I due si conobbero a Parigi nel dicembre del 1861 a casa di Ana- stasia de Circourt (donna influente, amica di Cavour e animatrice di un famoso «salotto»), poco prima che Costantino diventasse mini- stro plenipotenziario del Regno di Italia nella capitale francese. Adele descrive così il loro incontro in una lettera alla madre: «Nigra è un bel giovane elegante, ma parla piemontese, quasi come un margaro [in piemontese, un pastore, N.d.R.]». La prima impressione, eviden- temente, non fu delle migliori. Per Costantino, invece, quasi un colpo di fulmine – Adele è bella, piena di fascino, i capelli di un castano chiarissimo –; il giorno dopo le manda un gran mazzo di fiori. Da quel momento i due cominciano a frequentarsi e si crea un legame che, fra alterne vicende, durerà fino alla morte, per tubercolosi, della Duchessa nel 1879, a soli 43 anni.
Indubbiamente c’era una differenza di estrazione sociale: Adele era nata nel 1836 nel castello di Givisiez, piccolo borgo nei pressi di Friburgo, da una famiglia della migliore aristocrazia svizzera che aveva acquisito il titolo nobiliare al servizio dei Re di Francia. Orfana di padre a soli cinque anni, la futura scultrice cresce in un universo esclusivamente femminile, con la madre e la sorella, e insieme a loro viaggia molto, soggiornando soprattutto a Nizza e a Roma dove l’in- contro con il patrimonio artistico stimola in lei un’intensa vocazio- ne. Qui conosce anche l’uomo che diventerà suo marito, don Carlo Colonna, figlio cadetto della prestigiosa famiglia romana, duca di Castiglione Altibrandi. Matrimonio d’amore ma brevissimo: nove mesi dopo, Carlo muore di tifo. Adele è vedova a 20 anni: si ritira nel Convento di Trinità dei Monti e studia l’arte del Rinascimento e del Barocco, scoprendo la sua voglia di fare la scultrice, scelta insolita per una donna a quei tempi (le poche artiste dell’epoca si dedicavano alla pittura, per lo più a livello dilettantesco, come concedeva allora la mentalità dominante). Nel ’58 la Duchessa è a Parigi: trova uno studio (gode di una rendita dai Colonna) e intreccia relazioni con vari artisti. Comincia a lavorare ispirandosi soprattutto a Michelangelo e a Eugène Delacroix. Nascosta dietro lo pseudonimo di Marcello, esordisce nel 1863 al Salon di Parigi (esposizione periodica di pittura e scultura al Louvre) riscuotendo un gran successo, in particolare per un busto che rappresenta Bianca Cappello, ma viene snobbata (è donna!!!) dalla giuria ufficiale. Un’esclusione dall’Accademia che le peserà moltissimo e si ripeterà più volte, ma non riuscirà a farla desistere dall’idea di scolpire (per frequentare la Scuola di Medicina, dove poteva prendere calchi in cera dei cadaveri utili per le sue opere, si travestiva da uo- mo). Al suo esordio sulla scena parigina incontra Costantino che da allora in poi la sosterrà e la incoraggerà in ogni modo; nell’aprile del 1862 Nigra fa pervenire all’Imperatore una sua statuetta, l’anno dopo Eugenia viene omaggiata – tramite il diplomatico – di una piccola Madonna. D’altra parte Adele se la cava benissimo: grande amica di Adolfo Thiers, che nel 1871 diverrà il primo Presidente della Terza Repubblica Francese, frequenta ambienti di vario tipo e con grande disinvoltura. Da Napoleone III è vista con simpatia e lei lo ricambia con una ammirazione sconfinata.
Ma che cosa accade tra lei e Costantino: è amore? Dal 1863 al 1866 i due fanno coppia fissa nelle feste di Compiègne e di Fontai- nebleau, e si frequentano regolarmente anche a Parigi. Dal loro car- teggio (arrivato fino a noi) emerge un rapporto intenso, quasi appas- sionato, nel bisogno l’uno dell’altra, e di grande sintonia culturale, ma che apparentemente non va al di là di una relazione platonica.
Qualche dubbio, però, viene. Ecco cosa scrive Nigra ad Adele nel gennaio 1864: Quando dunque ci raggiungerete? Ci siete mancata a Compiègne. Ab- biamo cacciato, abbiamo ballato, abbiamo giocato a delle sciarade. Gli augusti ospiti (Imperatore e Imperatrice) sono stati, come sempre, di una amabilità unica e gli invitati assai piacevoli. Ma il suono della fan- fara, le danze e le sciarade non sono riusciti a far dimenticare l’ombra tranquilla dei grandi alberi di Fontainebleau e le lunghe passeggiate in gondola al chiaro di luna su quel lago incantevole. Lasciatemi credere che la vostra assenza ha contribuito non poco al nostro rimpianto. Quando ci raggiungerete? Non potreste modellare qui il vostro Gu- glielmo Tell che muoio dal desiderio di vedere? [...] Può darsi che sia il desiderio di vedervi che mi fa dire queste cose. Abbiamo, lo vedo, un rivale assai potente nell’arte che vi occupa per intero […] Vi rin- grazio ancora per la vostra bella fotografia. Farò fare la mia subito per inviarvela. Non mi illudo affatto che possa rallegrare il vostro esilio, come avete l’amabilità di scrivermi, ma vi ricorderà un amico, sempre fedele, che vi è ben devoto, che vi stima e vi ammira, e a cui dovete perdonare, se non si avvicina alla vostra luce più sovente di quanto non vorrebbe, perché teme di bruciarsi […].
E nel settembre dello stesso anno, rispondendo a un invito a pranzo per l’indomani: Caro Marcello, accetto con gran piacere e verrò a dirvelo e a ringra- ziarvi oggi stesso. Vi supplico di inviarmi una delle vostre fotografie in cambio di quella che mi avete chiesto e che vi invio. La vostra immagine non rappresenta soltanto, come quelle che mi avete restituito, la bel- lezza e la perfezione delle forme; rappresenta contemporaneamente la bellezza eterna dello spirito che vi agita e vi ispira: Dio. Ma rappresenta anche l’elevazione dei sentimenti e la bontà di cuore, tesori ben rari che vi invito a conservare come un avaro […].
Il tono, pur nel riserbo e nella formalità zuccherosa dell’epoca, sembra quello di un uomo innamorato, ma diversi ostacoli si frap- pongono a questa unione: Adele, malata di tisi (i primi segni della malattia compaiono nel 1860), è già molto sofferente: a Parigi vive solo in primavera e in autunno, l’estate sempre più spesso è in cura ad Aix-les-Bains e nei Pirenei, in inverno si rifugia a Roma o nel- la campagna napoletana sperando per la sua salute nel clima mite dell’Italia del sud. Costantino, nonostante la separazione di fatto da Emerenziana, è ancora sposato, ostacolo insormontabile. La prova del suo matrimonio infelice si concretizza nel 1864 quando arriva a Parigi il piccolo, terribile, Lionello (otto anni). Il padre decide di prenderlo con sé e di farlo studiare al famoso Collegio di Santa Bar- bara, il più antico di Parigi (ha sospeso l’attività didattica nel 1999 e ora è sede di una biblioteca universitaria), lo stesso frequentato da Loulou, il figlio della coppia imperiale, perché il bambino non va bene a scuola, dà segni di irrequietezza e di instabilità emotiva. Cosa assolutamente inconsueta a quell’epoca, è il padre a farsi cari- co del problema, ritenendo che un allontanamento dalla mamma, sempre più chiusa in se stessa, possa giovare al figlio che finora ha visto troppo poco. Il bambino viene accolto calorosamente dall’Im- peratrice, che nei primi giorni di dicembre riceve padre e figlio al Castello di Saint-Cloud e presenta a Lionello il rampollo imperiale. Il 9 gennaio 1865 la Duchessa D’Affry scrive a Costantino: «Vado uno di questi giorni al collegio di Santa Barbara, posso chiedervi di vedere vostro figlio? Questo ragazzino mi interessa molto. Credete alla mia costante amicizia……».
A luglio muore il padre di Costantino, Ludovico (l’anno dopo scomparirà la madre), e Adele scrive: «Mio caro Nigra, ho appreso con molta pena del dolore che vi ha colpito e voglio dirvi come penso a Voi in queste tristi circostanze. Avete tutti gli istinti del cuore, tutti i sentimenti elevati e delicati, così sviluppati che non dubito abbiate in Voi la forza di sopportare pene e dolori che altri non sarebbero in grado di fare […]». E Costantino le risponde: «I nostri affetti, ecco! Vengono portati via, uno a uno, dalla morte, come le foglie secche d’inverno. Occorre conservare il ricordo nell’animo e raddoppiare l’affetto per quelli che restano. Vogliate gradire, vi prego, cara Du- chessa, l’espressione del mio attaccamento vero e rispettoso».
Un grande affetto e una grande confidenza: certo fu amore, ma forse nessuno dei due volle spingersi oltre una calda amicizia, al di là di un gioco di seduzione reciproca. Adele D’Affry morì in Italia el 1879 vicino a Napoli, ma nonostante le amarezze che le riservò l’Accademia, fu apprezzata: la sua scultura più importante, in bronzo, La Pizia, decora l’atrio dell’Opéra di Parigi sotto la grande scalinata e altre opere sono oggi al Museo d’Orsay di Parigi, al Philadelphia Museum of Art, al Dahesh Museum of Art di New York e al Museo Marcello di Friburgo.
Curiosa la passione dell’artista svizzera per la bellezza della Con- tessa di Castiglione che trovava straordinaria al punto da voler scol- pire il suo braccio. Nel novembre del 1866 chiese a Nigra di fare da intermediario per realizzare questo desiderio: «Il signor Ressmann [segretario della legazione italiana, N.d.R.] vi avrà parlato dei nego- ziati delicati, il cui successo dipende dal vostro talento, per riuscire a convincere la bella signora Castiglione a lasciarsi modellare il braccio a favore della mia statua». La «divina Contessa» sarebbe partita il giorno dopo per Dieppe e lì sarebbe rimasta; niente da fare, del suo braccio non abbiamo la copia scolpita da Adele. Ma l’artista non fu la sola a evocare somiglianze scultoree per descrivere la bellezza di Virginia: Pauline Metternich la definì una «statua animata».
La Contessa di Castiglione, dopo il lungo esilio, da qualche anno è tornata a brillare alla Corte di Francia: è ricomparsa alle Tuileries a un gran ballo in costume il 9 febbraio 1863 al braccio dell’amico di sempre Costantino Nigra (ma qualcuno sostiene che lo avesse ricattato, minacciandolo, forte del suo ascendente su re Vittorio di cui continuava a essere amante saltuaria, di farlo trasferire da Parigi a San Pietroburgo) vestita da Regina d’Etruria, ovvero da regina de- caduta. Nigra giocò una parte nella sua riammissione a Corte tanto che, poco prima del ballo, le scrisse: «Va tutto bene. State tranquilla, il mio braccio è a vostra disposizione per rientrare a Palazzo».
Ma quando Nicchia torna sulla scena, il rapporto fra i due vecchi complici (amanti) in missione segreta al servizio di Cavour è storia del passato. Nigra ora ricopre una carica importante, gode della benevolenza di Napoleone e della simpatia di Eugenia; è lui il pro- tagonista del bel mondo parigino, mentre Virginia è relegata in un ruolo di second’ordine anche se farà ancora tanto parlare di sé, avrà amanti importanti (anche 12 contemporaneamente, all’insaputa l’u- no dell’altro), sarà ammirata per i vestiti, i travestimenti, addirittura per la biancheria intima. Ne è prova un articolo del corrispondente da Parigi di «The Times», del 28 marzo 1865, che riferisce di un ballo alle Tuileries: «La bella italiana Contessa di Castiglione, vestita in costume rimarchevole per originalità, fu la personalità più applau- dita della serata. Era vestita come Salambò, l’eroina cartaginese del romanzo di Gustave Flaubert, l’autore di Madame Bovary. Braccia nude, gonna corta, piedi nudi in sandali, vestito viola scuro, molto attillato con un lungo strascico […]».
Ma il suo «momento d’oro» a Corte, quando era la protagonista indiscussa, è passato. Nigra comunque le restò vicino: fu lui ad annunciarle la morte del marito e a sostenerla in molte incombenze pratiche. L’ultima lettera arrivata fino a noi è del 1871: le loro vite si separarono defini- tivamente nel 1876 quando Nigra lasciò Parigi per diventare amba- sciatore d’Italia a San Pietroburgo. Virginia lo stesso anno si trasferì in un elegante appartamento in Place Vendôme, dove cominciò a mostrare i segni di quelle ossessioni che la portarono poi nell’au- tunno della vita a un progressivo isolamento. La «divina Contessa» morì il 28 novembre del 1899, a 62 anni, nel piccolo alloggio sopra il ristorante Voisin dove si era ritirata dal mondo; la mattina seguente Carlo Sforza, addetto di legazione all’Ambasciata d’Italia, e un ma- gistrato francese fecero irruzione nell’appartamento e distrussero tutte le lettere e i documenti compromettenti. Nicchia riposa a Parigi nel Cimitero Monumentale di Père La- chaise.
Il Veneto, Eugenia e la caduta del Secondo Impero
La capitale è stata trasferita a Firenze, ma la questione romana non è risolta: due anni dopo la firma della Convenzione del ’64, la guarni- gione francese è ancora di stanza a Civitavecchia. Niente è cambiato. In questa situazione di stallo, Nigra concentra la sua attenzione sul Veneto, sulla possibilità di sfruttare la situazione internazionale che dà segni di mutamento a favore dell’Unità di Italia. La grande novità nello scacchiere europeo è l’ascesa della Prussia, dove nel 1862 è diventato Primo Ministro l’aristocratico, aitante e altero Otto von Bismarck, figlio di ricchissimi latifondisti, che potenzia l’esercito al punto da dare un’impronta militaresca a tutta la società, all’educa- zione scolastica, perfino alla vita civile. Il nuovo leader, che dominò la scena politica per quasi 30 anni, vuole l’egemonia prussiana sul mondo tedesco: il suo Paese deve guidare la Confederazione Germa- nica (che raccoglieva, allora, una miriade di principati) unificandola. Il progetto del «Cancelliere di ferro» è trasformare, con la forza delle armi, la Prussia da uno Stato subordinato all’Austria in una grande potenza. Un progetto che per realizzarsi deve limitare il più possibile il potere del Parlamento e tenere a bada le forze liberali. E puntare sulla guerra. E guerra fu. Bismarck si alleò con l’Italia che voleva il Veneto, si garantì la neutralità della Francia accordandosi con Napoleone III, e dichiarò guerra all’Austria. Il conflitto durò meno di due mesi, dal giugno al luglio del 1866: per noi fu la Terza guerra di indipendenza. L’Italia avrebbe dovuto impegnare l’Austria sul fronte meridionale e minacciare con la sua flotta le coste dalmate. Costantino fu, fra i tanti, uno dei favorevoli all’alleanza italo-prussiana e, in una lettera di marzo, incitando La Marmora ad avere coraggio scriveva: «Fra tre mesi, se Dio vuole e la fortuna ci aiuta, potremo essere a San Marco». Nigra sapeva, grazie all’Imperatore, che l’Austria avrebbe dispiegato non più di 100mila uomini. Logico, quindi, che sottovalutasse le nostre capacità belliche, visto che l’esercito italiano contava su oltre 200mila uomini (fusione dell’esercito piemontese, di quello borbo- nico e delle schiere provenienti dalle vecchie Legazioni pontificie) e la Marina disponeva di ben 11 corrazzate modernissime, costruite nei migliori cantieri inglesi e americani, e di 17 vascelli lignei. Ma c’era chi, più invasato ancora, si spingeva a ipotizzare che nel giro di breve tempo avremmo dominato l’Adriatico, e poi il Mediterraneo, rivendicando l’italianità della stessa Malta.
In realtà, come ebbe a scrivere il comandante della flotta austria- ca, l’ammiraglio Wilhem Von Teggenthoff: «Navi di legno comandate da una testa di ferro hanno sconfitto navi di ferro comandate da una testa di legno»; la Battaglia di Lissa, nell’Adriatico, nei pressi dell’isola omonima, il 20 luglio, fu un disastro. Scarso addestramento e assenza di coesione fra i comandanti, di cui fu data la colpa alla «testa di legno», ovvero all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, in seguito processato e radiato dalla Marina. Non era andata meglio sulla terraferma: a Custoza il 24 giugno l’esercito italiano, nonostante la superiorità numerica, aveva subito un’umiliante sconfitta (unica stella in questa disfatta, Garibaldi, che il 21 luglio, con i suoi 15mila volontari, ebbe la meglio sugli austriaci a Bezzecca, in Trentino). Ma per nostra fortuna, i prussiani, il 3 luglio, avevano portato a casa una vittoria clamorosa sull’esercito austriaco guidato dall’arciduca Alberto a Sadowa.
Il 20 luglio Costantino scrive all’amico Isacco Artom: Sono afflittissimo della piega che han preso le cose, colpa in massima parte dell’inerzia nostra per terra e per mare […] Io per me non so spie- garmi le operazioni militari nostre. Più ci penso meno ci capisco. Ne ho l’animo amareggiato, angosciato. Sento una profonda umiliazione d’essere italiano. Ora dobbiamo aspettarci che si attribuisca alla nostra diplomazia la colpa dei generali, degli ammiragli e di tutti quanti.
Andò proprio così: Nigra fu al centro di aspre critiche, lo si accusò di aver spinto l’Italia verso la guerra, scoraggiando la soluzione pacifica ventilata da La Marmora e dal Re (la cessione del Veneto da parte dell’Austria dietro compenso di un miliardo di lire), e di non aver previsto la straordinaria combattività degli austriaci e l’ef- ficienza della loro artiglieria. Molti poi, il Re in testa, lo accusavano di seguire pedissequamente gli alti e bassi della politica francese (qualcosa di vero c’era).
Comunque, bene o male, la guerra lampo era finita: la Prussia formò la Confederazione Tedesca del Nord, passo fondamentale verso l’unificazione voluta da Bismarck, Francesco Giuseppe, co- me già aveva fatto sette anni prima con la Lombardia, si rifiutò di trattare con Vittorio Emanuele II e cedette il Veneto all’Imperatore, che lo passò all’Italia. Garibaldi fu costretto a evacuare il Trentino. La guarnigione francese a Civitavecchia venne finalmente smantel- lata, surrogata dalla milizia volontaria degli zuavi, 13mila, dei quali ottomila italiani di varie regioni; gli altri, belgi, irlandesi e francesi. Ma non finì qui: il Generale, «evaso» da Caprera, cercò di rifarsi l’anno dopo con un nuovo colpo di mano su Roma, sperando in una sollevazione popolare che non si verificò, e venne poi sconfitto a Mentana dal corpo di spedizione inviato da Napoleone III, duemila zuavi, a guardia di quanto restava dello Stato Pontificio. Re Vittorio costrinse Rattazzi, appena tornato al potere e connivente con l’im- presa delle camicie rosse, alle dimissioni. Quest’ultimo, in cerca di capri espiatori, si sfogò su Nigra (la ruggine tra i due era di lunga data), accusandolo di non aver previsto l’intervento francese, e ne chiese l’immediata rimozione dalla carica di ambasciatore a Parigi. Costantino rimase al suo posto grazie all’appoggio del principe Gerolamo e di altri uomini politici, soprattutto stranieri, ma accusò il colpo. L’Italia unita era ormai una realtà (anche se ne restavano fuori Trento e Trieste) e nessuno nello scacchiere europeo pensava più a mettere in forse la sua esistenza. Ma il diplomatico intuiva che tra la Francia e l’Italia si stava scavando un solco d’odio e che sull’Impero si stavano addensando le ombre di un crollo imminente: la frontiera sul Reno avrebbe portato sciagure. Scriveva a Visconti Venosta: Questa vita di incertezza continua, questa tremenda spada di Damocle che è la questione romana, la quale non sarà sciolta se non il giorno in cui ci sarà in Francia una rivoluzione radicale e violenta, mi rendono questa residenza molto dolorosa […]. Aggiungi le antipatie del Re e l’irritazione di Rattazzi il quale non mi perdonerà di averlo, con i miei telegrammi, forzato a dare le dimissioni. E poi devo confessarti che le cose in Francia peggiorano e mi è doloroso assistere alla rovina di questo grande edificio dell’Impero francese col quale si collega tutta la politica fatta sin qui.
Costantino, amareggiato, si rifugia nella sua passione di sempre, la filologia. Studia l’antico linguaggio dei celti, ormai scomparso, di cui si ritrovano tracce in vecchi codici, nei dialetti e in qualche località delle isole britanniche, e l’alfabeto ogamico, la scrittura irlandese più antica, anteriore al Cristianesimo. Nel 1869 pubblica a Parigi, presso l’editore Franck, il più ambito dagli studiosi di filologia, con una prefazione in latino (lingua che Nigra maneggiava con grande disinvoltura), le Glossae hibernicae, esame di un codice del IX se- colo contenente frammenti del Vangelo di san Marco e comincia a collaborare alla «Revue Celtique». L’idea del diplomatico è che in origine nella penisola italiana ci fossero principalmente due etnie, celtica e italica, ciascuna con una propria lingua, unificate poi con la romanizzazione e la conseguente sovrapposizione del latino. Cio- nonostante, secondo Costantino, nei dialetti e nelle poesie popola- ri, rimanevano tratti linguistici dell’epoca precedente ancora così differenti da dividere il nostro Paese in due. Nell’Italia a nord del fiume Magra, che comprende il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, il Veneto, il sostrato (così lo chiamano i linguisti) è celtico, nel resto della penisola e in Sicilia, italico, frutto della Magna Grecia (Sar- degna e Friuli sono fuori da questo quadro). Con conseguenze nei dialetti, nella metrica delle poesie popolari, nel mondo fantastico. Fatto curioso e affascinante, gli studi di genetica di popolazione, condotti poco più di un secolo dopo da Luigi Luca Cavalli-Sforza e da Alberto Piazza, hanno confermato questa intuizione di Nigra: nel dna degli italiani si può riconoscere una differenza significativa fra un’appartenenza celtica al nord e greca, quindi italica, al centrosud, a eccezione dell’area tosco-umbra dove resta tuttora forte la trac- cia dell’ascendenza etrusca. Le considerazioni di Nigra troveranno poi una sintesi nel saggio La poesia popolare italiana, pubblicato nell’ottobre 1876 sulla prestigiosa rivista «Romània», che era a Pa- rigi il punto di riferimento internazionale per gli studi di filologia romanza. Il diplomatico stringe rapporti con i filologi Gaston Paris e Paul Heyse, ma ha rapporti anche con scrittori come George Sand, Alexandre Dumas figlio, Victor Hugo.
In questi anni Costantino tenta di fare il padre, seguendo Lionel- lo (che lui chiama Lello) nei suoi studi al Collegio di Santa Barbara, ma il ragazzo è irrequieto, ha poca voglia di stare sui libri e si azzuffa con i compagni che lo prendono in giro perché è italiano. Frequenta la stessa classe di Loulou, il rampollo dell’Imperatore, e di Louis, il figlio del dottor Conneau, ma le suona di santa ragione a entrambi, mettendo in grande imbarazzo il papà. È collerico e instabile; la separazione dei genitori, inusualmente drastica per l’epoca, non ha certo giovato al suo equilibrio.
E proprio da un racconto di Lionello a Salvator Gotta, romanziere canavesano, si dipana una storia che non ha avuto ancora soluzione, la supposta relazione amorosa tra Costantino ed Eugenia. Lo scritto- re, sulla scorta di questo e di altre informazioni ricevute da Agostino Martin-Perolin, fratello della nuora di Nigra, Teresa, scomparsa nel 1928, costruì il romanzo Ottocento (ebbe un grande successo e fu tradotto anche in tedesco) in cui si dà per certa la storia d’amore tra Eugenia e il diplomatico piemontese. Stando a Gotta, il bambino a poco più 10 anni si trovò ad assistere in casa a una scenata di gelo- sia tra il padre e l’Imperatrice, in cui entrambi persero il controllo, lei in preda alle lacrime, velata in nero, lui che camminava avanti e indietro nervosissimo. Ma Lionello, oltre che una testa calda, era un noto fanfarone, a detta di tutti poco attendibile; il racconto non può essere prova certa della loro relazione (come sostiene Costantino De Rossi Nigra, pronipote dell’Ambasciatore). Indubbiamente Costanti- no nutriva per Eugenia una grande ammirazione/attrazione ed era il preferito rispetto agli altri due «corteggiatori» ufficiali che si conten- devano i favori della bella spagnola, l’ambasciatore austriaco Richard Metternich e il tenente di vascello De Varennes (che, evidentemente, superò la misura perché venne bruscamente allontanato da Parigi da Napoleone). Metternich era felicemente sposato, Costantino era «quasi» celibe, con lui il gioco avrebbe potuto farsi serio. C’era da parte di Eugenia anche l’intenzione di ammorbidire l’ostilità del bel diplomatico italiano nei confronti del Papa, suo chiodo fisso. Indubbiamente si frequentarono e si piacquero, come dimostrano i regali che l’Imperatrice fece a Costantino e che lui tenne sempre con sé, uno scrittoio appartenuto a Napoleone I, andato perduto, un suo ritratto a olio, stranamente «privato», in cui appare con i capelli sciolti e una semplice blusa bianca, e un modello in marmo della sua mano sinistra con al polso un bracciale che recava incisa la scritta fides, oggi al Museo del Risorgimento di Torino. Lui la con- traccambiò con un prezioso monile. Che cosa provano questi cimeli? Niente, ma, pur nella loro convenzionalità, rivelano un rapporto tra i due che andò un po’ al di là della diplomazia di Corte. Quanto al di là? Poco o molto, chissà, non ne hanno lasciato traccia. Si trattò di una relazione (se ci fu) gestita in gran segreto e con abilità, visto che fra Nigra e l’Imperatore non comparvero mai ombre o screzi. Napoleone III, nonostante le sue continue infedeltà, non poteva certo tollerare che un diplomatico a lui vicino fosse l’amante della moglie e disponeva di una polizia segreta così efficiente da rendere (quasi) impossibile una tresca segreta. Costantino, da parte sua, era troppo freddo e calcolatore per mettere a rischio il lavoro diploma- tico costruito in tanti anni.
A favore della storia di amore c’è, però, una testimonianza di molti anni dopo: nel 1906 Costantino ed Eugenia, ormai anziani, si ritrovarono a Venezia per una colazione a casa della contessa Morosini e l’incontro finì in un litigio in cui sfuggirono di bocca a entrambi frasi compromettenti (anche quest’episodio è riferito da Salvatore Gotta al quale sarebbe stato raccontato da persone presenti, evidentemente un po’ pettegole). Se non fu amore – al- meno, non ne abbiamo le prove –, fu senz’altro un legame che lasciò una traccia.
Negli ultimi anni Sessanta Eugenia si trova a interpretare un ruolo politico sempre più importante, da una parte per ambizione, dall’altra per motivi di forza maggiore: le condizioni di salute di Napoleone peggiorano di continuo a causa del «mal della pietra» (come si chiamava allora) che gli procura atroci dolori e abbondanti perdite di sangue con le urine. A quell’epoca una calcolosi vescicale grave era pressoché incurabile: si tentava l’intervento per tirare via la «pietra» con veri e propri strumenti di tortura. Accompagnato da un’anestesia rudimentale a base di etere o di cloroformio e una disinfezione grossolana, l’intervento spesso non riusciva o, se aveva buon esito, il paziente difficilmente sopravviveva alle complicazioni infettive.
L’Imperatore nel 1869 soffre ormai in continuazione di forti do- lori, deve ricorrere all’oppio, non riesce ad andare cavallo, è incon- tinente (deciderà di operarsi in Inghilterra, dopo tre anni di esilio, ma morirà pochi giorni dopo; l’autopsia rivelerà che nell’augusta vescica c’era un calcolo enorme). La Francia è in crisi economica (solo l’abbellimento di Parigi è costato un miliardo di franchi), l’op- posizione all’Impero cresce nonostante la sterzata in senso liberale data da Napoleone a partire dal 1867, la questione romana non è risolta e i cattolici restano sul piede di guerra. Dall’altra parte la Prussia vive un’inarrestabile ascesa, militare, finanziaria, culturale, si sta affermando come la prima potenza del continente europeo e vuole l’Alsazia e la Lorena, le due regioni francesi che parlano te- desco. Ai francesi vicini a Napoleone umiliarla e battere le istanze democratiche e liberali che si stanno sempre più affermando nel Paese sembra indispensabile per rinforzare l’Impero, tesi che trova in Eugenia la sostenitrice più convinta.
Il casus belli arriva il 5 luglio 1870 quando si viene a sapere che il principe Leopoldo di Hohenzollern, cugino del Re di Prussia, ha accettato la candidatura alla Corona di Spagna (una rivoluzione liberale aveva detronizzato la regina Isabella di Borbone per le sue tendenze autoritarie, e le successive elezioni si erano concluse con la richiesta di una nuova dinastia). In Francia la notizia fece molta impressione, si ebbe la sensazione che improvvisamente la Prussia la volesse accerchiare dai Pirenei al Reno. «Noi non lo tollereremo mai» – dichiara alla Camera il duca Agenor de Gramont, ministro degli Esteri da maggio. Bismarck in tutta questa sollevazione vede improvvisamente la scorciatoia per una guerra che acceleri il primato della Prussia sugli Stati tedeschi. Arriva la notizia ufficiosa che la candidatura di Leopoldo di Hohen- zollern è stata ritirata, ma la Francia chiede di più, ovvero che re Guglielmo si impegni a impedire ai suoi parenti ogni proposta del genere per l’avvenire. Il Cancelliere, a questo punto, agisce d’astuzia: dopo aver ottenuto dal Re, in vacanza cura ai bagni di Ems, il testo del telegramma da consegnare alla stampa in cui si dice no alla richiesta francese, cambia le parole in modo da renderlo offensivo, aggiungendo anche la notizia, falsa, che Guglielmo si è rifiutato d’incontrare l’ambasciatore francese Vincent Benedetti.
A Parigi la reazione è enorme, tutti vogliono la dichiarazione di guerra, il Parlamento intero e, soprattutto, Eugenia. Nessuno, in una sorta di euforia cieca, dubita della vittoria sui prussiani, tutt’altro che scontata, in verità, vista la superiorità dell’esercito di Bismarck che, oltre a schierare 450.000 uomini contro i 300.000 francesi, dispo- ne dei nuovi cannoni a retrocarica costruiti dalle acciaierie Krupp. Con un affannoso rincorrersi di telegrammi e di dispacci, Austria e Inghilterra cercano di proporre un congresso europeo per risolvere la questione, ma è tutto inutile, viene dichiarata la guerra. Napole- one III, tormentato dalle coliche renali e quasi incapace di reggersi a cavallo, costretto dall’insistenza della moglie, nonostante i molti che lo sconsigliano, si mette a capo delle truppe ai primi di agosto. L’Imperatrice viene nominata reggente.
Tutto era sembrato facile; i disastri, invece, cominciano subito: una sconfitta dietro l’altra. A questo punto l’ Imperatore chiede a re Vittorio di entrare nel conflitto in suo aiuto spedendo 60.000 uomini per la via del Moncenisio, ma la risposta, dopo non po- chi tentennamenti dovuti soprattutto alle bellicose rassicurazioni del Re, è la dichiarazione di neutralità, caldeggiata e sostenuta da Nigra. Il cerchio si chiude con la disfatta di Sedan, nelle Ardenne, il 1° settembre: l’Imperatore viene fatto prigioniero dai prussiani. Eugenia accoglie la notizia con il suo noto temperamento collerico: «Perché non si è fatto uccidere? Che nome legherà a suo figlio? Un Napoleone non si arrende».
Nonostante i suoi tentativi di non abdicare, la Camera procla- ma la repubblica e il popolo, dopo aver invaso il Corpo Legislativo, si dirige minaccioso verso il Palazzo delle Tuileries. L’Imperatrice sente le urla della folla, «Abbasso la spagnola», che riecheggiano sinistramente quelle di poco più di un secolo prima contro un’altra Regina straniera; la folla parigina aveva dato già prova di cosa fosse capace quando si infuriava. Eugenia capisce che la sua fine è arrivata. E si trova sola: ciambellani, cortigiani, ufficiali, tutti scomparsi nel nulla. Le restano la sua lettrice, madame Lebreton e i fidati Richard Metternich e Costantino Nigra. Sono loro che due giorni dopo l’accompagnano attraverso le sale deserte per il passaggio voluto da Napoleone III che congiunge le Tuileries al Louvre. Arrivano al portone, ma il portiere si rifiuta di aprire; ha l’ordine di non far uscire nessuno, Metternich lo prende per le spalle e lo costringe a cedere. Fuori, di fronte alla Chiesa di Saint Germain l’Auxerrois, un monello, nonostante la veletta, la riconosce e grida «L’Impera- trice!», ma Costantino riesce a farla salire su una carrozza insieme alla Lebreton. Molti anni dopo Eugenia ricorderà: «Quante volte con l’Imperatore ci eravamo detti: “Ah, non ci vedranno davvero andare via in fiacchere [vettura di piazza a cavalli, N.d.R.], è ridicolo, è umiliante, ci faremo massacrare sui gradini del trono!”. Eppure io sono partita in fiacchere […]». Le due donne trovarono rifugio presso il dentista americano che aveva in cura l’Imperatrice, il dottor Evans, dove passarono la notte. La mattina dopo partirono per Deauville e da lì, con un piccolo yatch messo a disposizione da sir George Burgoyone, raggiunsero l’isola di Wight, poi l’Inghilterra. Per l’Imperatrice era cominciato l’esilio, un esilio che durerà 50 anni: Eugenia morirà a Madrid nel 1920.
E Costantino? In una lettera del 1906 ricorda: S.M. scese la gradinata del Louvre al mio braccio, e io la misi in car- rozza. Volli io pure salire sulla stessa carrozza per accompagnarla, ma essa preferì avere al suo fianco soltanto Mme Lebreton, sua lettrice, per non compromettermi. Io salii su un altro fiacchere e ordinai al cocchiere di seguire quella che portava con sé gran parte della fortuna dell’Impero. Ma la folla ci divise e, malgrado ogni mio tentativo, non potei raggiungerla e non seppi dove l’infelice fuggitiva aveva deliberato di rifugiarsi se non tre giorni dopo […].
A detta di molti contemporanei, i due ambasciatori si comportarono in modo maldestro, avrebbero potuto fare di più e, alla fine, Euge- nia si mise in salvo grazie all’aiuto di altre persone. Nigra dimostrò maggiore lucidità con la moglie del maresciallo di Francia, madame Bazaine, che grazie a lui riuscì a mettersi in salvo in Inghilterra insieme ai suoi bambini. E accompagnò la principessa Clotilde nel suo rimpatrio.
L’esercito prussiano terminò l’accerchiamento di Parigi il 19 set- tembre e il governo francese si trasferì a Tours, capoluogo del Dipartimento dell’Indre e Loira (oggi punto di partenza per la visita ai famosi castelli). A Nigra, che aveva seguito il trasferimento dell’esecutivo in quella città, il 12 settembre toccò l’ingrato compito di comunicare alla Francia che di lì a poco le truppe italiane avrebbero occupato Roma, abbandonata dai soldati francesi. Giulio Favre, nuovo ministro degli Esteri, che sempre aveva avversato la presenza della guarnigione fran- cese a difesa del Papa, gli rispose che il suo Paese «lasciava fare con simpatia». Lo stesso fece Antoine Senard, inviato francese a Firenze. E il 20 settembre 1870 con la Breccia di Porta Pia, finalmente, i ber- saglieri entrarono a Roma. I governi europei accettarono l’annessione all’Italia della città eterna senza battere ciglio. Nel dicembre dello stesso anno fu approvato il disegno di legge che spostava la capitale da Firenze a Roma (cosa che avvenne il 3 febbraio 1871).
Per Nigra, però, in Francia fioccano le critiche: il principe Ge- rolamo e i bonapartisti lo accusano di non aver caldeggiato l’inter- vento militare dell’Italia a fianco dell’Impero contro i prussiani e di aver sostenuto subito l’opportunità di riconoscere la Repubblica francese, lo dipingono come un calcolatore che ha saputo volgere esclusivamente a favore del suo Paese la simpatia e la benevolenza che gli aveva sempre dimostrato l’Imperatore. La risposta viene da un articolo del «Paris-Journal», il quale acutamente sottolinea: Nigra non era in Francia per fare i nostri affari, ma quelli dell’ Ita- lia che lo aveva accreditato. Era suo compito entrare il più possibile nell’intimità delle Tuileries, e se c’è riuscito grazie alla seduzione del suo spirito e della sua persona, non possiamo che rallegrarci con lui e proporlo a modello ai nostri ambasciatori all’estero […]. Non è agli italiani che bisogna chiedere di essere buoni francesi, ma a noi stessi.
D’altro canto, il nuovo regime repubblicano guarda al diplomatico piemontese con antipatia e sospetto, visti i suoi trascorsi bonapartisti. Mentre la situazione in patria non gioca a suo favore: si sta esauren- do quel ruolo della destra liberale di cui anche Nigra è espressione. Costantino, varcata la soglia dei 40 anni, si sente improvvisamente inadeguato, quasi un relitto del passato, come scrive nel giugno 1871 all’amico Visconti Venosta: Io sono diventato da qualche tempo pieno di scrupoli. Non ho più la felice confidenza della gioventù. Se capitasse il menomo screzio, teme- rei che venisse attribuito alle buone relazioni che ebbi con l’Impero. Mi sento inoltre molto affaticato. La sfiducia, il pensiero di essere ormai impari al mio compito si impadroniscono spesso del mio animo e mi lasciano turbato.
Arriva al punto di chiedere il trasferimento alla «modesta» sede di Berna. Ma è ancora l’amico Visconti Venosta che lo dissuade dal fare una mossa del genere perché sarebbe vista come la fuga (ingloriosa) del bonapartista sconfitto. Così Costantino rimane altri cinque anni a Parigi in mezzo a molte difficoltà e ben poche soddisfazioni. Una di queste è nel 1874 l’incarico di rappresentare l’Italia ad Avignone per i 500 anni dalla morte di Francesco Petrarca: lo fa con un discorso elegante in francese che rivela la sua cultura e suscita ammirazione. Intanto i tempi in Italia stanno mutando: sotto il governo di Marco Minghetti il Regno d’Italia ha raggiunto nel 1876 il pareggio di bilancio, a prezzo, però, di una pressione fiscale che impone alle masse una vita al limite della sussistenza, con una crescente tensione sociale. Sul fronte politico si sta aggregando un insieme di forze che mette insieme la sinistra storica piemontese, con a capo Agostino Depretis, quella repubblicana «convertita» alla monarchia di Bene- detto Cairoli e Francesco Crispi e la sinistra meridionale che chiede la fine della «dittatura» del nord. Il Re incarica Depretis di formare il nuovo governo che si insedia il 15 marzo 1876 (il politico rimarrà al potere quasi ininterrottamente fino al 1887). Il programma della sinistra punta sull’istruzione obbligatoria, la diminuzione del carico fiscale soprattutto a favore del sud, la difesa dello Stato laico e la fedeltà alla monarchia.
Per Costantino è finita un’epoca, la sua posizione vacilla. L’a- mico di sempre Isacco Artom, anche lui della destra storica, che si è appena dimesso dalla carica di segretario generale del Ministero degli Esteri, l’8 aprile gli scrive: «Rimani a Parigi e non muoverti di là finché Depretis e Melegari [Ministro degli Esteri, N.d.R] non ti abbiano fatto sapere chiaramente che non hai più la loro fiducia. Questa è la convinzione di tutti i tuoi amici migliori, la sola linea che tu abbia a seguire in questo momento». Ma re Vittorio non vede l’ora di liberarsi dell’ingombrante diplomatico che gode di prestigio personale nello scacchiere europeo, sa troppe cose imbarazzanti (è l’unico testimone dell’umiliazione di Vittorio Emanuele nello scontro con Cavour a Monzambano), ha offuscato il suo potere pren- dendo una posizione decisa contro la discesa in campo dell’Italia a fianco di Napoleone III contro la Prussia. «Je n’ai assez de Nigra a Paris» – dice categorico a Depretis.
Costantino il 28 aprile da Venezia scrive ad Adele D’Affry: «Cara Duchessa, richiamato da un telegramma a Roma, devo lasciare Ve- nezia immediatamente. Sapete che sono destinato a San Pietroburgo. Lascio la Francia con molti rimpianti e il pensiero di vedervi meno sovente mi rende questa separazione più amara […]». La scultrice gli risponde: «La vostra partenza mi affligge […] ma desidero che le vostre aspirazioni siano soddisfatte e certamente in tempi brevi troverete in Russia tanti amici quanti a Parigi. Vi dico addio e vi stringo la mano, il cuore pieno di sincero dolore». Il 5 maggio per Nigra arriva il trasferimento ufficiale a San Pie- troburgo con il ruolo di ambasciatore e cominciano i preparativi per un viaggio complicato: si trattava di stare in ballo, fra navi e treni, almeno quattro giorni, a parte gli imprevisti.
La partenza di Costantino, nel giugno del 1876, viene salutata con dispiacere da molti uomini di cultura come Frédéric Febvre, segretario della Comèdie Française che gli scrive: Eccellenza ho letto su «Le Figarò» una notizia a cui non posso e non voglio credere: Parigi senza di voi? Non sarebbe più Parigi! La vostra presenza è legata alla nostra da tanti buoni ricordi e se avessi creduto possibile che lasciavate la Francia, avrei pensato che andaste a rappre- sentarla in Italia. Se questa triste notizia è confermata, non voglio essere l’ultimo ad esprimervi la mia più viva gratitudine per l’amichevole benevolenza che ho sempre trovato presso Vostra Eccellenza […].
Anche dalla colonia italiana nella capitale francese arriva una let- tera che lo ringrazia per l’opera diplomatica costruita, come degno allievo di Cavour, a favore dell’Unità d’Italia. Ancora più gradito a Costantino è il discorso pronunciato dal cavalier Angelo Toffo- li, presidente della Società di Beneficienza creata dal diplomatico piemontese per dare pane e lavori ai poveri della colonia italiana, soprattutto i bambini che mendicavano per le strade: Eccellenza, fu nel 1865 quando la Provvidenza divina ispirò in Voi la santa idea di fondare a Parigi la Società di Beneficienza italiana; e siccome, Egregio Ministro, l’idea vostra aveva per base la carità, così non poteva che prosperare a vantaggio dei poveri della nostra Colo- nia, per i quali vi siete occupato particolarmente fin dal primo giorno che qui veniste a rappresentare e difendere l’onore e gli interessi della grande Nazione Italiana.
In effetti Costantino si era prodigato per eliminare la tratta dei bam- bini che venivano venduti o «affittati» in Italia per essere sfruttati all’estero, soprattutto come suonatori ambulanti di piffero e organet- to. La pratica, diffusa nelle grandi città, era una specie di schiavitù perché il padrone si prendeva gran parte del guadagno e i ragazzi erano spesso denutriti e maltrattati. Salutati tutti, Nigra affronta, apparentemente senza batter ciglio, l’incognita russa. Un’incognita che assomiglia molto a un siluramento perché a quell’epoca i rap- porti tra l’Italia e l’Impero zarista erano quasi inesistenti. Intanto il turbolento Lionello, dopo essere stato in collegio a Berlino (il padre aveva tentato un’educazione «tedesca»), ha chiesto di continuare gli studi a Torino ed è tornato dal nonno e dalla mamma nella bella vigna di San Vito.
Ambasciatore a San Pietroburgo e Londra
Costantino arriva via mare a San Pietroburgo nel pieno dell’estate e può godere della temperatura mite e della luce che illumina la città fine a tarda sera. L’Ambasciata italiana si trova in uno splendido palazzo in Quai de la Cour e il suo insediamento si svolge nel migliore dei modi, anche se il diplomatico si rende subito conto che avrà ben poco da fare vista l’irrilevanza dei rapporti tra Italia e Russia; si tratta di un vero e proprio declassamento. Ma l’esperienza può rivelarsi interessante anche perché il Paese sta vivendo cambiamenti importanti.
Lo zar Alessandro II, salito al trono nel 1856, nel 1861 aveva abolito la servitù della gleba; negli anni seguenti aveva creato le assemblee provinciali elettive e riformato il codice penale. L’idea iniziale del Romanov era l’attuazione di un vasto piano di riforme che avviasse la Russia verso la modernità, ma l’insurrezione polacca del 1863 aveva bloccato questo processo: la risposta di Alessandro fu una sterzata in senso reazionario.
Nigra lo incontra per la prima volta il 6 giugno 1876 mentre è in viaggio per San Pietroburgo, a Ems, la località termale della Rena- nia Palatinato frequentata dall’aristocrazia russa e dall’imperatore Gugliemo I. Il Sovrano lo invita a pranzo, fa capire che vorrebbe stringere rapporti più stretti con l’ Italia e gli dà appuntamento a luglio a San Pietroburgo quando si insedierà come ambasciatore. In effetti, pochi giorni dopo il suo arrivo, Costantino viene chiamato per l’udienza di accreditamento presso lo Zar: il colloquio dura venti minuti. I due si piacciono subito e il rapporto cresce poi nel tempo, soprattutto sotto il profilo culturale: Costantino riesce a far conoscere e apprezzare ad Alessandro gli scrittori italiani, in partico- lare Giosuè Carducci. Anche con il ministro degli Esteri, Aleksandr Michajlovič Gorčakov, i rapporti sono ottimi.
Il mondo in cui Nigra si trova catapultato è molto diverso dal resto dell’Europa: il diplomatico ne rimane impressionato. Come scrive qualche anno dopo al ministro degli Esteri Stanislao Mancini: Ci vorrebbero volumi per descrivere lo stato sociale di questo vasto Impero. Se si lasciano in disparte la Finlandia, le province Baltiche e la Polonia, che hanno civiltà occidentale più o meno progredita e religione protestante e cattolica, e se non si contano le popolazioni tartare, musulmane e altre non ariane, rimane un misto imponente di popolazione propriamente russa e ortodossa che forma l’immane nucleo dell’ Impero. Ora lo stato sociale di questa immensa popo- lazione è simile, pressappoco, a quello in cui si trovava la Francia di Luigi XV e dal lato religioso bisogna risalire prima della riforma per trovare qualcosa che somigli alla Chiesa Ortodossa Russa e alla coscienza religiosa del contadino russo. Eccovi dunque un popo- lo che ha a che fare con tre rivoluzioni od evoluzioni, la politica, la sociale e la religiosa. Non entro in particolari che voi conoscete probabilmente. Il giovane Imperatore è pieno di buona volontà, ma inesperto. Le persone che gli stanno più da vicino sono imbevute di idee russe, contrarie, cioè alle idee occidentali. Prevale quindi una tendenza sempre crescente di reazione nel senso delle tradizioni russe anteriori a Pietro Il Grande. Costantino fotografa molto bene l’arretratezza della Russia dell’epo- ca, mentre rimane colpito dallo sfarzo in cui vivono l’aristocrazia e la Corte grazie al lavoro di un numero sterminato di servi. Il 20 di- cembre partecipa al Palazzo d’Inverno alla cerimonia di omaggio dei diplomatici accreditati e il 19 gennaio 1877 al sontuoso ricevimento imperiale che non ha niente da invidiare ai balli delle Tuileries. Anzi li supera in ricchezza. Come racconta lui stesso: Nugoli di valletti, uscieri con livree d’una ricchezza e eleganza senza pari erano schierati lungo le scale e le anticamere. Tremila invitati affollavano la Sala Bianca, il salone delle feste, tutto stuccato di bianco con ornamenti in oro; gli ospiti erano vestiti ed ingioiellati riccamente; i grandi nomi, presenti nella capitale, erano là, con il corpo diplomatico riunito vicino alla porta da cui avrebbe fatto il suo ingresso il sovrano. La lista del banchetto era deliziosa e la cena all’altezza di qualunque menù servito alla corte imperiale parigina, ma lo sfavillio di ricchez- za che brillava tutto intorno la superava di gran lunga. Ci servirono: consommè fumé cellory à la Reine, petits patés, sterlet à l’Estouffade, chaudfroid de cotelettes de fois gras, rotis divers, salade, parfait, moka aux pralines e dessert.
Lusso e mondanità: un modo di vivere che piace a Costantino. Il clima, invece, gli crea problemi: già quello stesso autunno scrive a Luigi Sormani-Moretti: Qui abbiamo un inverno pessimo, il freddo salì negli scorsi giorni fino alla congelazione del mercurio, cioè 41 centigradi. Poi qualche giorno dopo, come oggi, per esempio, c’è il disgelo. Queste enormi variazioni non sono buone per la salute, come ben può pensare. Perciò sto sol- tanto così, così: tento di difendermi più che posso […].
I rigori dell’inverno russo non giovano a Costantino. Come scrive anche al fratello Michelangelo l’anno dopo: «Quest’anno l’inverno cominciò presto in Russia. La Neva si congelò il 29 ottobre, il che non era accaduto che due volte in due secoli. Ma oramai il freddo non mi fa più paura. Temo solo l’umidità del disgelo per la mia gola […]». Questi malanni sono pressoché costanti tanto che il diplomatico in quegli anni utilizza buona parte del congedo estivo per curarsi alle terme di Aix-le-Bains, in Savoia, sulle rive del lago del Bourget. Michelangelo è il legame familiare più forte (c’è anche la sorella Virginia, ma con lei il rapporto non ha la stessa intensità) rimasto a Nigra e il fratello fa da intermediario, anche sotto il profilo finan- ziario, con il figlio, che continua a essere turbolento e irrequieto. Impulsivo, Lionello nel Canavese, cui è molto legato, combina con- tinue prepotenze che causano non poco imbarazzo ai parenti e, no- nostante l’ottima pensione che gli passa il padre, mille lire, fa debiti su debiti. Tanto che Costantino scrive esasperato a Michelangelo il 22 giugno del 1880: «Ormai per Lionello ho perso ogni speranza, non si correggerà più e finirà male. Abbiamo fatto il possibile, tu ed io, per mantenerlo sulla buona strada. Peggio per lui. Non vuole ascoltarci, ma io non pago più un centesimo dei suoi debiti». Intelligente ma incostante, il ragazzo terribile decide di iscriversi alla Facoltà di scienze naturali a Torino e si laurea nel 1881. Ne appro- fitta subito per chiedere al padre un aumento della pensione che questi gli nega, anche se, con una lettera, autorizza il fratello a pagare per la festa di laurea. Ma c’è qualcosa che Lionello sa fare: appassionato di alpinismo – nelle sue escursioni ha spesso per compagno Quintino Sella – nel 1878, in collaborazione con Luigi Vaccarone, socio fon- datore del Club Alpino Italiano, pubblica Una Guida Itinerario per le valli dell’Orco, di Soana e di Chiusella. I rapporti fra padre e figlio sono sempre più difficili tanto che quando Nigra torna a Torino e fa un salto a Castellamonte a salutare la sorella Virginia, la sua famiglia e il fratello, spesso Lionello non si fa vedere. Difficile per il diploma- tico accettare questo figlio tanto diverso da lui, che conduce una vita disordinata e sembra del tutto scapestrato: diviene socio in affari che riguardano le miniere in Piemonte e in Sardegna, ma i risultati sono disastrosi, ci rimette sempre. In sostanza vive con l’assegno del padre. Costantino a San Pietroburgo, nonostante le amarezze fami- liari, trova la serenità. Capito che il lavoro diplomatico da fare lì è marginale, anziché stare con le mani in mano, ritrova l’amore per la filologia e la poesia. Prosegue la raccolta dei Canti popolari piemon- tesi, lavoro iniziato nel 1854, studia il russo e gli scrittori russi. Fra questi rimane affascinato da Aleksandr Puskin, pietroburghese: di lui aleggia ancora nella città il ricordo della tragica fine in un duel- lo nel 1837. Dello scrittore traduce in italiano la poesia Il profeta, considerata ancora oggi la migliore fra le traduzioni esistenti. Nel 1878 pubblica in russo (in Italia l’aveva fatto nel 1875) il poemetto La rassegna di Novara, una specie di leggenda epica in ricordo di Carlo Alberto e dei soldati caduti nella campagna del 1849, che viene apprezzata e recitata in molti circoli. Al contempo si accorge che la vivacità della vita culturale in Russia è in gran parte relegata all’opposizione e se ne dispiace, mentre apprezza infinitamente le sontuose battute di caccia (sua grande passione) cui si dedica l’a- ristocrazia e in cui viene coinvolto. Nigra va spesso a Parigi, dove coltiva l’amicizia con i Rothschild e accresce il suo patrimonio grazie al loro aiuto nelle speculazioni in Borsa.
Nel gennaio del 1878 muore Vittorio Emanuele II e gli succede Umberto I. La politica estera cambia, diventa più dinamica: il nuovo Re va in cerca di una posizione di prestigio europeo per l’Italia. D’altro canto, fra i politici della sinistra, ancora al potere, prevale una posizio- ne più aggressiva dei rapporti fra le potenze e si guarda con crescente simpatia all’ascesa della Germania, mentre si è consolidato il distacco dalla Francia. Tutto questo fa sì che il 20 maggio 1882 l’Italia sigli il trattato della Triplice Alleanza con il Reich tedesco e l’Impero Austro- Ungarico. In questo nuovo, delicato, scenario internazionale, è arrivato il momento di «resuscitare» un diplomatico di lungo corso come Nigra, per il quale Umberto, a differenza del padre, nutre stima e ammirazione (mentre la regina Margherita lo trova troppo anticlericale).
Inizialmente il Re pensò di rimandarlo a Parigi, ma Nigra, in- terpellato dal ministro Mancini, il 29 aprile rispose: «Caro e illustre amico, voglio esprimere a Lei e a sua Maestà personalmente la più viva riconoscenza per aver pensato a me per il posto di Parigi, ma vi prego di scartare la mia candidatura. Io rendo qui al Governo del Re dei servigi modesti ma reali. Non penso di poter fare, nelle attuali circostanze, molto di più a Parigi […]. Le sarei grato se volesse far cadere la mia candidatura». Evidentemente a Costantino ancora bruciava il modo in cui era stato sollevato dal ruolo nella capitale francese sei anni prima, una cicatrice che continuava a dolere; co- munque, un punto di non ritorno.
Gli fu prospettata la sede di Londra che Nigra accettò. A di- cembre scriveva al collega Carlo Felice di Robilant, ambasciatore a Vienna: Al momento di lasciare Pietroburgo sento un vivo e sincero rincre- scimento; la mia posizione qui era eccellente; l’accoglienza di questa società era stata più che cortese, cordiale, difficoltà politiche non ne avevo affatto […]. Ora devo intraprendere una nuova vita, farmi ad altre usanze, coltivare nuove azioni, Dio sa con quale esito. Avrò noie che qui non avevo ed occupazioni maggiori. Tuttavia fra i vari posti a cui potevo aspirare, quello di Londra mi lusinga di più. Farò laggiù il meglio che potrò. Grandi errori spero di non commetterne […] Del re- sto ella sa meglio di me che la nostra azione diplomatica, se può essere, come lo è talora, aiutata dalla posizione personale degli ambasciatori, vale però in base alla forza morale e materiale che sta dietro di noi, cioè l’autorità e la forza del governo e del Paese che rappresentiamo. Si ha l’impressione che in Costantino, dopo le vicissitudini e i conflit- ti degli ultimi anni a Parigi con il governo, si fosse rotta quella molla che aveva fatto di lui uno dei protagonisti del lavoro diplomatico che portò all’Unità d’Italia. Della politica attuale stentava a sentirsi uno dei padri e percepiva che il suo Paese non corrispondeva agli ideali che aveva condiviso con Cavour. A dicembre Nigra fa le valigie e lascia San Pietroburgo (vi tornerà l’anno dopo per l’incoronazione di Alessandro III), ricevendo in dono dallo Zar, appena succeduto al padre Alessandro II morto in un attentato, la decorazione dell’Ordine Imperiale di san Alessan- dro Newsky. Ma un titolo ben più importante gli arriva dall’Italia: il 21 dicembre re Umberto, motu proprio, lo nomina conte (titolo trasmissibile agli eredi maschi). Nello stemma comitale scelto da Nigra, dove due tori si affrontano con le teste rivolte in fuori, il motto sul cartiglio, in piemontese, è Aut e Dritt, un invito al rigore morale e alla coerenza. Una bella soddisfazione per il ragazzo arrivato a Torino dal Canavese con le scarpe grosse e poche lire in tasca. Così, fresco del suo titolo nobiliare, nei giorni di Natale del 1882 Nigra arriva a Londra e prende possesso della residenza di Queen’s Gate, sede dell’Ambasciata italiana, preoccupato della sua conoscenza, non perfetta, dell’inglese.
A metà gennaio viene ricevuto dalla regina Vittoria a Osborne House, la residenza dei reali sull’isola di Wight. «Ho passato la notte al Castello e ho avuto dalla Regina la più graziosa accoglienza», racconta a Mancini. Ma le difficoltà di Costantino non sono solo linguistiche: l’Inghilterra vittoriana, con il suo impetuoso svilup- po economico, la proporzione di salariati e di stipendiati sul totale della popolazione più alta d’Europa, un’iniziativa privata cui cor- rispondeva un ceto imprenditoriale vivace e aggressivo, un’attività di governo pragmatica e fluida, non corrispondeva a nessuno degli schemi mentali in cui aveva vissuto e lavorato fino a quel momento l’allievo di Cavour. Era una società a lui poco congeniale.
A Londra Nigra rimase tre anni, senza lasciare tracce significative sul piano diplomatico. Restò il ricordo della sua fama di gran signore e di studioso: i raffinati banchetti all’Ambasciata, l’amabilità della sua conversazione, la sua arte di seduzione. Mentre, sempre di più, emergeva il letterato: l’Università di Edimburgo gli conferisce la laurea honoris causa insieme ad altri 19 esponenti della cultura di tutto il mondo, in occasione del 200° anniversario della sua fondazione. In contemporanea arriva la nomina a socio dell’Accademia dei Lincei. Nigra da linguista si preoccupa di difendere la lingua italiana come scrive al ministro Mancini il 18 ottobre 1883: Caro e illustre amico, per antica consuetudine, che in altri tempi ebbe le sue buone ragioni d’essere, il nostro Ministero per gli Affari Esteri si servì, nella sua corrispondenza in cifra colle Legazioni e coi Consolati, di dizionari scritti in lingua francese. Ora mi pare che sia venuto il momento di far uso della lingua nazionale anche per la corrispondenza in cifra. Io qui ho introdotto la corrispondenza in lingua italiana per le comunicazioni che la Regia Ambasciata fa al Foreign Office, il quale dal suo lato usava sempre, e usa continuamente, l’inglese nelle sue comuni- cazioni colle Legazioni estere. Questo cambiamento non sollevò nessun ostacolo da parte del Foreign Office e per la prima volta la lingua di Dante prese possesso, come doveva, dei suoi incartamenti […]. Vorrei che lei cancellasse quest’ultima traccia dei tempi della divisione e della servitù della patria nostra. Dico servitù perché l’essere la lingua altrui nelle cose nostre è vera servitù e servitù di pensiero [problematica tornata d’attualità con la scelta, oggetto di molte critiche, di alcune università italiane di aprire corsi esclusivamente in inglese, N.d.R.].
Uomo brillante e corteggiato, ma irrimediabilmente solo, anche se poco sappiamo delle sue innumerevoli conquiste visto il grande riserbo del personaggio. Certo è che rivide l’imperatrice Eugenia, ormai vedova, nella sua residenza di Camden-Place, a Chislehurst, a pochi chilometri da Londra, ma di questi incontri non è rima- sta traccia, nemmeno una lettera. L’unico figlio è fonte di continui dispiaceri: accumula debiti, è inconcludente. Ciliegina sulla torta, nel 1884 durante una delle sue escursioni nell’amata Val Chiusella, Lionello conosce una bella ragazza, Teresa Marten Perolin, figlia di contadini, con ben otto fratelli. Se ne invaghisce al punto da sposarla il 17 novembre di quello stesso anno. Matrimonio tenuto inizial- mente nascosto al padre (temeva soprattutto eventuali ritorsioni economiche), ma, a quanto sembra, accettato dalla madre che decide di accoglierli nella sua villa sulle colline torinesi, la vigna di San Vito. Fu poi però necessario mettere al corrente Costantino della fac- cenda; lo fece il fratello Michelangelo, cui Nigra rispose il 27 dicem- bre 1884: «Mandami ti prego la data e il giorno del matrimonio e il nome della sciagurata che ha avuto il coraggio di unire le sue sorti a quelle di Lionello».
Il diplomatico ignorò la nuora per molti anni, ma continuò a versare al figlio un assegno di mantenimento di mille lire. Da allora le sue visite nel Canavese si diradarono e per dieci anni non mise piede in casa di Lionello a Villa Castelnuovo, la casa di famiglia, restaurata, ovviamente, con i soldi del padre. Una lontananza vissuta con sofferenza perché Nigra era molto legato a quei luoghi e teneva ai doni che gli arrivavano dai parenti: pacchi di castagne e di mele, funghi secchi, tartufi. Quanto fosse affezionato al Canavese lo dimo- stra anche l’acquisto in quegli anni dei terreni dei Conti San Martino a Villa Castelnuovo (oggi frazione di Castelnuovo Nigra), dove, nel 1885, il diplomatico fece iniziare i lavori per la costruzione di una villa dove passare gli ultimi anni della vita, cosa che poi non avvenne. Nel 1885 in seguito alle critiche che accompagnarono la prima impresa italiana in Africa il governo Depretis vacillò: larghe parti del Parlamento la giudicavano costosa e inutile. Il ministro degli Esteri Mancini, costretto a dimettersi, sondò la disponibilità di Nigra a pren- dere la guida del suo Dicastero, ma il diplomatico gli scrisse: «Ti chiedo in amicizia e molto seriamente di risparmiarmi il fastidio di dover rifiutare un’eventuale proposta del Re e del mio amico Depretis». Il suo fu un no reciso, dettato da vari motivi: mancava dall’Italia da quasi 30 anni, ma sapeva di essere visto con diffidenza da buona parte dei politici al potere in quel momento; la sua libertà di manovra sarebbe stata ben poca. Un incarico del genere avrebbe potuto rappresentare una grande opportunità e una scommessa, ma evidentemente Nigra non aveva più voglia di battaglie e di sfide; rinunciò. Accettò, invece, il ruolo di ambasciatore a Vienna quando nell’ottobre, con il nuovo governo Depretis, Carlo Felice di Robilant lasciò quell’incarico per diventare ministro degli Esteri. Il 1° novembre gli arrivò questa lettera da re Umberto: «Nell’apprendere la scelta, non tardo a esprimervi, caro Conte, tutta la mia soddisfazione e i miei ringraziamenti […]». Nel gennaio 1886 Nigra parte alla volta di Vienna, ultima tappa della sua carriera. Ci rimarrà 18 anni.
Ambasciatore a Vienna
Certamente la raffinata cultura mitteleuropea e l’eleganza dell’am- biente viennese si confacevano alla storia diplomatica e personale di Nigra. Non a caso fu accolto nella capitale austriaca con calore: la sua competenza come ambasciatore e i suoi studi in campo glottologico e linguistico erano ormai conosciuti in tutta Europa (non meno nota era la fama di gentiluomo, di grande cacciatore e di animatore dei salotti). Siamo negli anni crepuscolari dell’Impero Austro-Ungarico, con le sue grandi contraddizioni fra un’indu- strializzazione a rilento e l’apparato burocratico soffocante, fra la dozzina di diverse nazionalità che alimentavano spinte centrifughe e un apparato dello Stato rigidamente centralizzato. L’imperatore Francesco Giuseppe, con la sua autorità e il suo rigore, era ancora punto di riferimento e di coesione per un mondo destinato da lì a poco al disfacimento e la storia di amore con Sissi, la bellissima Eli- sabetta, contribuiva ad alimentare il mito della monarchia. Fra lui e Nigra si creò subito un rapporto di grande simpatia, nonostante il ruolo avuto dal diplomatico nella Seconda guerra d’indipendenza e il suo lavoro a Parigi in funzione antiaustriaca per la liberazione del Veneto. Anzi, per un uomo ingessato dal protocollo come l’Im- peratore, l’accoglienza riservata a Nigra fu particolarmente affabile. D’altro canto, l’atteggiamento del tutto favorevole del diplomatico alla Triplice Alleanza (Italia, Austria, Germania) siglata nel 1882 non poteva che metterlo in buona luce. Ma la simpatia andò al di là di questa sintonia. Narra «La Stampa» del 3 luglio 1907 (due giorni dopo la morte di Nigra) che Francesco Giuseppe non promuovesse battuta di caccia senza invitare fra i primi l’Ambasciatore italiano di cui era coetaneo; i due spesso rimanevano indietro sui loro cavalli e chiacchieravano. L’ Imperatore, in seguito, gli fece dono di una riserva ricca di selvaggina per avere il piacere di condividere con lui quelle passeggiate in cerca di lepri.
Senza servilismo, ma convinto che con l’Austria o si era in guer- ra o si era alleati, Nigra ebbe un atteggiamento lineare, ma coerente alla scelta dell’alleanza. Mentre, per dovere di lealtà, condannava certi atteggiamenti che circolavano in Italia. Si stupì quando gli stu- denti di Pisa lo invitarono a una dimostrazione irredentista e scrisse all’amico D’Ancona, grande studioso come lui delle tradizioni po- polari italiane: «Ebbi il corpo forato da una palla austriaca quando quei ragazzi non erano ancora nati. Se si vuole fare la guerra all’Au- stria, la si faccia. Il Paese si prepari, prepariamoci. Io non potrò più portare il fucile, ma farò l’infermiere se sarò in vita e in gambe, ma le vane dimostrazioni sono ridicole e pericolose». D’altro canto, il compito affidato a Nigra anche dal nuovo Presidente del Consiglio Francesco Crispi nel 1887 (che gli offrì il Dicastero degli Esteri, incontrando il secondo rifiuto dopo quello del 1885 a Mancini) era di consolidare la politica triplicistica, visti l’alleanza franco-russa e il riavvicinamento fra Francia e Inghilterra. In quell’anno la Triplice venne rinnovata a Berlino perché, come sottolineò Bismarck, «la via tra Roma e Vienna passa sempre di qua» e nella trattativa Nigra ebbe un ruolo secondario. Alla Ambasciata italiana (la sede era in Palazzo Pallfy nella centralissima Josefplatz, di fianco al Palazzo imperiale) Costantino riuscì a dare un’impronta di grande prestigio culturale, proseguendo l’ottimo lavoro fatto dal suo predecessore, il Conte di Robilant, ma i suoi interessi erano ormai rivolti altrove, agli studi filologici e alla poesia. Nel 1888, al compimento dei 60 anni, Nigra pubblicò l’edizione definitiva (riedita poi nel 1957 da Einaudi) di quei Canti popolari del Piemonte cui lavorava da quando era ragazzo, raccolti dalla tradizione orale delle sue montagne (da lui e da collaboratori, tra cui la moglie Emerenziana) e dalla viva voce di molti anziani, come la domestica di casa, Domenica Bracco. Si tratta di cantilene e rime infantili, stornelli, canti narrativi, giacu- latorie religiose, corredati da una fedele traduzione in italiano. Già in parte questi brani erano stati pubblicati sul «Cimento» nel 1854, sulla «Rivista Contemporanea» dal 1858 al 1862, mentre nel 1876 sulla rivista «Romània» Costantino ne aveva spiegato il senso in un lungo saggio. Secondo Nigra la canzone narrativa dell’Italia del nord ha strette parentele con le canzoni epiche e narrative francesi, provenzali, catalane e portoghesi e i dialetti sono imparentati con quelli dell’area franco-iberica, confermando un substrato etnico celtico.
Nel gennaio dell’anno seguente avviene un fatto destinato ad avere un clamore mediatico tuttora non spento: la tragedia di Ma- yerling, il suicidio del principe ereditario, il trentenne arciduca Ro- dolfo, insieme alla giovanissima amante, Maria Vetsera. Interessante il susseguirsi dei dispacci che l’Ambasciatore invia in Italia, spia dei tentativi iniziali di occultare l’evento. Scrive Nigra al ministro degli Esteri Felice Napoleone Canevaro il 30 gennaio: «Oggi dopo il mezzodì si sparse a Vienna la notizia che S.A.I il principe eredi- tario, Arciduca Rodolfo, era morto improvvisamente nella sua casa di caccia a Mayerling nelle ore antimeridiane […]. Questa mattina alle ore 7, secondo ciò che si dice, fu trovato morto nel letto […]. L’Arciduca Rodolfo non godeva di una costituzione molto robusta ma nulla poteva far credere a un imminente catastrofe […]». Il gior- no dopo, nuovi particolari: «Le comunicazioni fatte dall’ufficio del 1° Gran Maestro di Corte, dal Ministero della Casa Imperiale e da quello dell’Interno recano che la morte fu causata da apoplessia. La Wiener Zeitung, foglio ufficiale del governo, annuncia invece che era dovuta a un colpo al cuore». Il 1° febbraio comincia a trapelare la verità: «Il decesso deve attribuirsi a suicidio con un colpo di revolver al cranio, come risulterebbe dall’autopsia sul cadavere». Ma soltanto il 6 febbraio emerge la storia in tutta la sua atrocità: Il mattino del mercoledì 30 gennaio scorso l’Arciduca fu trovato morto nel suo letto, a Mayerling, ucciso da una palla alla tempia. Giaceva sullo stesso letto vicino a lui il cadavere di Maria Vetsera, figlia della vedova Baronessa e del fu Barone Vetsera, già agente austro-ungarico in Egitto, giovinetta diciottenne, assai nota nella società di Vienna per la sua avvenenza. Si tratterebbe quindi di un doppio suicidio […]. L’autopsia del cadavere della ragazza avrebbe rivelato che non era intatta, ma che non era incinta come era stato supposto.
Si compiva così la tragedia di Mayerling, sulla quale sono state scrit- te pagine e pagine e le supposizioni sono state molte e divergenti (complotto, servizi segreti…). Nel dispaccio del 14 febbraio Nigra conclude: L’ipotesi che l’Arciduca e la ragazza si siano uccisi per accordo delibe- rato insieme non sembra ammissibile. L’Arciduca aveva notoriamente altre relazioni simultanee. È più verosimile che abbia preso l’amore di questa ragazza con leggerezza e indifferenza. Invece, si sarebbe a un tratto trovato in presenza di una passione violenta che lo avrebbe spaventato…. Il convegno di Mayerling sarebbe stato non chiesto, ma subito dall’Arciduca, e la ragazza vi si sarebbe recata munita di revolver, da lei procuratosi a Vienna, come fu accertato, con la determinazione di uccidersi se avesse avuto la certezza di un prossimo abbandono. Questa, ripeto, è pura ipotesi; ma fra tutte quelle immaginate è la più fondata. Era la verità? Ancora oggi quanto avvenne nella notte del 30 gennaio 1889 in quella residenza di caccia non è chiaro e, forse, non lo sarà mai.
Nel 1890 Francesco Crispi torna alla carica proponendo a Co- stantino per la seconda volta – lo aveva già fatto nel 1887 – di diven- tare ministro degli Esteri; incontra un nuovo rifiuto: «Anche se avessi le qualità, che non ho, per essere un buon Ministro degli Esteri, mi mancherebbe sempre, per quell’incarico, la base parlamentare che credo indispensabile. E poi sono troppo anziano per questo incarico […]» – risponde il diplomatico. Intanto fioccano i riconoscimen- ti: quello stesso anno re Umberto lo nomina senatore del Regno e Francesco Giuseppe gli concede la Gran Croce dell’Ordine di santo Stefano d’Ungheria, istituita dall’imperatrice Maria Teresa, ma il riconoscimento più importante arriverà due anni più tardi con il Collare dell’Annunziata, la massima onorificenza sabauda, che lo fa diventare «cugino del Re». Nigra a Vienna conduce un’intensa vita di società, cerca di promuovere la cultura e la musica italiane: con Verdi ha rapporti di grande simpatia. Il 1° maggio 1893 a proposito di un fascicolo di poesie che Costantino gli ha fatto avere, il grande compositore gli scrive: «Vorrei essere un letterato e un critico per poterle innalzare e dire tutto il bene che sento. Non sono che un maestro di musica e non posso dire altro che queste sue poesie tanto gentili ed elette, mi piacciono assai». La vasta cultura di Costantino è testimoniata da quanto scrive il giornalista Alessandro Luzio sul «Corriere della Sera» il giorno seguente alla sua scomparsa, il 2 luglio 1907: Ebbi occasione di avvicinare il conte Nigra dal 1893 al 1898 quando era all’Ambasciata di Vienna e rimanevo stupito della sicura dottrina con cui egli poteva discutere ex abrupto sui più svariati argomenti. Mi ricordo una volta di averlo visitato al Kahlenberg dove villeggiava e averlo sorpreso in mezzo a quei boschi insieme a un mio amico in- dagatore di miti e leggende popolari, recatosi lassù per interrogarlo a bruciapelo sulla leggenda di Don Giovanni. Il Nigra, senza scomporsi, ci regalò una magistrale dissertazione di un’ora. Poi ci lascio perché lo aspettava l’ambasciatore russo Lobanov, suo abituale compagno in quel delizioso soggiorno estivo. Purtroppo nel 1893 arriva un grave lutto: scompare il fratello, «tutta la famiglia» di Costantino, l’unico legame profondo. È Michelangelo stesso a informarlo della gravità del suo tumore nel marzo del 1893: «Fratello mio, al punto in cui mi trovo sento che il più infelice fra noi non sono io che parto per primo, abbandonando le battaglie di questa vita. So di portare con me nel sepolcro l’animo tuo e la stima di tutti gli onesti giacché a sessant’anni, ritornando indietro nella mia esistenza, non trovo coscienziosamente cosa di cui potessi arrossire». Costantino rimane come folgorato e risponde: «Mio ca- ro, mio amato fratello, ti scrivo con la disperazione nell’animo. Le leggi di natura e il mio intenso desiderio esigerebbero che io fossi il primo a lasciarti, e vuoi lasciare me? Sai, io non ho mai potuto dirti, riservato come sono per natura, tutta l’affezione che ho sempre avuto e ho per te […]». Nigra, sconvolto, muove tutte le sue conoscenze, si mette in contatto con i migliori specialisti dell’epoca, ma troppo tardi: Michelangelo muore il 25 marzo. Pochi giorni prima aveva scritto al fratello: «Ora che sto per andarmene, a me non rifiuterai un favore: quello di aprire le braccia a tuo figlio e a sua moglie. Su un altro punto ti chiedo di chiarire le tue intenzioni. Tu hai acqui- stato il castello e le terre di Bollengo intestandoli a mio nome, ma il legittimo proprietario sei tu. Dimmi che cosa ne devo fare […]». Effettivamente due anni prima Nigra aveva comprato nei pressi di Ivrea questo castello (ora in stato di abbandono, dopo essere stato sede di un collegio di gesuiti nel Novecento) e i suoi vigneti dai conti Larghi di Vercelli per regalarlo a Michelangelo. Ma quando lui scomparve, ne fece dono ai nipoti, i figli della sorella Virginia. Per quanto riguarda Lionello si limitò ad aumentargli di cento lire l’assegno: al nipote scapestrato del patrimonio dello zio non arrivò che un vecchio orologio d’oro.
Costantino non si dà pace della perdita del fratello. Scrive al cognato De Rossi (marito di Virginia): «Noi ci amavamo con una tenerezza più che fraterna e gli anni invece di temperare avevano reso questo affetto reciproco più forte e intenso. Non posso pensare che non lo vedrò più senza che io senta uno schianto nell’animo mio». In suo ricordo fa arrivare l’acqua potabile a Villa Castelnuovo, istituisce la condotta sanitaria, elevando lo stipendio del medico condotto a 1.700 lire annue, nel camposanto del paese fa costruire la cappella di famiglia.
Scomparso Michelangelo, spezzato il rapporto con il figlio, la solitudine affettiva in cui si trova il diplomatico rischia di diventare un deserto. Ma qualcosa di importante sta accadendo grazie a una signora conosciuta a Parigi anni prima – sembra nel 1875 – con la quale inizia una relazione epistolare quando arriva a San Pietrobur- go. L’11 settembre 1876, scrivendo all’amico Sormani-Moretti, in un post scriptum chiede: «Mi mandi, se lo sa, l’indirizzo della Contessa Albrizzi». E ancora dalla capitale russa nel 1880, di nuovo a Sormani- Moretti: «Se vede la Contessa Albrizzi, La prego di ricordarmi a Lei. Le ho scritto dopo la morte del padre, ma non ebbi risposta e temo che la mia lettera sia andata perduta. Ad ogni modo La prego di dirle che ho preso parte viva e sincera alla sua sventura». Elisabetta Francesca (per gli amici Elsa) era nata a Budapest dall’ufficiale dell’e- sercito austriaco Costantino de Margarit e, ventenne, aveva sposato a Vienna un uomo molto più vecchio di lei, il conte Giovanni Battista Albrizzi, rampollo di una ricca e nobile famiglia veneziana, pro- prietaria dell’omonimo palazzo nel sestiere di San Polo e di terreni e boschi con annesso maniero in Alto Adige, Castel d’Enna (tutto ancora di proprietà dei discendenti) a Montagna, piccolo centro all’epoca in territorio austriaco. Rimasta vedova giovane con due figlie, Sofia e Alba, la Contessa condusse una vita originale (aveva 75 pappagalli di cui si occupava personalmente) e sportiva: tornei di tennis, gare di bicicletta, di tiro al piattello, e, quasi uno scandalo per una donna all’epoca, di automobili. Elsa fu la prima donna al mondo presidente di un Automobile Club, quello di Venezia, fondato nel 1899. Nello stesso anno, con la sua Benz Velo, vettura che ricordava le carrozze, ma era molto leggera, organizzò e partecipò a una corsa di 172 chilometri in Veneto piazzandosi al secondo posto della sua categoria (notizia che fece molto rumore, oscurando la vittoria di un giovane Ettore Bugatti). Fu anche appassionata di fotografia e, nella villa di campagna a Este, creò un laboratorio all’avanguardia per stampare le sue lastre. Una donna moderna e intelligente, graziosa anche se non bel- lissima, che affascina Nigra fin dai primi incontri a Parigi (in quale occasione non lo sappiamo), e che già nel 1878 gli scrive da Venezia: Caro Amico, Vi è forse permesso trascurare vecchie amiche? Non so cosa dire e meritereste davvero che non mi ricordassi più di voi. Essere qualche ora a Venezia e non spingervi fin qui da me, confessate che è un po’ troppo. Ma, ahimè, il mio affetto è più profondo della mia pazienza ed è grande e vi segue con il rischio di giocare un ruolo poco dignitoso […]. Datemi vostre notizie e serbatemi un pensiero, per pic- colo che sia. Quello che vi mando io è un misto di sincero sentimento e di molta amicizia.
Qualche anno dopo, il 20 aprile 1884 Elsa scrive: «Caro Amico, seguo con uguale interesse tutti i vostri spostamenti. Vi ho visto in Italia [all’epoca Nigra era ambasciatore a Londra, N.d.R]. Non vorreste fermarvi per me un giorno a Venezia? Le vostre ragioni cessano di essere buone e io ho il desiderio di rivedervi. A voi sempre gli stessi sentimenti». E ancora dal castello in Alto Adige, nell’ottobre del 1888: Vi scrivo due righe per dirvi che ho ricevuto oggi finalmente il vostro libro [I canti popolari del Piemonte, N.d.R] e non tardo a dirvi quanto vi sono riconoscente di esservi ricordato di me. Ho subito divorato la Prefazione che mi ha fatto capire quale interessante volume avete pubblicato! Che linguaggio e che erudizione! Spero bene che questa pubblicazione farà sensazione in Italia. Mi chiedo anche: avete già inviato copia della pubblicazione alla Regina? Nello scorrerlo mi im- magino il piacere che avrei se potessimo leggerlo insieme! […] Non potreste venire a Venezia quest’inverno per vedermi? Non sono troppo insistente a chiedervi una cosa che aspetto da tanto tempo. Sono forse già la decana delle vostre amiche! Non saprò mai capire né apprezzare la differenza tra un Nigra e un Ambasciatore qualunque.
In seguito Costantino ed Elsa si vedono sempre più spesso, soprat- tutto a Vienna, e lei nelle sue lettere gli ripete che la strada più breve per Roma dalla città austriaca passa «inevitabilmente» da Venezia. Purtroppo il carteggio arrivato a noi è soltanto quello di Elsa per- ché Nigra negli ultimi anni distrusse tutte le sue lettere personali e molti documenti. Si ha comunque l’impressione che il rapporto di amicizia si sia piano piano trasformato in amore, in grande riserva- tezza, perché, ancora una volta, esisteva un ostacolo, il matrimonio tuttora valido con Emerenziana. Certo è che dal 1890 in poi i due si incontrano anche, con discrezione, nel castello della Contessa in Tirolo, mentre si intensificano i viaggi del diplomatico in Italia, alle Terme di San Pellegrino per curare i suoi disturbi respiratori, a Milano, a Roma, dove però raramente mette piede in Senato, ma soprattutto, e non a caso, a Venezia. Nel 1891 Costantino dedica a Elsa la prefazione in versi della sua traduzione della Chioma di Berenice di Catullo, corredata da note filologiche acute e precise.
La vocazione di scrittore del diplomatico sembra non avere sosta, mentre si attenua l’interesse per la politica: in collaborazione con il giornalista Delfino Orsi, giovane studioso di teatro dialettale, suo grande amico (nel 1907 diventerà condirettore della «Gazzetta del popolo»), pubblica nel 1894, nel 1895 e nel 1896, tre volumetti che rievocano le rappresentazioni popolari nelle sue valli in occasione delle feste religiose, cui lui stesso da bambino aveva partecipato su un palco allestito in un fienile: Il Natale in Canavese, La Passione in Canavese, Il Giudizio Universale in Canavese. Ma anche il poeta si esprime negli Idilli pubblicati su «Nuova Antologia» nel 1893: poesie come Nella stalla e Giugno, garbati quadretti della vita in campagna che non hanno lasciato, però, una traccia significativa nella poesia di fine secolo. «Né velleitario, né sprovveduto, né facile, anche se non un grande poeta» – lo giudicò Geno Pampaloni, noto critico letterario, anche se molti contemporanei di Nigra espressero parere diverso; tra questi, Merimée, Prati, addirittura Carducci. Importante e rico- nosciuto da tutti fu, invece, il suo lavoro come filologo delle lingue romanze, iniziato nel 1875 e portato avanti con crescente interesse fino al termine della vita. Nigra analizzò l’origine e il significato di molti vocaboli italiani e piemontesi confrontandoli con il francese e il provenzale, studiò il vocabolario valdostano e il dialetto del Vivero- ne. Curiosa la ricerca che fece su quello strano nome, Eporedia, dato alla città di Ivrea (ancora oggi gli abitanti si chiamano eporediesi), scoprendo che, a differenza di quanto si era pensato fino ad allora, la parola è di origine celtica, contemporanea ai primi insediamenti di quel popolo in Val d’Aosta e nell’Alto Canavese: da epo, cavallo, e redio, carro equestre. Non a caso «i Galli – scrive Plinio – chiamano gli eporediesi buoni guidatori di carri equestri».
Nell’ambito dell’impegno intellettuale che caratterizzò questa fase della sua vita, Nigra non tralasciò quanto era in suo potere per difendere e onorare la memoria di Cavour. Nel 1894 fu informato che Alessandro Posonyi, un collezionista di autografi che viveva a Vienna, era in possesso di 24 lettere piccantissime scritte da Cavour a Bianca Ronzani, la ballerina ungherese che fu l’amante del Conte negli ultimi anni della sua vita. Dopo averle lette, Costantino scrive immediatamente al segretario personale del Re, Umberto Domenico Berti: Vengo a chiedere il vostro concorso a un’opera pietosa verso la me- moria del nostro comune amico, il Conte di Cavour. Ho scoperto qui a Vienna un pacco di lettere intime dirette negli ultimi anni della sua vita (1857-1860) a Bianca Ronzani, ispirate da una violenta passione, scritte con imprevidente abbandono, piene di particolari del carattere più intimo, che farebbero torto alla memoria di Cavour, se conosciute e pubblicate. Con molta difficoltà ho indotto il possessore a cedermele contro un corrispettivo di denaro. Sta di fatto che se egli volesse tirar partito da queste lettere vendendole al pubblico, potrebbe ricavare un prezzo ben superiore alla somma richiesta che è di Lire 1.000. Vi prego di riferire tutto ciò al Re. Io sono disposto al pagamento di parte o anche della totalità della somma richiesta, lieto di avere l’occasione di provare il mio riconoscente affetto per quella grande memoria.
Tutto si concluse come Nigra voleva, Umberto dette il suo assenso, lo dettero anche le due sorelle Alfieri, ultime discendenti del Conte, una nubile, l’altra sposata con Emilio Visconti Venosta. Così le let- tere vennero bruciate, privando, forse, noi posteri della possibilità di conoscere un Cavour più vero di quello che ci è stato trasmesso dai libri di scuola. Sempre per onorarne la memoria, nel 1894 Nigra pubblicò le lettere di Cavour alla Contessa di Circourt, grande amica del Conte e protagonista di uno dei salotti parigini più in voga del Secondo Impero.
La politica, indubbiamente, interessa sempre meno a Nigra, anche se il diplomatico nel 1892 sigla l’accordo fra Italia e Austro- Ungheria sul regime doganale dei vini e delle birre e nel 1895 quello relativo ai certificati di origine dei vini italiani. Nel maggio 1899 partecipa all’Aja come ministro plenipotenziario per l’ Italia alla Conferenza internazionale per la pace voluta dallo zar di Russia Nicola II, conferenza che riesce a creare un organo per la risoluzione pacifica delle controversie, la Corte dell’Aja. «Onore non ambito ma che non potevo rifiutare» – confesserà lui più tardi. Costantino ha poi un ruolo centrale, su richiesta di re Umberto, nel matrimonio fra Vittorio Emanuele ed Elena del Montenegro.
Alla fine di giugno del 1896 Nicola di Montenegro, padre di Elena, si trova a Vienna di ritorno dalla Russia, dove ha partecipato all’incoronazione di Nicola II. Il Re scrive a Nigra: «Il Principe di Napoli a Mosca ha trovato molto simpatica la principessa Elena del Montenegro e desidererebbe sposarla […]. Ci sembrerebbe necessa- rio che la conversione della Principessa alla fede cattolica preceda il matrimonio […]. Se la soluzione sarà favorevole il Principe si riserva di recarsi a Cettigne [all’epoca capitale del Montenegro, N.d.R.] per trattare direttamente il matrimonio». Dopo 24 ore Costantino ha già la risposta: «Ho sondato il Principe del Montenegro e l’ho trovato ben disposto a dare il suo consenso e lusingato dell’onore. Il Principe desidera che si celebri il matrimonio e che la conversione abbia luogo più tardi, ma io gli ho detto che la Principessa non potrebbe entrare a Roma senza essere cattolica». La questione è delicata perché Nicola non vuole che la figlia lasci il Montenegro senza essere sposata e, d’altra parte, la celebrazione del matrimonio secondo il rito cattolico a Cettigne farebbe una pessima impressione in tutto il mondo slavo. Tira e molla, ma, grazie alla mediazione del diplomatico, Nicola cede su tutti i fronti: la figlia partirà per Roma nubile e abiurerà alla religione ortodossa prima del matrimonio. Evidentemente per una principessa di un piccolo Paese dove le pecore pascolavano davanti alla dimora reale, la prospettiva di diventare regina d’Italia era esaltante, quasi un sogno. I rapporti del diplomatico con Elena furono sempre ottimi: con lei, che non riuscì mai a imparare bene l’italiano, Nigra parlava in francese e fu spesso invitato al Quirinale, nonostante la bella ragazza montenegrina avesse chiuso i saloni dei banchetti e licenziato buona parte della servitù. E fu Vittorio Ema- nuele III, diventato re dopo l’assassinio del padre in un’afosissima sera di luglio del 1900 a Monza, a firmare il decreto per la messa a riposo di Nigra, il 1° febbraio del 1904, a seguito delle sue ripetute richieste. D’altro canto, già nel 1901 in una lettera a Giulio Prinetti, all’epoca ministro degli Esteri, lui confessava: «I lunghi viaggi co- minciano a diventarmi molesti, il che non le parrà strano se vorrà pensare che sono un antico soldato di Carlo Alberto, che ho servito quattro Re e che sono andato al Ministero degli Esteri cinquant’anni fa. Come lei vede, queste sono cifre molto serie che esigono con crescente insistenza un prossimo riposo […]». Costantino lasciò Vienna con una pensione di 8.000 lire, un patrimonio personale di tutto rispetto e nessun rimpianto.
Gli ultimi anni
Nel 1867 Nigra aveva acquistato a Roma Villino Crispi (già Palazzo Rappini di Casteldelfino) in una splendida posizione in cima alla scalinata di Trinità dei Monti, dove aveva ricavato per sé un pied- à-terre. Alla nomina a senatore nel 1890, l’idea fu di soggiornarvi quando doveva partecipare all’attività parlamentare (ma in Senato lo videro pochissimo); poi, lasciata Vienna nel 1904, l’appartamen- to, da cui si godeva una vista strepitosa sul Pincio, divenne la sua residenza invernale.
Nella capitale, il diplomatico frequenta i salotti intellettuali della contessa Ersilia Lovatelli e di donna Laura Minghetti, dove conosce Carducci, di cui è grande ammiratore, e raccoglie materiale per com- pletare le sue Memorie alle quali lavora da tempo, ma trova non pochi ostacoli in Giovanni Giolitti, allora Presidente del Consiglio, che gli nega l’accesso agli Archivi del Ministero degli Esteri. Sì, perché il di- plomatico, sempre restio a rilasciare interviste e confessioni sulla sua attività segreta alla Corte di Napoleone III, vuole raccontare in prima persona come sono andate le cose e intende farlo al momento oppor- tuno. Dice di no anche a Luigi Chiala, scrittore serio e documentato sulla storia del Risorgimento, quando gli chiede di pubblicare alcune lettere che gli aveva scritto Cavour sui negoziati per la cessione di Nizza e della Savoia, avute da terzi. Nigra risponde: «Ad un distinto scrittore storico, com’Ella è, non ho bisogno di ricordare come la critica moderna non si contenti più di documenti spaiati o monchi a fondamento de’ suoi giudizii. Il metodo di costruire la Storia su que- ste basi incomplete, e perciò inesatte, è un errore grave e deve essere condannato […]». Niente da fare: solo Nigra può raccontare Nigra. Ma esita, come scrive all’amico Delfino Orsi nel 1897: «Confesso che sono molto dubbioso se io debba pubblicarle o no [le Memorie,
N.d.R.]. Più avanzo in età e più i miei dubbi si accrescono. E non sarà impossibile che un giorno getti tutto nel fuoco. Ogni volta che le rileggo, trovo cose che è impossibile il dire. E d’altra parte memorie castrate non ne voglio. Vedrò […]». E ancora: «È troppo presto: è in vita ancora troppa gente cui molti giudizi, e più il richiamo dei fatti, incontrovertibili ma sui quali altre versioni interessatamente sono fin qui state date e accettate come sicure, potrebbero nuocere. Credo che non pubblicherò queste memorie, saranno conosciute dopo la mia morte; molti odi e molti amori saranno allora nella tomba e la verità non farà più paura». In realtà Nigra dette alla stampa pochissimo: nel 1895 pubblicò su «Nuova Antologia» un brano delle memorie, Ricordi Diplomatici, sull’atteggiamento italiano rispetto alla guerra fra Francia e Prussia del 1870 e nel 1903, sulla «Gazzetta del Popolo», un racconto del viaggio a Parigi e a Londra di re Vittorio e di Cavour nel 1855 (di cui abbiamo già riferito). Poco altro; si sa, però, che nel 1903 le Memorie erano concluse e lui le aveva sempre con sé nei viaggi, in una piccola cassaforte portatile.
Negli ultimi anni del soggiorno a Vienna Costantino si era mes- so a cercare casa anche a Venezia, scelta in cui giocava un ruolo chiave il legame sempre più profondo con Elsa Albrizzi. Nel 1901 lei gli scrive: «Voglio essere per la fine delle nostre esistenze l’amica indispensabile, anche se non sono diventata Ambasciatrice d’Italia, perché questo avrebbe potuto e dovuto essere». Il desiderio diventa realtà nel 1898 quando, grazie all’aiuto della contessa Anna Morosini, Costantino compra una palazzina del Settecento sul Canal Grande alla confluenza con Rio Marin e ne affida i lavori di ristrutturazione all’architetto veneziano Giovanni Sardi, una delle figure di maggior rilievo tra l’Ottocento e il Novecento nella città della laguna (a lui dobbiamo la Casa De Maria alla Giudecca, l’albergo Excelsior del lido e il Bauer). Sardi crea un complesso bizantino-gotico, dove, sull’onda dell’eclettismo in voga all’epoca, ripropone, attualizzandoli, il gusto veneziano dei mosaici e dei marmi e quello orientale dei vetri piombati dai colori vivaci. I lavori furono completati nel 1904 con l’allestimento di due giardini cui contribuì non poco Elsa, quello delle rose sul Canal Grande, quello dei gelsomini su Campo di San Simeone Grande. Nigra portò nella sua nuova casa broccati e sete pregiate, arredi francesi, preziosi cristalli. Il buen retiro (oggi è un hotel di lusso che conserva elementi originali) in laguna è pronto: lì il diplomatico può riordinare le Memorie, vedere Elsa, frequentare alcuni scelti salotti. Costantino si tiene comunque lontano dagli incontri ufficiali e dalla vita mondana: è stanco e la sua salute non va; ha attacchi d’asma continui che lo costringono a lunghi soggiorni in località termali, ormai senza miglioramenti. Proprio a Venezia nel 1905, incontra l’ex imperatrice Eugenia, arrivata in città con il suo yacht e ospite della contessa Morosini, grande amica di entram- bi (Nigra non vedeva Eugenia, dacché le aveva fatto visita nel suo esilio a Camden Place, a pochi chilometri da Londra, quando era ambasciatore nella capitale inglese).
Purtroppo la vita in laguna non gli dà la serenità sperata: forse anche per il clima umido, le sue condizioni respiratorie peggiorano progressivamente e subentra una sorta di cupa depressione, nono- stante la vicinanza di Elsa. Costantino comincia a distruggere gran parte dei documenti che aveva conservato fino ad allora e dà alle fiamme tutti i suoi carteggi privati. Nell’inverno del 1906 è a Roma curato dai migliori medici, ma non ci sono segni di ripresa. Scrive lo storico Raffaele De Cesare che lo frequentò in quegli anni: «Quando le condizioni di salute l’obbligavano a non uscire di casa o uscirne di rado, egli sedendo presso le ampie finestre indorate dal sole si sentiva confortato e quasi ristabilito». Ciononostante, il suo fascino restava intatto. Così lo ricorda Livio Minguzzi, che lo conobbe nella stessa epoca: che il conte Nigra fosse un dicitore, un narratore impareggiabile è stato ripetuto concordemente ma a qual punto giungesse la seduzione, lo charme del suo conversare non può saperlo davvero se non chi l’ha ascoltato. Poiché lungi dalla inamidata riservatezza del diplomatico, egli era facile alla conversazione. Sorretto da una memoria freschis- sima, aveva sempre pronti nomi e date mentre la stupenda comuni- cativa e il temperamento artistico gli facevano sgorgare dalle labbra il racconto, caldo, colorito e palpitante. Che se a ciò si aggiungono la finezza e la signorilità dei modi, la prestanza non ancora cessata della persona e la suggestione dei ricordi che lo circondavano, si intende il fascino che emanava ancora dal vecchio diplomatico.
Nel giugno del 1907 Lionello, con il quale Nigra si è rappacificato da pochi mesi (volendo forse esaudire la richiesta del fratello Mi- chelangelo) e che lo ha reso nonno con la nascita di Costantino nel 1905, vuole che il padre vada a Rapallo dove ha preso in affitto Villa Tigullio. Per evitare al vecchio diplomatico il disagio di un viaggio in treno, il governo mette a disposizione il cacciatorpediniere Elba che lo porta da Civitavecchia alla cittadina ligure. I primi giorni Costantino sembra stare meglio: passeggia sulla spiaggia e, in giar- dino, rivede le bozze di un lavoro di filologia. Ma poi compare una violenta crisi d’asma, subentra un edema polmonare e la notte del 1° luglio spira tra le braccia dell’odiata nuora Teresina; cosa pa- radossale, non l’aveva mai accettata e nei pochi incontri le aveva rivolto poche parole in piemontese. Non solo, un anticlericale senza ripensamenti come lui, si trova al capezzale l’arciprete di Rapallo, don Cesare Boccoleri. Il diplomatico aveva dato disposizioni per un funerale modesto, senza fiori, senza celebrazioni; aveva chiesto soltanto un picchetto di bersaglieri in ricordo della sua esperienza in guerra del 1848. Tutto fu come lui aveva disposto: unico particolare non previsto, da Venezia, arrivò un cuscino ricamato con una ciocca di capelli, da mettere sotto la testa del defunto. Grande assente, Emerenziana, che con questo gesto confermò il distacco definitivo dal marito messo in atto tanti anni prima; morirà a Torino nel 1911.
Costantino riposa a Villa Castelnuovo, oggi frazione di Ca- stelnuovo Nigra, nella cappella di famiglia fatta costruire da lui, accanto ai genitori e al fratello.
E le Memorie? Ufficialmente scomparse nel nulla. I grossi fa- scicoli di carta rilegati, che molte persone avevano avuto modo di vedere nelle mani di Nigra soltanto qualche mese prima, non furono trovati dopo la sua morte. Da qui una ridda di ipotesi che ancora oggi rimangono tali. Costantino negli ultimi mesi di vita bruciò nel camino della casa di Venezia una gran quantità di lettere, fotografie e documenti. Ma fra questi non c’erano le Memorie, stando a quanto ha raccontato il fidatissimo segretario, l’avvocato Guidoboni, che lo aveva aiutato a disfarsi delle carte. È anche possibile che, obbe- dendo a un ordine ricevuto in precedenza, siano state distrutte dal devoto maggiordomo Antoine il quale, in effetti, sparì subito dopo la morte di Nigra, per ricomparire il giorno delle esequie. Era an- dato a Venezia a svolgere il suo compito? Possibile, visto che sulle copertine di alcuni fascicoli – secondo varie testimonianze – c’era scritto: «Da ardersi in caso di morte». La perdita delle Memorie si accompagna a un’altra scomparsa, quella del testamento, sospet- ta perché parenti e vari enti pubblici avevano ricevuto da Nigra promesse di lasciti. Fu Lionello a farlo sparire? Chissà. Certo è che il diplomatico lasciò un patrimonio imponente, valutato 14 milioni di euro attuali, fra immobili, titoli azionari depositati in banca a Parigi e contanti (stando alle stime fatte dal Centro Studi Nigra). Ma, ironia della sorte, il figlio non poté goderne: morì per un attacco cardiaco l’anno dopo. Il piccolo Costantino, gravemente handicappato, scomparve nel 1914 e con lui si estinse la discen- denza dei conti Nigra. E nemmeno ne godette la probabile figlia illegittima austriaca. Il giornalista Carlo Richelmy in un articolo su «Stampa Sera» del 1951 racconta che il giorno seguente al funerale comparve una giovane donna che si gettò piangente sulla tomba di Costantino e la ricoprì di fiori. Molto bella, bionda, si chiamava Angela Hubner e doveva essere nata a metà degli anni Ottanta, nel periodo in cui Costantino era ambasciatore a Vienna. Sosteneva di vivere in una bella casa fatta costruire dal Senatore e si aspettava di essere ricordata nel testamento. Ma questo, come abbiamo detto, si era dissolto nel nulla.
Alla fine, l’unica erede fu la nuora Teresina che condusse una vita sfarzosa, dilapidando parte del patrimonio; alla morte di lei, nel 1928, quel che restava (ed era ancora molto) passò ai numerosi fratelli per disperdersi poi in rivoli di spartizioni ereditarie. Oggi la testimonianza più evidente di Nigra nella terra dove nacque è, para- dossalmente, una casa dove lui non ha mai vissuto: quella che aveva intenzione di costruire quando, nel 1885, acquistò a Villa Castelnuo- vo il terreno intorno al vecchio castello di San Martino, ora ridotto a un rudere. Alla sua morte, la nuora affidò i lavori a un architetto (di cui si sono perse le tracce perché un incendio ha distrutto l’archivio del Comune) che realizzò una villa liberty ben inserita nel paesaggio, trasformando in giardino uno dei cortili dell’antico castello: all’in- terno disegnò un grande scalone (ma sembra che lo schizzo fosse di Costantino) con una balaustra di ferro battuto adorna di tralci d’uva.
Ora la grande casa abbandonata da anni è senza tetto, sventrata, in attesa di restauro, ma, come si racconta, allietata da singolari pre- senze: sulla terrazza che dà sul giardino ogni tanto, al chiarore della luna, compare il fantasma della Contessa di Castiglione. Bellissima e, ovviamente, senza veli.